Come si seducono le donne (1909- 1919), Filippo Tommaso Marinetti di Giordano Bruno Guerri, Le Scie, Mondadori, 2009. Pagg. 117- 127, 24 febbraio 2009
COME SI SEDUCONO LE DONNE (1909- 1919)
Si avvicina il tempo della guerra, ma prima parliamo di amori. Altri intellettuali e scrittori del suo tempo (D’Annunzio su tutti) hanno goduto fama di tombeur de femmes, mentre intorno a Marinetti aleggia l’alone del rivoluzionario integerrimo, immune dal contagio di passioni carnali e da sfrenate attività erotiche. In più, l’equivoco ancora oggi resistente sul «disprezzo della donna» sembra negargli a priori la conoscenza dell’universo femminile. Vi si aggiunga che la nostra forma mentis è ancora oggi legata a una concezione dell’amore travolgente, passionale e magari contrastato. Ci piacciono le vicende romanzate, dense di pathos, premiate sì da un languido lieto fine, ma insidiate da ostacoli, rinunce e sofferenze. Allo stesso tempo, siamo attratti da amori impossibili, misteriosi, eccentrici. Gli innumerevoli amori dannunziani ci colpiscono per le presunte stravaganze del poeta soldato, ma anche per le stranezze ammaliatrici delle sue partner fuori dal comune. Non abbiamo la stessa curiosità nell’esplorare i territori erotici di un amante che del sesso ha conosciuto solo l’ebbrezza e la felicità ferina, senza il controcanto dello sfinimento e delle lacrime.
Ciò spiega perché Come si seducono le donne, libro autobiografico del 1917 tutto incentrato sui suoi trionfi amorosi, sia tra i più trascurati della vastissima bibliografia marinettiana: benché contenga, oltre a una miniera di aneddoti sulla sua carriera di seduttore impenitente, preziosi approfondimenti sulla concezione della donna, dell’amore e dell’eterna lotta tra i sessi, qui illuminata con una sensualità e un realismo senza uguali nella nostra cultura. Il fatto è, scrivono nell’introduzione Corra e Settimelli, che «i libri sulle donne son stati scritti da uomini che non le conoscevano affatto o che erano rimasti massacrati da un unico amore infelice», mentre Effetì parla delle donne «dopo averne goduto e non sofferto».
Marinetti conobbe Benedetta - che amerà fino al termine dei suoi giorni - nel 1919, a quarantatré anni, e si sposò a quarantasette. Fino a allora la sua vita sentimentale fu un susseguirsi di seduzioni facili e gloriose, come spetta a un creatore fascinoso. L’aspetto gradevole, il suo contegno anticonformista e la fortuna dei suoi averi gli avrebbero permesso di scegliere il meglio. Invece seppe adattarsi, mostrando anche nelle imprese amatorie l’elastica duttilità che il futurismo considerava una delle qualità dinamiche dell’uomo al passo dei tempi. Lontano dalle fantasie dannunziane, ma anche dai sentimentalismi morbosi alla Fogazzaro, Effetì non delineò mai l’immagine di una donna ideale. Frequentò, per effimeri incontri carnali, borghesi annoiate e aristocratiche di tutta Europa desiderose di arricchire il loro carniere con chi proclamava il «disprezzo della donna»: ma non erano le sue predilette. Non risparmiò fanciulle troppo carine per essere oneste, lavoratrici di case d’appuntamento d’alto bordo e di bordelli infimi, eccentriche con aspirazioni artistiche e popolane senza pretese.
Inutile aspettarsi complicati intrecci amorosi: le sue vicende si esauriscono in un erotismo scanzonato, in scattanti novellette in cui l’intelligenza prepara la festa del sesso, attesa dall’uomo e - si badi bene - anche dalla donna. Per questo non conobbe il delirio lirico, la via crucis tormentata dell’innamoramento: anche quando amò sinceramente, come amò Benedetta, lo fece senza le malie e i giuramenti tradizionali, senza il rituale di palpebre socchiuse, promesse sussurrate, inquietudini languide.
