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 2009  febbraio 21 Sabato calendario

I PIRATI DEL GOLFO DI ADEN CORAZZATE CONTRO BARCHETTE


La comunità internazionale si è mobilitata contro la pirateria nel Golfo di Aden e una forza navale di vari Paesi tra cui l’Italia è entrata in azione con qualche risultato, ma la superficie coinvolta supera i 2,5 milioni di chilometri quadrati rendendo difficile i controlli.
C’è tuttavia un aspetto che non mi pare sia stato sufficientemente valutato.
La lotta alla pirateria è infatti vista soprattutto come mobilitazione navale diretta a garantire il commercio internazionale e la sicurezza della navigazione, ma non tiene conto che il fenomeno piratesco è molto più ampio in quanto collegato al caos politico e al vuoto di potere in Somalia che è la principale base, anche se non la sola, degli incursori corsari. Se non si giungerà a ripristinare nel Corno d’Africa e dintorni un minimo di stabilità politica, economica e sociale gli interventi navali non saranno sufficienti a sradicare la pirateria. Le Nazioni Unite ne hanno preso recentemente atto e con le risoluzioni 1814, 1816, 1846 e 1851 del Consiglio di Sicurezza sono stati rafforzati i poteri dei Paesi che combattono il fenomeno anche sotto l’aspetto del sostegno alla forza africana di intervento (Amisom) che dovrebbe favorire un progressivo ritorno della Somalia alla pacificazione.
Ma occorrono altre iniziative più incisive. L’Italia, che molto si è adoperata per aiutare la Somalia (anche se non sempre giudiziosamente) e che segue i contatti in corso prevalentemente a Nairobi per avvicinare le posizioni delle fazioni somale in lotta, potrebbe attivarsi per caldeggiare a livello europeo e ai prossimi vertici mondiali l’approccio a questa più ampia impostazione della lotta alla pirateria che qualificherebbe ulteriormente la sua politica africana.
Francesco Mezzalama
Roma

Caro Mezzalama,
Nelle scorse settimane abbiamo ricevuto molte lettere da persone che faticano a comprendere perché la comunità internazionale non riesca a debellare un fenomeno criminale che coinvolge probabilmente poche migliaia di «operatori». La sua lettera mi offre l’occasione per tornare sull’argomento. Lo farò servendomi tra l’altro di un articolo scritto da Carlo Calia (un ex diplomatico che è stato ambasciatore in Costa d’Avorio, Kenya e Libano) per la Newsletter dell’Istituto Affari Internazionali.
Qualche cifra, anzitutto. Dopo il pagamento del riscatto per un cargo ucraino che trasportava 34 carri armati, le navi nelle mani dei pirati sarebbero ancora 16, con circa 300 membri d’equipaggio. Il 2008 è stato, per il business della pirateria, una buona annata: 70 assalti con un profitto complessivo di 50 milioni di dollari. Il mondo si è mobilitato con un considerevole schieramento di forze navali e un impegno ecumenico a cui partecipano anche l’Iran e la Cina. Tutti i maggiori Paesi sono interessati a ripristinare la libera navigazione nel Golfo di Aden: una via commerciale dove passa ogni anno il 14% del commercio mondiale di merci e il 30% di quello del petrolio. Ma il risultato di questo spiegamento di forze è stato sinora, tutto sommato, modesto.
Le ragioni elencate da Calia sono numerose. I trasportatori e i loro clienti preferiscono pagare il riscatto piuttosto che perdere il carico. Potrebbero imbarcare una scorta armata, pronta a difendere la nave, ma gli scontri a fuoco metterebbero in pericolo la vita dei membri dell’equipaggio. Le navi inviate per contrastare il fenomeno sono grandi e potenti, ma poco adatte a inseguire barchini veloci. Dopo avere partecipato a una fase dell’operazione, l’ammiraglio italiano Giovanni Gumiero ha detto che «è come rincorrere un ladro in bicicletta con un Tir». L’Onu ha autorizzato le navi a inseguire i pirati nelle acque territoriali somale ed eventualmente anche a terra. Ma se il numero dei banditi è limitato, grande è invece quello di coloro che dipendono da questa attività. Esiste ormai una società della pirateria che vive di questi traffici e offre ai banditi tutto il sostegno logistico di cui hanno bisogno.
Calia confronta la pirateria del Golfo di Aden con quella dello Stretto di Malacca dove ebbe, fino a qualche tempo fa, dimensioni preoccupanti. In quel caso, scrive Calia, il fenomeno fu «efficacemente contrastato quando i Paesi della regione si accordarono per intervenire regolarmente nelle basi di partenza dei pirati, in qualunque Stato esse si trovassero ». Ma nel caso della Somalia non esiste un governo capace di esercitare il benché minimo controllo del territorio. Paradossalmente le cose andavano meglio quando il potere, a Mogadiscio, era nelle mani delle Corti islamiche. Per quanto esecrabile il loro regime aveva combattuto la pirateria con qualche successo. Oggi, dopo il ritiro delle forze etiopiche dalla Somalia, la situazione è molto più caotica.
Il problema quindi è sulla terra, non nel mare. Mi auguro che il suo auspicio, caro Mezzalama, venga raccolto. Ma i guai dell’Africa, dal Darfur al Congo, sono molti, i soldi da spendere pochi e nessun governo, dopo la crisi degli anni Novanta, sembra avere voglia di tornare in Somalia. Non basta. Chiunque cercasse di attirare l’attenzione dei nostri ministri sul Golfo di Aden scoprirebbe che in questo momento è quasi interamente assorbita da una pratica su cui è scritto Afghanistan.