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 2009  febbraio 23 Lunedì calendario

IL PETROLIO CHE VIENE DAL FREDDO


Il Mar Glaciale Artico è la miniera inesplorata più vasta del mondo. Secondo una stima del Servizio geologico degli Stati Uniti, infatti, sotto i suoi ghiacci si nasconderebbe quasi un quarto dei giacimenti di idrocarburi di tutto il pianeta. L’ equivalente, all’ incirca, di 100 miliardi di barili di petrolio, una quantità vicina alle riserve complessive di Kazakistan, Nigeria e Messico. Se per diversi anni questa consapevolezza è rimasta solo sulla carta, oggi nuovi scenari si stanno progressivamente spalancando: il timore di un esaurimento prematuro delle scorte di greggio, ma soprattutto il ruolo giocato dal global warming, il riscaldamento globale che continua a rendere la calotta del Polo sempre più sottile, ha spinto diverse compagnie a investire somme importanti, a dare vita a una vera e propria corsa all’ oro sommerso dell’ Artico.
La prima in assoluto a passare dalla teoria alla pratica è stata la norvegese StatoilHydro, che dall’ autunno del 2007 è attiva nel mare di Barents con il progetto "Snoehvit" (letteralmente "neve bianca"). Al largo di Hammerfest, la cittadina situata più a nord del mondo, l’ azienda estrae gas naturale da un giacimento scoperto nel 1984, lo trasporta tramite un condotto a 90 miglia di distanza e, dopo averlo liquefatto, lo vende in Europa e negli Stati Uniti. Per riuscire in quest’ impresa senza precedenti ci sono voluti 7,73 miliardi di dollari, quasi il 50 per cento in più di quanto era stato preventivato in origine. E la spesa per le prossime fasi di sviluppo per ora si è quasi triplicata, salendo da 1,2 miliardi a 3,34 miliardi. Un’ impennata dei costi che rischia di diventare la regola in una regione per definizione inospitale, isolata dai mercati tradizionali, priva di manodopera e di materie prime.
La StatoilHydro, anziché realizzare gli impianti sul posto, si è vista costretta a ordinarne la costruzione in Spagna. E in un secondo momento, tra notevoli difficoltà logistiche, ha dovuto trasportare una struttura da 33 mila tonnellate fino a Melkoya, la piccola isola vicino Hammerfest dove avviene la lavorazione del gas. Ma oltre a quelle connesse allo startup in una terra desolata, funestata da tempeste e piena di iceberg, sono state parecchie le criticità che la compagnia ha dovuto risolvere nei mesi successivi, quando gli impianti erano entrati in funzione. Più volte sono stati spenti per riparare alcuni guasti, due scambiatori di calore sono già stati sostituiti e altri quattro verranno rimpiazzati nel corso di quest’ anno. Ogni interruzione, inoltre, è stata accompagnata da fiammate alte 100 metri, a cui si sono aggiunte quelle legate alla combustione del gas in eccesso: una pratica solitamente non consentita in Norvegia perché ritenuta dannosa per l’ ambiente, ma che ha ricevuto un’ autorizzazione straordinaria da parte delle autorità locali. Non senza conseguenze: Svein Jorstad, giornalista di Hammerfest, ha raccontato che spesso la cittadina si è riempita di fuliggine; che le auto, le barche e le case erano diventate nere. Di più: a maggio del 2008, il governo di Oslo ha rivelato che Snoehvit è stato il responsabile principale dell’ aumento del 3 per cento delle emissioni di gas serra in Norvegia.
Oggi che il peggio è passato, i vertici dell’ azienda hanno più di una ragione per dirsi ottimisti: gli impianti hanno raggiunto quasi il 90 per cento della loro capacità operativa rispetto al 60 per cento dei mesi scorsi, e anche le fiammate legate alla combustione del gas si stanno riducendo fino a scomparire. Guardando al futuro, il prossimo passo la StatoilHydro lo farà con buona probabilità con Eni Norge, la sussidiaria norvegese di Eni, che nella regione è presente sin dagli Anni ’ 70 ed è operatore al 65 per cento nel piano di sviluppo del giacimento di Goliat. Giusto la settimana scorsa è stato inviato al ministro dell’ Energia un progetto che rappresenta un passo chiave per la realizzazione della prima area petrolifera offshore nel mare di Barents. E che, una volta completata, rispetterà i più alti standard ambientali: l’ elettricità, per esempio, verrà portata fino alle piattaforme tramite un cavo sottomarino riscaldato, evitando così di inquinare con i generatori. La discussione finale del piano di fronte al Parlamento è attesa per il secondo trimestre di quest’ anno.
Le risorse degli abissi dell’ Artico, è ormai chiaro, fanno gola a tanti: lo scorso anno la Royal Dutch Shell ha speso 2,1 miliardi di dollari per esplorare i fondali del mare di Chukchi, al largo delle coste dell’ Alaska. E i russi di Gazprom, in collaborazione con la Total e la stessa StatoilHydro, si stanno concentrando da tempo sul progetto che riguarda l’ enorme giacimento di Shtokman, anche questo nel mare di Barents. L’ intento è quello di costruire un lungo gasdotto e un impianto per la liquefazione a Murmansk, nell’ estrema parte nordoccidentale del Paese, dove le navi potranno fare il pieno prima di raggiungere i rigassificatori di tutto il mondo. La decisione è attesa nel primo trimestre del 2010 e l’ investimento potrebbe superare i 40 miliardi di dollari.
Se è vero che i tempi sono ancora lunghi, sebbene qualcosa di importante si stia già muovendo, occorre precisare che l’ obiettivo condiviso da molte compagnie è quello di essere pienamente operative entro l’ estate del 2030. Una data non certo presa a caso, visto che allora, a causa del riscaldamento globale, il ghiaccio dovrebbe essersi sciolto quasi ovunque. L’ oro nero nascosto nei fondali, a quel punto, sarà agilmente alla portata di Russia, Stati Uniti, Canada, Norvegia e Danimarca (tramite la Groenlandia), ovvero i cinque Paesi che si affacciano sull’ Artico e che già hanno iniziato a contendersi le sue ricchezze sommerse.