Nel loro elogio dei sensi, per i futuristi l’amore significa soprattutto conquista e amplesso. In Mafarka, Marinetti si fa beffe della morale comune affermando che «Possedere una donna non è strofinarsi contro di essa, ma penetrarla» e che «Non vi è di naturale e di importante che il coito il quale ha per scopo il futurismo della specie». Nella raccolta Novelle colle labbra
tinte, a una bionda trentenne europea viene suggerito «di attraversare l’oceano in cerca di maschi esotici e di notti d’amore veramente emozionanti», in una favolosa città della Florida, Kuroo, dove i negri sono di una bellezza sorprendente: «Fortissimi, muscolosi, ma agili e senza le esuberanze massicce della loro razza», golosamente desiderosi di donne bianche, specie se bionde e fragili. La «forza esasperata del negro inferocito» darà all’evanescente creatura «l’equilibrio morale, erotico, sentimentale» impossibile da acquisire «in mille flirts cretini o amori pessimisti e stanchi».
I futuristi regalano ai benpensanti anche continui elogi della prostituzione: Ruggero Vasari le dedica una tesi di laurea che gli accademici dell’università di Torino non vogliono neanche discutere; Italo Tavolato ne canta le lodi sulle pagine di «Lacerba» e si ritrova in tribunale; Mario Betuda difende La donna del trivio dalle ipocrisie e dai pregiudizi delle signore perbene: « una donnaccia da trivio, dicono./ lo vi grido in faccia, oneste che condannate, che l’anima di quella donnaccia /vale l’anime vostre tutte, raccolte in una./ Voi aveste fortuna: ella non ebbe fortuna». La stessa de Saint-Point, autrice del ManIfesto della donna futurista, scrisse: «La donna, che colle sue lagrime e il suo sentimentalismo ritiene l’uomo ai suoi piedi, è inferiore alla prostituta che spinge il suo maschio per vanagloria a conservare col revolver in pugno la sua spavalda dominazione sui bassifondi della città. Questa femmina coltiva almeno una energia che potrebbe servire migliori cause». Anche Effetì sostenne, in Come si seducono le donne, che una puttana può essere più onesta di una donna fedele, e indica l’esempio di una prostituta con «una doppia vita di frenetica sensuale tutta capricci, desiderio di nuovo, passione per l’uomo celebre, capace di abbandonarsi su un divano in un giorno di pioggia ad un uomo desiderante, e - capace anche di condurre la sua famiglia e l’educazione dei suoi bambini con una regolarità da officina».
Effetì è conscio del proprio fascino e delle emozioni che sa suscitare, anche prima di diventare celebre. Nessun diaframma stilnovistico lo divideva dalle donne, che ai suoi occhi avevano perduto ogni angelica sacralità per farsi fascio di nervi e di vibrazioni sessuali. Era sicuro che ognuna nascondesse, celato dalle convenzioni, un istinto primordiale all’accoppiamento da risvegliare senza ipocrisie. Perciò bandì il classico e stucchevole armamentario del corteggiamento. Al suo posto, ecco una schermaglia di sensi e parole, allusioni e assalti repentini, dove a prevalere non sono l’eleganza dell’eloquio e la misura del contegno, ma la sorpresa del gesto e l’irruenza senza timidezza.
Con le donne ha un’aria sparviera e va dritto al bersaglio, sempre avanzando le fantasie amatorie, più di quelle intellettuali; come il protagonista della «novella simultanea», 11 baci a Rosa di Belgrado: «Mi piacete. Voglio interessarvi alla mia persona e al mio ingegno. I deliziosi sentieri carnali sono sempre quelli che prendo in simili casi. Voi siete la più volubile delle donne, e come tale, vi divertite a buttare di sella l’amante malaccorto che non sa trovare per voi un avviticchiante bacio originale». Un approccio a quei tempi trasgressivo, dunque gradito alle signore e alle signorine che si accostavano a lui come ci si accosta a un falò.
Del resto Marinetti ripeterà spesso che le sue ragazze «le ama tutte per non far torto a nessuna». Le ama, naturalmente, a suo modo: «Una donna sarà sempre con me» scrisse nei Taccuini alla fine del 1919 «un po’ assetata di complicazioni sentimentali e di astruserie delicate e di dolcezza inconcludente». E, pochi mesi dopo: «Sono sull’orlo del meraviglioso abisso d’incoscienza e non vi cado. Poiché la forza del mio io - dominazione creazione Arte Gloria mi trattiene, vigila nutre riempie consolida sulle gambe». Senza trascurarne nessuna, purché fosse bella o lo attirasse in qualche modo, prediligeva le donne dalla personalità forte, sicure di sé, capaci di sfidare i maschi sul loro terreno ma senza mai farsi catturare del tutto. Con il Manifesto, la fama aumenta a dismisura il suo successo anche con donne molto contese.
