Raffaella galvani, Panorama 26/2/2009, 26 febbraio 2009
STRAPAGATI I SUPERMANAGER ALLA RESA DEI CONTI
Un tesoretto di 1,8 milioni di euro all’anno: è quanto si sono messi in tasca, in media, nel 2007 i numeri uno delle prime 100 società italiane quotate in borsa, secondo una recente ricerca della Watson Wyatt. Cifra considerevole, per alcuni eccessiva, visti i risultati aziendali, comunque in costante crescita. Tanto che oggi l’amministratore delegato di una grande azienda multinazionale in Italia incassa 150 volte lo stipendio di un neolaureato, quando solo 10 anni fa il rapporto era di 1 a 23. Di più: una bella fetta di questi superstipendi è pagata con incentivi basati su meccanismi che in un caso su tre non vengono dichiarati. Neppure agli azionisti delle società.
La manna però sta per finire: la «casta» dei megamanager è finita sulla gogna e in tutto il mondo ci si chiede se non sia giunta l’ora di cambiare le regole del gioco. Tutto è partito dagli Stati Uniti, dove la crescita del sistema economico si è basata negli ultimi decenni sul sistema del «pay for performance». In parole semplici, il manager viene pagato poco con cifre fisse e moltissimo in base ai risultati: e in coerenza con tale impostazione il fisco penalizza gli stipendi fissi oltre il milione di dollari, rendendoli non deducibili per le aziende, e favorisce gli incentivi variabili (dai bonus monetari alle stock option).
Questo meccanismo, soprattutto nel settore bancario, secondo alcuni ha prodotto serie distorsioni nella vita delle imprese: sono stati privilegiati i risultati a breve, meno la solidità patrimoniale, gli investimenti e la crescita nel tempo. Ha però arricchito enormemente i manager: il numero uno di una grande azienda americana guadagna 350-400 volte lo stipendio di un neoassunto, contro le 95 volte della fine degli anni 90. E i dirigenti, per far salire le azioni in borsa e incassare i bonus, si sono lanciati in operazioni sempre più rischiose.
Questo sistema è stato messo a nudo dalla crisi finanziarla iniziata con il crac della Lehman Brothers. Basti pensare che la banca d’affari che ha bruciato i risparmi di migliaia di investitori e distrutto migliaia di posti di lavoro riconosceva al suo anuninistratore delegato Riffiard Fuld un compenso annuo di 90 milioni di dollari e per liberarsene gli ha pagato altri 24 milioni (sistema del «paracadute d’oro». Superliquidazione che nel caso di Stanley O’Neal, ceo della Merrill Lynch, banca d’affari salvata con i soldi dei contribuenti americani, è stata di ben 161 milioni.
E in Europa? Qui non si sono visti gli eccessi americani, ma non si è sfuggiti al contagio, tanto che il commissario per il Mercato interno Charlie McCreevy ha annunciato che la Ue intende affrontare il problema degli stipendi d’oro dei manager in relazione agli «incentivi perversi». Sottolineando che anche prima della crisi i loro stipendi «non erano in linea con gli interessi a lungo termine degli azionisti e con quelli prudenziali». Le cifre parlano chiaro: solo alla Royal bank of Scotland, nazionalista dal governo britannico per evitare il fallimento, nel 2008, a fronte di perdite per 35,2 miliardi di euro, sono stati pagati bonus per 1,32 miliardi.
Una situazione che non poteva non suscitare la reazione dei politici, chiamati ad affrontare un’indignazione crescente dell’opinione pubblica e, in ogni caso, a iniettare soldi dei contribuenti per rattoppare i buchi lasciati da manager non all’altezza dei loro stipendi. Così in America il presidente Barack Obama ha definito «una vergogna» i compensi stellari e i bonus degli alti dirigenti delle società di Wail Street e ha imposto un tetto di 500 mila dollari ai manager delle banche salvate dal governo. In Germania il cancelliere Angela Merkel valuta l’ipotesi di uno limite di 500 mila euro ai compensi e il blocco di bonus e stock option nelle banche in fallimento. In Gran Bretagna il governo punta a eliminare i bonus di fine anno, permettendo solo modesti pagamenti per tutti gli impiegati con una retribuzione annua di circa 20 mila sterline. In Francia Nicolas Sarkozy chiede ufficialmente ai banchieri soccorsi dallo stato di rinunciare ai bonus, mentre alcune società hanno adottato un codice di condotta che impedisce il pagamento di paracadute d’oro ai dirigenti che lasciano aziende in crisi.
