Giampaolo Pansa, il Riformista 22/02/2009, 22 febbraio 2009
Non mi ha fatto né caldo né freddo la caduta di Walter Veltroni. Anche perché è fuggito nel peggiore dei modi, lasciando il suo partito in mutande
Non mi ha fatto né caldo né freddo la caduta di Walter Veltroni. Anche perché è fuggito nel peggiore dei modi, lasciando il suo partito in mutande. E alle prese con un miliardo di problemi. In più, Superwalter ha tagliato la corda davanti a un sondaggio negativo per il Pd. Vale a dire di fronte a una previsione che i leader veri dovrebbero considerare soltanto numeri di carta. Del sondaggio ci ha informato l’Unità. Venerdì 20 febbraio ha rivelato che Veltroni si era trovato sul tavolo un test condotto nella prima settimana del mese dalla Swg. A proposito delle intenzioni di voto, il risultato era catastrofico per il partito di Walter. Veniva dato in caduta libera, al 22 per cento. Mentre il diabolico Di Pietro toccava un picco di voti mai raggiunto: il 14 per cento. Pare sia stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso di Veltroni. E a prendersi la secchiata d’acqua è stato, prima di tutti, il suo vice, Dario Franceschini. Mentre di Walter non mi fregava nulla, per Dario mi è dispiaciuto. Un ragazzo felice di fare la spalla del segretario. Lo guardavo alla tivù e dicevo: ecco un vice all’antica, legato al capo da una devozione sincera, un sentimento ignoto in politica. A quell’incarico c’era arrivato in modo insolito. Dario era stato il primo della Margherita a dire: se Veltroni si candida a leader del Pd, io lo voto. Walter lo chiamò e la mise giù così: visto che mi hai incastrato, adesso non puoi lasciarmi solo. E dopo la facile vittoria alle primarie, Franceschini divenne il comandante in seconda del partito. Nominato sul campo dal generalissimo. Conosco bene che cosa voglia dire essere il vice di un leader. un’esperienza che ho fatto per anni a Repubblica, sotto il regno di Eugenio Scalfari. Credi di contare molto e invece non conti niente. Vivi a fianco del capo, ma lui ha il sole in fronte, mentre tu resti nell’ombra. E quando il numero uno se ne va, i suoi nemici ti sbranano. accaduto anche a Franceschini. Noi del Riformista l’abbiamo sbeffeggiato come un re Franceschiniello. Repubblica l’ha paragonato al maresciallo Badoglio, spiegando che dopo di lui sarebbe arrivato l’8 settembre del Pd. In quei frangenti, Dario una via d’uscita ce l’aveva. Una volta fuggito Veltroni, poteva mandare al diavolo la politica e dedicarsi al mestiere che più gli si adatta: lo scrittore. Ha già pubblicato con Bompiani due romanzi. Il primo l’ho letto ed era davvero bello: ”Nelle vene quell’acqua d’argento”, uscito nel 2006. Adesso aveva l’occasione di scriverne un terzo. Magari narrando della sua Ferrara sotto il fascismo e la vicenda del nonno materno, Giovanni Gardini. una storia che, a grandi linee, conosco anch’io. L’ho sentita raccontare proprio da Dario, quando aveva accettato di presentare a Ferrara uno dei miei libri revisionisti. Quella sera ho ammirato il coraggio di Franceschini, per due motivi. Il primo è che, di solito, anche i margheriti scappano come lepri davanti a un maledetto revisionista. La seconda è che lui, senza esserne obbligato, decise di rivelare in pubblico una storia di famiglia. Nella figura del nonno fascista c’era tutta la Ferrara del primo Novecento. Lo squadrismo, Italo Balbo, la conquista del potere, l’esilio del ras come governatore della Tripolitania e della Cirenaica, l’arrivo a Tripoli dei suoi fedeli, compreso il nonno Giovanni, il rientro in Italia dopo la morte di Balbo, la Repubblica sociale, la guerra civile. Gardini era diventato un esponente della Rsi e fu costretto a nascondersi per non essere accoppato dai partigiani di Poggio Renatico, il suo paese. Ma nel racconto di Dario risplendeva soprattutto la figura della madre, Gardenia Gardini. Nel 1945, aveva dodici anni. Rimasta a Poggio Renatico, andava a scuola attraversando il centro del paese a occhi bassi. Per non vedere le grandi scritte sui muri delle case che fiancheggiavano il castello Lambertini. Le scritte urlavano: ”A morte Gardini”, il padre di Gardenia. Quella sera, Franceschini ci descrisse la scena con delicatezza. Mi fece pensare alla sequenza di un film di Truffaut o di Malle. Con un bel finale, che raccontava anch’esso la storia d’Italia. Diventata grande, Gardenia sposò un partigiano bianco, che aveva rappresentato la Dc nel Cln di Ferrara: Giorgio Franceschini, avvocato e deputato dicì per una legislatura. Il 19 ottobre 1958 nacque Dario. Franceschini è una Bilancia come me. Di solito, siamo cagnoni affettuosi, anche se a volte ci azzuffiamo. Mi è capitato con lui, sempre a proposito della guerra civile e del revisionismo. Era il settembre 2008, e Dario andava a rimorchio delle banalità storiografiche di Veltroni. Ma dopo che il capo era evaso dalle stanze del Nazareno, ho immaginato che anche Dario decidesse di andarsene. Poi ho saputo dai giornali che aveva propositi di battaglia. Ripeteva: «Se vinco, azzero il gruppo dirigente». Mi dicevo: ma che cosa vuole azzerare, il ragazzo di Ferrara? Ci hanno già pensato gli elettori. Meglio lasciare la stecca a qualche volonteroso kamikaze quarantenne. E rimettersi a scrivere romanzi. Invece Dario ha preferito occupare la sedia di Walter. Anche il suo discorso all’assemblea del Pd è stato di un veltronismo integrale, a parte l’accento ferrarese. Compresa la mossa retorica del giuramento sulla Costituzione davanti ai martiri di Ferrara del novembre 1943. Morale: Dario sarà un leader fragile. E finirà mangiato vivo dai cacicchi democratici. Senza più raccontarci la storia di Gardenia, bambina della guerra.