esemplare la sua avventura con Isadora Duncan, la celeberrima ballerina americana che Marinetti conobbe a Parigi nel 1909. Quasi coetanea, quell’anno Isadora esordì nella capitale francese e la sua «danza libera» - che finirà per influenzare anche il balletto classico - suscitò reazioni simili allo sconcerto provocato dal Manifesto. L’incontro di reciproca ammirazione fu inevitabile. Colta e affatto conformista anche lei (Isadora era madre senza essere sposata), è rimasto nella storia un loro ultimo dell’anno insieme, forse quello del 1909, forse quello del 1910. «Soli in casa mia: e io ballerò per te tutta la notte» promise invitandolo nell’antico e grandioso studio di Rodin che aveva affittato e «nebbiosamente drappeggiato di altissime tende di velluto perlaceo lilla viola fumo».
Dopo una cena a base di cibi indiani, frutta tropicale e «droghe sospette», passata la mezzanotte arriva come un fantasma meccanizzato un pianista in frac, occhialuto e striminzito, che suona agli ordini, «senza mai aprire bocca né guardarci». Nel caldo torrido che Isadora predilige, «ebbra di champagne cognac whisky», danza seminuda «come un grande oratore parla» o «come un bel fiore nella brezza primaverile». Assillati da mille desideri, «baci carezze amplesso ritorni di fiamma non bastano né a me né a lei». Effetì pretende una danza futurista che è ancora nella sua testa, il relativo manifesto verrà nel 1917 - e suggerisce il tema: trecento lampade elettriche che abbagliano la luna. Isadora esegue: «Dopo un primo viluppo di passi sospirati e gementi la danzatrice mutatasi in motore moltiplica girando a tutta velocità le allucinanti rotondità di cento lampade elettriche in zuffa fra loro per soverchiarsi». Eccitata dalla sua stessa impresa e dall’uomo che gliel’ha suggerita, Isadora gli propone un matrimonio. Marinetti, «benché innamoratissimo», non ci pensa neppure. Ha sedotto una delle donne più desiderate al mondo e ora vuole andare nei giardini di Versailles, a vedere la prima alba dell’anno nuovo. Le parla delle «infinite libertà spirituali e quindi musicali del Golfo di Napoli».
Nel 1909, dopo il Manifesto, Effetì aveva iniziato un amore destinato a durare tre anni, con una signora celebre e a dir poco originale: Anna Jeanne Valentine Marianne Desglans de Cessiat-Vercell, che aveva assunto il più rapido pseudonimo Valentine de Saint-Point. Scrittrice, poetessa, pittrice, danzatrice, la bellissima nobildonna aveva un anno più di Marinetti e aveva dato scandalo con i romanzi Un amour e Un inceste, cui seguirà Une femme et le desir. Appassionata della tragedia greca, di Nietzsche e di Schopenhauer, aveva un senso tragico e carnale della vita.
Benché avesse scritto il Manifesto della donna futurista e quello sulla lussuria, nel 1913 Valentine de Saint-Point lasciò sia il futurismo sia Marinetti e si dette alla danza, ormai quasi quarantenne, portandovi ispirazioni futuriste. Un suo balletto ebbe successo al Metropolitan di New York, ma Valentine era già in cerca di nuove strade. Si trasferì al Cairo e si convertì all’islamismo, non per diventare una donna sottomessa, ma per prendere parte al movimento nazionalista arabo. Incontrò un’ultima volta Marinetti nel 1938, a Alessandria d’Egitto, per i festeggiamenti che la città natale dedicò al poeta. Fu fredda con l’uomo che, per lei, ormai era soltanto un fascista.
Un’altra donna, affatto comune, entrò e uscì rapidamente dalla sua vita nello stesso periodo. Margaretha Ceertruida Zelle era nata in Olanda, quattro mesi prima di Marinetti. Dopo un matrimonio infelice si trasferì a Parigi, all’inizio del Novecento, esibendosi in locali tutt’altro che raffinati, in danze dal sapore orientale e dalla forte carica erotica che la resero presto celebre. Nota in tutta Europa con il nome Mata Hari e sempre in cerca di amicizie altolocate, volle incontrare Effetì, a Milano. Marinetti non lo poteva sapere, ma forse era già una spia che usava, anche, «le sue spiritose caviglie parlanti» per ottenere le confidenze di alti ufficiali francesi, a uso della Germania. Sarà fucilata in Francia all’alba del 15 ottobre 1917.
