Sandro Viola, la Repubblica, 22/2/2009, 22 febbraio 2009
DITTATORI DEL TERZO MILLENNIO
Parlando di dittature, non bisogna fare di tutt´erba un fascio. Sono le democrazie, e in particolare quelle cosiddette «mature», che si somigliano. Divisione dei poteri, suffragio universale, sovranità del Parlamento, il tutto in mano a un personale politico che col passare degli anni s´è andato facendo ovunque, da un emisfero all´altro, sempre più smorto, sbiadito, impiegatizio. Sì, è vero, a volte affiora una novità: il nero Obama, la donna stupenda entrata l´anno scorso all´Elysée, le dichiarazioni omofobe d´una regina, il ministro delle Finanze giapponese ubriaco fradicio come neppure Boris Eltsin al tempo anni delle sue sbornie. Ma sono novità minori, temporanee, e poi tutto continua come prima.
Diversa è invece la vista sul versante dittatori e dittature. Quanta diversità, fantasia, teatralità ci hanno infatti proposto dal Novecento a oggi i tiranni e i totalitarismi.
Cominciando dalle diete dei dittatori. Antonio de Oliveira Salazar (che fu dal 1926 al 1968 l´autocrate del Portogallo) mangiava un piccolo pesce lesso con due patate a pranzo, e la sera soltanto una minestra di cavolo e patate detta «caldo verde», specialità della sua governante donna Maria. Inutile dirlo, il dittatore portoghese era astemio.
Anche Hitler e Mussolini erano deboli di stomaco: brodini, fettine di vitello ai ferri, verdure bollite. Hitler ogni tanto un sorso di champagne, il Duce neppure quello. Francisco Franco aveva invece conservato ancora verso i settant´anni un buon appetito. Poco vino, ma pesce, carne e dolce a pranzo, squisitezze (crostacei, pernici, formaggio galiziano o della Mancia) a cena. Da vecchio era diventato però troppo goloso, e infatti le sole volte che osò alzare la sua voce senile con la moglie fu a causa del foie gras, che su consiglio dei medici donna Carmen s´impuntava - e certamente godeva - a proibirgli.
Lontano da lì, verso la fine dei Trenta, un altro despota aveva lo stomaco anche più robusto di quello del Caudillo de España: Josif Stalin. Il dittatore non mangiava quasi niente, qualche biscotto al massimo, durante il giorno. Ma verso le dieci di sera andava a tavola con i suoi accoliti - Voroscilov, Molotov, Kaganovic, Mikoyan, Berija, Rykov-, e lì mangiava (ma soprattutto beveva: vodka piccante, rosso georgiano e brandy armeno) sino alle prime luci dell´alba, ogni tanto palpeggiando il sedere d´una cameriera del Cremlino. Tra una bottiglia e l´altra il suo buffone, Karl Pauker, un ex parrucchiere dell´Opera di Budapest, provvedeva ai lazzi. E la notte successiva alla fucilazione di Kamenev, fece sbellicare l´intera tavolata mimando il terrore, le implorazioni, le grida dell´infelice Lev Borisovic mentre gli uomini della Nkdv lo portavano al muro.
Certo, a proposito di libagioni l´attualità rivaleggia con i libri di storia. Sullo sfondo della miseria che affligge il suo Paese, il dittatore nord-coreano Kim Jong Il beve soltanto grands crus bordolesi, Cheval Blanc, Château Margaux, Mouton Rothschild, i vini più costosi del mondo. E in un Paese che è addirittura alla fame, flagellato dall´Aids, lo Zimbabwe, il presidente-padrone Robert Mugabe ha offerto giorni fa un pranzo di compleanno con 400 aragoste, 60 chili di caviale, 140 di foie gras e mille bottiglie di buon champagne. Scandaloso? Sì, scandaloso. Ma sempre meglio del dittatore della Repubblica centroafricana, l´ex sergente francese Bokassa, autonominatosi imperatore, che negli anni Sessanta - a sentire numerose testimonianze - faceva conservare i resti delle sue vittime in frigo, di quando in quando scegliendone un pezzo da far servire a tavola. Un altro terreno sul quale i dittatori hanno mostrato un´irrefrenabile fantasia, un talento da costumisti d´operetta, è quello delle uniformi. Oggi è restato il solo Gheddafi a lasciarci a bocca aperta, ogni volta che lo vediamo in una nuova mise (l´ultima: pelli di leopardo, berretto da aviatore, scarpe argentate) seguito dalle nerborute ragazze che gli fanno da guardie del corpo. Ma in passato, quante stupefacenti invenzioni, copricapi, spalline scintillanti, giubbe disseminate di medaglie, decorazioni sino all´inguine, tra Mussolini, il generalissimo Chang Kai-Shek, i due re dell´Irak e il cubano Fulgencio Batista. Quali incredibili fez, elmi e colbacchi circassi per le loro guardie d´onore, quante trovate per le uniformi della patria gioventù.
E non parliamo dei caudillos latino-americani. Di come si bardavano il messicano Iturbide (anche lui autonominatosi imperatore), il boliviano Melganjo (alcolizzato, paranoico con manie di grandezza), o il più narcisista di tutti loro, il venezuelano Antonio Guzmán Blanco. Blanco non era uno stupido, era anzi un intellettuale anche abbastanza raffinato, ma nella Caracas degli anni Ottanta dell´Ottocento si pavoneggiava con indosso un´uniforme da Maresciallo di Francia. Non a caso fu lui ad ispirare un romanzo molto bello e purtroppo dimenticato, El recurso del metodo, opera del cubano Alejo Carpenter.
proprio in Venezuela che s´affaccia in questi giorni un´altra dittatura. Tinte castriste, arredo verbale di marca Bertinotti, e sotto la crosta populista la consueta, feroce avversione per la borghesia e il sistema democratico-liberale. Certo, il nuovo caudillo di Caracas, Hugo Chávez (che s´avvia a diventare, con la recente modifica referendaria alla Costituzione, presidente a vita) non veste l´uniforme dei Marescialli di Francia. Al contrario, indossa sempre l´uniforme mimetica dei paracadutisti, corpo di cui fu nel passato colonnello. Ma in cuor suo deve sentirsi ben più di tutti i Marescialli di Francia. Minaccia gli Stati Uniti, alleva discepoli nel subcontinente, toglie il fiato alla borghesia produttiva in nome del «pueblo vencedor».
Ma un giorno di due anni fa Chávez trovò pane per i suoi denti. C´era un vertice ispano-americano, lui era seduto di fianco al re di Spagna, e dalla sua bocca uscivano fiotti d´ingiurie contro l´ex primo ministro di Madrid, José Maria Aznar. In vari cercarono allora di zittirlo, ma senza successo. Sinché Juan Carlos di Borbone, la faccia severa, non scattò: «Porqué no te callas?», perché non taci? Subito «el defensor del pueblo» sbatté gli occhi, e tacque ormai afflosciato. Da allora non possiamo guardare una sua fotografia senza pensare alla frustata del Borbone: perché non stai zitto? La stessa frustata che vorremmo menare, ogni volta che li vediamo, sulla schiena dei partecipanti ai talk-show televisivi.