Giovanni Belardelli, Corriere della Sera, 16/1/2009, 16 gennaio 2009
un peccato che il libro di Paolo Mancini sui processi di spartizione da sempre in atto alla Rai abbia un titolo inutilmente provocatorio, Elogio della lottizzazione (Laterza, pp
un peccato che il libro di Paolo Mancini sui processi di spartizione da sempre in atto alla Rai abbia un titolo inutilmente provocatorio, Elogio della lottizzazione (Laterza, pp. 136, 10) poco rispondente al contenuto effettivo. un peccato perché il suo saggio, in un Paese come il nostro che sembra saper valutare solo moralisticamente certi processi degenerativi della politica, ha il merito di non fermarsi a una facile condanna della lottizzazione, analizzando invece cause e caratteristiche del fenomeno. Mancini ricorda anzitutto come la lottizzazione non sia stata sempre uguale a se stessa. Dapprincipio fu la Dc a controllare le principali cariche dell’ azienda radiotelevisiva, lasciando poi un certo spazio (non solo entro la Rai ma in tutte le aziende dipendenti dallo Stato) agli altri partiti di governo. Le pratiche spartitorie si accentuarono con il centrosinistra, a vantaggio soprattutto dei socialisti, e giunsero oltre un decennio dopo, con la riforma del 1975, a coinvolgere il principale partito di opposizione, il Pci. Iniziò allora la fase della lottizzazione istituzionalizzata, come l’ ha definita Aldo Grasso, in cui non solo i vertici dell’ azienda erano il frutto della spartizione politica ma quasi ogni incarico, assunzione, avanzamento di carriera veniva deciso nelle sezioni di partito operanti all’ interno della Rai. un fenomeno che gran parte degli interessati ha sempre negato, che qualcuno ha riconosciuto con spregiudicato realismo (istruttivo un famoso battibecco in diretta tra Bruno Vespa e Giorgio La Malfa, riprodotto anche nel libro), che qualcun altro ha interpretato alla stregua di un fenomeno non privo di caratteri positivi. In effetti, anche Mancini si chiede se l’ apertura della lottizzazione al Pci, rappresentando un modo per riconoscere il nuovo peso politico acquisito dal principale partito di opposizione, non abbia rappresentato una sorta di imperfetta e discutibile, ma non totalmente negativa, via italiana al pluralismo. Analogamente, si domanda se la lottizzazione italiana non possa essere considerata alla luce di quei processi di scambio politico e di accordi consociativi che alcuni politologi hanno giudicato necessari in Paesi (tra i quali certo è l’ Italia) attraversati da fratture - politiche, culturali o d’ altro genere - particolarmente accentuate. Una spartizione che coinvolgesse un po’ tutti (ma in realtà il Msi nei processi di lottizzazione in Rai, ricorda Mancini, ricevette poco o nulla) poteva essere anche uno strumento per tenere assieme una società divisa e con alti tassi di conflittualità. Ma la risposta che il libro fornisce a questi quesiti è prevalentemente negativa, essendo evidente che - almeno in Italia - i caratteri patologici del fenomeno hanno superato di gran lunga quelli eventualmente positivi. A proposito della connessione tra lottizzazione e pluralismo, ad esempio, è fin troppo chiaro che l’ apertura a una pluralità di forze è stata rigorosamente limitata ai soli partiti politici. Inoltre dare accesso televisivo a tutte le opinioni esistenti nella società è cosa ben diversa dalla spartizione tra i partiti di tutte le cariche Rai. Certo, in Italia il fenomeno della designazione su base partitica non caratterizza solo l’ azienda radiotelevisiva pubblica, se arriva ad interessare perfino le nomine dei primari negli ospedali. Memorabile la battuta della signora Mastella, durante una conversazione con il marito Clemente, pubblicata dalla stampa un anno fa e ripresa nel libro: «Ha dato l’ incarico di ginecologo al fratello di uno di Forza Italia. Ma non teniamo un altro ginecologo?». In un Paese in cui anche i ginecologi sono «in quota» a questo o quel partito, la Rai - scrive Mancini - rappresenta però un caso a sé, per la parte che la televisione svolge nella costruzione del consenso politico. Non solo e non tanto, aggiungerei, per il ruolo (generalmente sopravvalutato) che la tv ha nel condizionare le opinioni politiche degli spettatori, ma per un fenomeno che quasi ogni sera è (letteralmente) sotto gli occhi di tutti: il fatto che il confronto politico ha trovato dimora in una sorta di terza Camera rappresentata da trasmissioni come Porta a porta o Ballarò. anche per questo che la lottizzazione, dopo un apparente regresso all’ epoca di Tangentopoli, ha ripreso vigore: fino al punto che nel 2005 Carlo Rognoni, in un’ intervista al Corriere, ha potuto definire quello di cui faceva parte come «il consiglio di amministrazione più lottizzato che ci sia mai stato in Rai». Per spiegare la permanenza del fenomeno Mancini chiama in causa fattori diversi: dalla debolezza o addirittura assenza, in Italia, di un’ idea di bene comune, al familismo delle società mediterranee, ai modi in cui l’ antropologia italiana sarebbe stata permeata dal cattolicesimo. Sono fattori però che, potendo essere evocati per spiegare tutto o quasi quel che avviene nel nostro Paese, finiscono col non essere granché utili. Appare assai più convincente, invece, considerare la lottizzazione come parte della più generale, estesissima, presa dei partiti sulle risorse pubbliche: «Più ampio è il campo di intervento dello Stato - scrive Mancini sulla scia di Gianfranco Pasquino -, più posti pubblici ci sono da distribuire (lottizzare) e tanto maggiore sarà il ruolo dei partiti». Ma allora, se le cose stanno così, ridurre la lottizzazione non può che equivalere a ridurre il campo di intervento dello Stato (cioè dei partiti). Curiosamente Mancini non lo scrive, ma nel caso della Rai ciò implicherebbe una drastica cura dimagrante, rinunciando a una rete o magari anche a due. Come è evidente, si tratta di una soluzione tanto semplice in linea teorica quanto di improbabile attuazione. Ronchey inventò il termine Fu Alberto Ronchey (nella foto) a usare per primo il termine lottizzazione per definire la spartizione delle cariche alla Rai. Nel suo libro intervista con Pierluigi Battista «Il fattore R» (Rizzoli), Ronchey spiega che fu il boom immobiliare a ispirargli quel vocabolo presto entrato nell’ uso comune.