La ballerina, più seducente che bella, il 17 dicembre 1911 aveva danzato alla Scala - nel quinto atto dell’Armida di Gluck, a favore della Croce Rossa - ottenendo un grande successo. Un critico scrisse: «Abbiamo ammirato la fastosa Principessa indiana Mata Hari, mima e danzatrice ad un tempo, dalle pose classiche e dalle movenze flessuose, nelle seduzioni del piacere». Marinetti era in Libia. Si trovava invece a Milano quando la donna tornò per interpretare Venere in un balletto. Uomo di mondo, sospettò subito che non fosse indiana e non intese sedurla, però la invitò a esibirsi, in privato, anche per gli amici futuristi.
Nel frattempo Filippo Tommaso, e quindi il futurismo, hanno cambiato casa. Morto l’avvocato Enrico, il signor Dell’Acqua, proprietario dell’appartamento di via Senato, aveva pensato di lucrare sulle stravaganze di quel giovane ricco che buttava il denaro nelle iniziative più strampalate. Dell’Acqua ha la buona giustificazione che il suo bell’appartamento è diventato un ritrovo, notte e giorno, di gente scalmanata e dall’aria spesso poco rassicurante e chiede un aumento del venti per cento per l’affitto. Effetì accetta senza battere ciglio. Dopo pochi mesi il locatore si rifà avanti, sostenendo che il peso della biblioteca obbliga a opere di consolidamento del palazzo, e propone un nuovo aumento. Anche stavolta Marinetti non batte ciglio, ma all’improvviso comincia a buttare dal balcone libri su libri: così si risolve il problema del soprappeso, dice all’esterrefatto proprietario.
Deciso a non farsi imbrogliare, Effetì cerca una nuova casa, stavolta da comprare, e la trova a pochi passi, in corso Venezia 61. Un appartamento è anche più lussuoso di quello in via Senato, al primo piano di un palazzo costruito per ospitare Garibaldi, che però non vi aveva mai messo piede. La facciata rossa era adornata con terrecotte raffiguranti episodi risorgimentali. Oggi, al suo posto, c’è un edificio moderno che porta il numero 37. Se non si vedeva più il Naviglio, Effetì poteva guardare e sentire dalle finestre i rumorosi tramway a due piani della linea Milano-Monza.
La nuova sede del futurismo diventerà per tutti la Casa Rossa. Marinetti vi ha portato quasi tutti gli arredi di via Senato, aggiungendone altri, nello stesso stile. Cangiullo descrive così il salotto: «Era orientale, popolato di ninnoli e smorzato da tappeti, cuscini, portiere e tappezzerie murali investite dal dinamismo multicolore dei quadri futuristi e degli squilli, che nell’ambiente sembravano ovattati, degli striscioni che annunciavano le nostre rappresentazioni più strepitose. Alle pareti vellutate si aggrappavano grossi insetti elettrici: api d’oro, farfalle marezzate, scarabei di rubini, lucertole smeralde, rane azzurre».
Mata Hari si presentò in corso Venezia senza il corredo dei sette veli necessario per eseguire la «Danza del Fiore», e risolse il problema con la massima semplicità: «Danza nuda lieta di essere valutata da questi futuristi straricchi di forza creatrice». Si offre senza musica, sui tappeti che abbondano in tutta la casa: « un tattilismo di carne seta velluto cespugli solitudini tane felini sofficità asprigne che i fili di luce delle lampade di moschea palpano subdolamente vantando la delicatezza ideale dei polpacci e l’amoroso scivolo delle cosce».
