Massimo Gaggi, Corriere della Sera 23/02/2009, 23 febbraio 2009
Dalla notte delle stelle e delle statuette d’oro degli Oscar, all’alba grigia di un mercato col piombo nelle ali: la settimana scorsa Wall Street ha perso oltre il 6% del suo valore, raggiungendo nuovi minimi
Dalla notte delle stelle e delle statuette d’oro degli Oscar, all’alba grigia di un mercato col piombo nelle ali: la settimana scorsa Wall Street ha perso oltre il 6% del suo valore, raggiungendo nuovi minimi. Ciò è successo nonostante l’approvazione definitiva della maximanovra di sostegni all’economia e il lancio di un piano da 75 miliardi di dollari per ridare fiato al mercato dei mutui-casa. Per Wall Street è stata la peggior settimana da quando, quattro mesi fa, il mercato era crollato per le conseguenze del crack Lehman. Andasse nello stesso modo anche la settimana che inizia oggi, il mercato avrebbe bruciato, prima ancora che vengano spese, tutte le risorse stanziate dal piano di stimoli fiscali da 787 miliardi. Obama non può certo permetterselo, ma non ha molte carte da giocare. Il presidente non si aspettava una tranquilla "luna di miele", ma nemmeno di dover affrontare, dopo appena un mese e col governo che è ancora un cantiere a cielo aperto, una settimana da "ultima spiaggia". Ora cerca di guadagnare tempo e di tranquillizzare il Paese lanciando la sua "offensiva della responsabilità fiscale": dal vertice sul risanamento dei conti pubblici che si terrà oggi alla Casa Bianca fino a giovedì, quando varerà il bilancio per il 2010, Barack Obama tenta di rasserenare il Paese dimostrandogli di avere un progetto di lungo periodo per riportare entro limiti accettabili (il 3 per cento del Pil) un deficit pubblico che quest’anno verrà dilatato fino oltre la soglia del 10% del reddito nazionale: un "buco" di 1,5 trilioni di dollari necessario per evitare il fallimento delle banche e cercare di rimettere in moto l’economia. Non è detto che basti e, anzi, c’è il rischio di un’altra reazione negativa di Wall Street, visto che il piano del leader democratico prevede (ma solo nel medio lungo-periodo) un aumento delle tasse su chi guadagna di più e sui redditi da capitale. L’epicentro della crisi rimane il sistema bancario: la Borsa, dopo qualche mese di tregua, ha ricominciato a franare una decina di giorni fa quando il ministro del Tesoro Tim Geithner, dopo una serie di annunci che avevano alimentato forti aspettative, non era riuscito a presentare un vero piano di salvataggio del sistema creditizio, ma solo alcuni principi-guida. E’ da lì che si riparte oggi, col governo che ufficialmente ripete di essere contrario alla nazionalizzazione degli istituti di credito più disastrati ma che, in realtà, su questo punto è diviso. Il diario degli ultimi giorni del "dream team" economico del presidente – quelli che Obama chiama scherzosamente «the propeller heads », teste come eliche di un motore d’aereo – parla da solo: Geithner che, da solo e a «mani nude» (non dispone ancora di una squadra di collaboratori), lavora alacremente su vari «dossier», dalla crisi dell’auto a quello, complicatissimo, dei titoli «tossici» detenuti dalle banche; Larry Summers, superconsigliere della Casa Bianca, che negli incontri riservati si dice estremamente allarmato e non esclude la necessità di interventi d’emergenza, forse già nel corso di questa settimana; e il «vecchio saggio» Paul Volcker’ l’ex capo della Fed che negli anni ’80 liberò gli Usa e il mondo dal mostro dell’iperinflazione – che venerdì sera, parlando alla Columbia University, dopo aver notato come la produzione industriale stia calando nel resto del mondo ancor più velocemente che negli Usa, ha detto di non ricordare un momento, nemmeno durante la Grande Depressione, in cui la situazione economica è peggiorata con tanta rapidità e in modo così uniforme in tutto il mondo. Dopo di lui è intervenuto George Soros, il vecchio speculatore che da anni aveva previsto il collasso della finanza Usa, con un discorso ancor più drastico: il sistema finanziario è ormai disintegrato, senza possibilità di una soluzione della crisi a breve termine. Anche Soros giudica la turbolenza attuale più grave della crisi degli anni Trenta. Addirittura, paragona il crollo del sistema finanziario a quello, vent’anni fa, dell’Unione Sovietica. Scenari assai poco incoraggianti per gli operatori di Wall Street che, dopo aver seguito per tutta la scorsa settimana una variante della regola del pistolero senza scrupoli ("prima vendi e poi fai domande", la parola d’ordine che da giorni rimbalza su molte pagine finanziarie), da oggi dovrebbero improvvisamente rimboccarsi le maniche e «ricominciare a crederci». Su quali basi? Difficilmente basteranno le promesse di Obama di ritornare entro 3-4 anni a una politica di contenimento del deficit. La speranza è che il mercato si convinca che – con un’economia che ha rallentato, ma meno che in altre parti del mondo – la Borsa sia ormai vicina al fondo (il suo valore è pressochè dimezzato rispetto ai massimi di un anno e mezzo fa). Per far avanzare una simile speranza è però necessario avviare a soluzione il problema delle banche. Soprattutto i tre grandi gruppi più disastrati – Citigroup, Bank of America e Wells Fargo-Wachovia – il cui valore è crollato quasi a zero nonostante le massicce immissioni di capitale del Tesoro. Geithner cerca ancora la formula per realizzare un salvataggio all’interno del sistema di mercato, sia pure con le distorsioni imposte dalla necessità di fronteggiare l’emergenza: quindi il tentativo di rimettere in piedi un mercato per i titoli «tossici», dando loro un valore convenzionale e offrendo garanzie assicurative dello Stato ai privati disposti ad acquistarli. Ma Geithner, che non riesce nemmeno a trovare viceministri e direttori per il suo ministero capaci di passare attraverso i «filtri etici» introdotti da Obama, fa fatica anche solo a compilare un inventario dei titoli derivati finiti nel portafoglio delle banche. D’altra parte anche la seconda opzione, quella della nazionalizzazione, è un problema di uomini oltre che politico. Le obiezioni ideologiche potrebbero anche essere superate, visto che la proposta dell’economista Nouriel Roubini ("meglio una nazionalizzazione momentanea, tanto queste "banche zombie" non hanno più nulla a che fare col mercato") è condivisa anche da alcuni campioni del fronte conservatore come l’ex capo della Fed, Alan Greenspan, e il senatore Lindsey Graham (secondo il quale anche McCain, di cui lui è il braccio destro, la pensa nello stesso modo). Ma il «modello svedese» di cui tanto si parla è lontano dalla cultura americana: Paese di grandi imprenditori ma che, allergico alle nazionalizzazioni, non ha mai sperimentato figure alla Enrico Bondi. Dove trovare figure «super partes» capaci di prendere, ripulire e rimettere sul mercato? Massimo Gaggi