Per il Marinetti di Come si seducono le donne, il primo aspetto femminile da mettere in rilievo è la ferinità, «una specie di volontà- istinto che tutte le belve hanno». Esalta anche il difetto fisico, perché «ogni donna ne ha uno»: «Sento ribellarsi», racconta Marinetti «una giovane ventenne dai ricchi capelli, dai piccoli seni tondi, che mi grida ”io non ho difetti". Avete quello – rispondo io- d’essere perfetta; voi dovete per non nauseare rapidamente il maschio far dimenticare l’ammirazione assolutamente antisessuale e antierotica che l’equilibro delle vostre forme suscita. A venti, a trenta, a quaranta anni l’uomo prova sempre davanti alla bellezza perfetta di una donna, il tedio che dà il museo».
la varietà l’elemento che caratterizza il mondo femminile, e ogni caso è «speciale». Come non tenere conto, per esempio, dell’ambiente in cui si svolge una schermaglia d’amore? «Una donna si dà a Milano con reticenze, mezzetinte, parentesi e sospensioni e si spalancherebbe invece brutalmente e generosamente, nervi, spirito, corpo allo stesso uomo se si trovasse a Roma». Oppure: «Una signora parigina del Faubourg Saint- Honoré, che pur non essendo maniaca avrebbe preferito suicidarsi piuttosto che coricarsi in un letto inelegante, fu da me naturalmente sdraiata in più di cinquanta letti assolutamente fetidi più di cinquanta alberghi ultrafetidi del Quartiere Latino».
Sta alle capacità dell’uomo saper sfruttare l’attitudine femminile a distrarsi, per amore, da qualsiasi convinzione e convenzione. Non tutti gli uomini hanno questo istinto, specie al di fuori dell’Italia, dove si crede «nella continuità e nella solidità spirituale della donna», ignorandola «come essere tipicamente istintivo, elementare, atmosferico, barometrico». Le femmine sono volubili e come tali vanno trattate: «Una donna lussuriosa ha bisogno di tanto in tanto di essere presa per un filosofo tedesco».
Peraltro, se per capirle non esistono leggi universalmente valide, Marinetti ne applica una all’indole femminile: il «bisogno indistruttibile di tradimento», la necessità di tradire il maschio anche se «adorato», in quanto «costruttore della gabbiasocietà». Questa propensione, beninteso, non rappresenta un difetto: al contrario, la donna tradisce in quanto è «la parte migliore dell’umanità», quella più elastica, più malleabile, più spiritosa, più sensibile, meno programmatica, più improvvisatrice, la parte insomma meno tedesca». Invece «un uomo seducente, forte,libero, bello e geniale ha sempre qualche cosa di professionale e di teutonico, davanti alle improvvisazioni di sentimenti e di sensualità che costituiscono una bella donna».
La femmina è portata alla «varietà», se no imbruttirebbe «anzi tempo», finendo per distruggere la propria «potenza magnetica sessuale». A questo destino va fatalmente incontro chi si avvilisce nella convivenza, «sempre nociva poiché distrugge quel bisogno di pericolo, di agguato, di lotta o d’incertezza che è favorevole al maschio specialmente e anche alla femmina». Il raffinamento della civiltà, mentre da una parte ha reso impossibile per un uomo l’amare una donna puramente istintiva, naturale, senza pudore, che si dà a molti, ha reso d’altra parte impossibile l’amare una donna che si sveste regolarmente ogni sera per lui soltanto.
Un retaggio della vecchia anima che alberga nell’identità italiana è la gelosia: «Bisogna distruggere questa ossessione: la donna unica l’uomo unico. Accelerare i rapporti sessuali. Moltiplicare gli amplessi intensificati, riassunti e concentrati in poche ore variopinte e spasmodiche. Guai all’italiano che diluisce il suo cuore e monotonizza il suo sesso. Fedeltà: malinconia, abitudine. Gelosia: mania di vecchio sedentario che non può sedersi che in una poltrona sola»; è una «lugubre, atroce e schifosa malattia passatista», «disgraziatamente una specialità italiana». Ma anche la «conseguenza naturale della nostra meravigliosa sensualità e della nostra smodata forza affettiva».
Persino lui ha ceduto all’ossessionante tentazione della gelosia quando, venticinquenne, intraprese una lunga relazione con una signora piemontese sposata a un ricco commerciante tedesco spesso assente per affari. Nel suo salotto era possibile incontrare intellettuali di rango, come Arrigo Boito e Giuseppe Giacosa. Marinetti vi declamò i suoi primi versi, che fecero divampare la bella signora: «Ci amammo tutto un inverno liberamente, felici, senza menzogne e sotterfugi. Ai primi d’agosto la raggiungevo ad Alassio». Qui, il suo corpo in bella mostra scatenò sguardi impudichi di «maschi seminudi e muscolarmente pronti». Il giovane Marinetti si arrese alla avvilente sequela di paure, lacrime, ossessioni, notti insonni, scatenata con arte dalla provocante impudicizia della donna; poi, um giorno, un rivale venne atterrato coram populo dall’«attacco impetuoso» di Effetì, che ottenne le lacrime della donna trionfante: «Ti adoro, non amo che te. Morivo dal desiderio di vederti piangere di gelosia! [...] Come eri bello! Come eri bello! Per me, hai fatto questo, per me!». Dopo «due anni felici» di sesso senza menzogne, la signora dovette partire per il Giappone con il marito.
Sia pure tenendo conto delle diversità individuali, un uomo deve conoscere le modalità più efficaci per conquistare una donna. In primo luogo non si faccia scrupoli a dedicarle un «elogio sfacciato, senza mezzi termini, del corpo e della sua eleganza»: insista «come un critico passatista insisterebbe su un Canto di Dante». Ne esalti, poi, lo spirito e l’«intelligenza profonda, specialmente se è un’oca perfetta». Nel frattempo - se ci sono le condizioni, se la luce e il divano sono favorevoli - inizi a raccontare vecchie imprese amatorie, facendo entrare le mani «sapientemente in azione»: «Saranno anzitutto mani distratte leggere, come distaccate dal corpo, mani che si divertono alla piega delle stoffe alla mollezza dei velluti e si avanzano lungo i fianchi della donna». E qui, l’ars amandi marinettiana presenta un ventaglio di alternative a seconda della reazione.
Se la donna mostra turbamento, è bene tentare una carezza «sulla curva dei seni» o in anfratti ancora più segreti, facendo finta di niente, quasi con distrazione, prima di avvicinare la bocca alla sua, sussurrandole che «lei sola è degna di tutto l’amore». La voce dovrà essere flebile, appena pronunciata sul collo, in modo che lei «possa guardare nel vuoto, in una bella posa di statua sepolcrale». Poi, senza più incertezze, ma ancora con cautela, via con i baci, «vicino all’orecchio, meglio ancora nell’orecchio». Se l’approccio non ha sortito buoni effetti, meglio fermarsi subito, ricominciare la conversazione per poi riprendere «un tentativo di carezza ai seni», stavolta «più inquieti e più accesi di prima». La nuova tattica sarà quasi sicuramente premiata e si sentirà la donna mormorare: «tutti uguali, voialtri uomini! ... volete sempre la stessa cosa, il corpo, null’altro che il corpo! ... ». Sarà il prodromo del trionfo. Se le resistenze continuano, allora bisognerà «prenderle energicamente, con mani delicate e forti, il capo, rovesciarglielo all’indietro e imporre alla sua bocca un bacio autoritario, prolungato, profondo, che le tolga un poco il respiro». A quel punto, «se il divano è propizio, la donna è vostra».
Per portare a termine il corteggiamento vittorioso occorre che l’uomo disponga «di certe forze»: «Una bella bocca attraente, degli occhi mutevoli ed espressivi, voce insinuante, corpo abbastanza snello, muscoli, ma non troppi». Chi è calvo, non si dia per vinto (Marinetti ne sa qualcosa): la calvizie è «una qualità quando la fronte brilla d’ingegno». Un altro elemento da non trascurare è l’ambiente: «molti subiscono degli scacchi in simili battaglie per ignoranza topografica: non si dà un assalto nelle ore del mattino o in una stanza troppo bianca».
Il manuale d’amore marinettiano non può prescindere dall’esaltazione della velocità. L’automobile è un afrodisiaco irresistibile: il vento, la luce, i paesaggi cangianti, la corsa rombante consigliano alla donna di godere in tutti i sensi. Anche il treno aiuta, e non poco: una fanciulla bolognese, conosciuta alla Gare de Lyon di Parigi, finirà per apprezzare, insieme all’amante futurista, «il ritmo furibondo della locomotiva», lo scompartimento chiuso alle intrusioni del controllore. Alla fine, Marinetti stila un’equazione delle sue: «Controllore sagace + treno direttissimo + notte d’agosto + assenza di viaggiatori nello scompartimento x seduttore = bellissima bolognese mangiata e bevuta».
La dote maschile che le donne apprezzano maggiormente è il coraggio. Una ricca americana, «giovane e fornita del più invalido dei mariti», la quale aveva respinto per oltre quindici giorni gli assalti di Marinetti, cedette quando il poeta affrontò e vinse un vetturino che, invece di aiutare il proprio cavallo stramazzato a terra, lo aveva preso a frustate «atrocemente». Allo stesso modo una «signora inglese molto bella e già quasi matura» si concesse a Effetì, in presenza del marito sonnecchiante e alticcio, solo per il gusto del pericolo. La cosa andò avanti per un mese, tra «i sussulti di piacere» gridati dall’amante desiderosa di «far del rumore» e il sonno invincibile del cornuto, fin quando Marinetti decise di troncare tutto, «seccato di questa nuova monotonia del pericolo».
Ogni donna presenta complicazioni diverse: fissazioni, manie, ubbie irrazionali e bizzarrie di ogni tipo. Per cominciare Marinetti racconta le sue avventure con amanti tedesche. Solo tre: «una amburghese giovane e fresca ma pedante e cretina come un saggio critico di Benedetto Croce», «la moglie di un editore di Lipsia, assolutamente insipida», e un’indimenticabile signora di Berlino, «giunonica, imperiale». La conobbe nel 1913 a Palermo, estasiata dallo spettacolo marinettiano Elettricità. L’intraprendente signora gli dette appuntamento nella sua camera d’albergo e Effetì, all’una di notte, entrò al buio e si adagiò con lei «sulla pietra nuda». Un’ora dopo, accesa la luce, la trovò avvolta in una bandiera germanica: «Fui sempre antitriplicista: però mi piacque una seconda volta marciare su Berlino».
Dopo le tedesche c’è una «giovane attrice ebrea, d’origine algerina, bruna, selvaggia, furba e scivolante, ambiziosissima, calcolatrice. Grandi occhi enormi di liquirizia, bella bocca da negra, un’araba insomma frenetizzata da Parigi». Ogni volta, concluso l’amplesso, pretendeva dall’amante la solita lusinga: «Dimmi che sono belli i miei piccoli seni! Dimmi che sono belli!». Effetì, una notte, si alza e se ne va senza dire niente, per non tornare mai più.
Gli sembra una complicazione ancora più noiosa quella imposta da una signorina di Saint Cloud: «mentre si abbandonava alle più violente carezze, incominciava talvolta uno strano fantastico dialogo, con la punta inturgidita e accesa del suo seno destro che fissava con degli sguardi magnetizzati». «Guardalo il mio seno come ingrossa la sua punta, l’animale!» ansimava nel bel mezzo dell’amore. Il gioco andò bene un paio di notti, poi Marinetti tagliò la corda, a costo di essere «giudicato un uomo troppo semplice e brutale in amore, che non comprendeva le complicazioni».
Un’altra dama in vena di stravaganze era «biondissima, fragile, pallidissima, un ninnolo febbrile con dei subitanei languori nella voce e negli occhi come si fosse tuffata nell’acqua calda di un ricordo erotico». Un giorno, di punto in bianco, nell’ascensore di un albergo, prese la mano di Marinetti per fargli palpare il «piccolo seno bianchissimo». Quando si ritrovarono in camera, dopo baci che promettevano amplessi interminabili, si rifiutò al sesso, supplicando l’amante inebetito: «Non essere così normale! Lasciami assaporare il desiderio!». Il «gioco raffinato» durò l’intera notte, ma quella successiva Marinetti impose «brutalmente la bella e sana normalità». Meglio la tradizione che certi vezzi con cui le donne «deviano il loro istinto sessuale in mille bizzarrie pseudoriginali».
Come si seducono le donne può apparire (ma non è) una fantasia romanzata. Lo stile del Marinetti seduttore è confermato anche nei suoi Taccuini 1915-1921, non destinati alla pubblicazione e usciti soltanto nel 1987. Vi abbondano episodi che confermano le teorie: «Non posso vivere più di un giorno senza una donna! Sono sempre l’uomo dal coito veloce violento. Poi il sonno e il distacco» (19 aprile 1917).
Il Marinetti erotomane allegro nel 1919 penserà anche di sfruttare commercialmente una sua idea, l’«industrializzazione della forza muscolare erotica, coll’applicazione di aste di ferro con cinghie da adattarsi alla schiena del maschio copulatore in ogni camera da letto del mondo». Ma ebbe ben altro da fare, quell’anno.