In Italia i confronti tra i compensi medi dei top manager delle prime 100 aziende quotate in borsa mostrano che non si sono verificati gli eccessi di altri paesi, soprattutto anglosassoni. Anche se non sono mancati casi clamorosi: dai 9,4 milioni presi da Alessandro Profumo dell’Unicredit ai 6,1 di Carlo Puri Negri (Pirelli e Pirelli Re), dai 5,7 milioni di Giampiero Auletta Armenise (Ubi banca) ai 5,6 di Antoine Bernheim (Generali).
Però la crisi, con le aziende che minacciano di lasciare a casa o mettere in cassa integrazione centinaia o migliaia di dipendenti, sta rendendo urgente la questione anche qui. E governo, per bocca del ministro del Tesoro Giulio Tremonti, ha già sottolineato che gli istituti di credito che emetteranno i Tremonti bond (obbligazioni create per iniettare liquidità al sistema del credito) dovranno impegnarsi a «modemm» le retribuzioni.
Ma, sia pure con grande riserbo, a muoversi sono le stesse aziende. Lo indica una ricerca riservata che Sandro Catani e Martina Graziotti della Watson Wyatt hanno svolto (attraverso questionari inviati via internet nel novembre 2008) su un campione di 31 grandi imprese, come Benetton, Enel, Eni, Ferrero, Fiat, Generali, Mediaset, Mediobanca, Unicredit. Risultato? Il 60 per cento prevede di cambiare la politica di compensi dei numeri uno. E i primi effetti sì vedranno già in occasione delle prossime assemblee. Se Alessandro Profumo quest’anno non incasserà alcun bonus, contro i quasi 5 milioni dello scorso anno, con la prossima tornata dei conti 2008 i casi Profumo saranno parecchi.
«Le aziende saranno molto più severe che in passato, sia perché i risultati sono stati inferiori agli obiettivi richiesti per accedere ai premi, sia perché l’opinione pubblica, gli investitori e il sistema politico non accetterebbero discrezionalità nell’erogare bonus a gruppi di management che hanno fallito» dice Catani.
Come si pensa di cambiare il sistema? li 76 per cento delle società interpellate non utilizzerà le stock option (diritti di opzione su azioni) nei nuovi piani di remunemzione dei top manager e il 73 per cento non distribuirà neppure pacchetti di vere azioni assegnate al raggiungimento di obiettivi (performance share), mentre ben il 69 per cento punterà su piani monetari. Insomma, quattrini al posto di titoli. Con la scomparsa, o il ridimensionamento, dei casi alla Sergio Marchionne, che nel 2004 si è visto assegnare dalla Fiat un ricco pacchetto dì opzioni (circa 10,6 milioni a 6,5 euro per azione), la cui esercitabilità dovrebbe venire prolungata al 2016 dall’assemblea di marzo.
E la scelta di bonus pagati cash? In un momento in cui il Paese richiede trasparenza sugli stipendi dei top manager, oltre che moderazione, questa mossa consente agli amministratori e al management di mantenere segrete le cifre e le regole, visto che solo tutto ciò che ha a che fare con le azioni deve, secondo la normativa Consob, essere sottoposto all’assemblea degli azionisti. I piani monetari no, il secondo punto controverso è che remunerare cash i manager, invece che con azioni, significa allentare ancor più il loro interesse di lungo termine alle sorti dell’azienda, in particolare in un momento in cui gli azionisti e ì dipendenti soffrono.
Ma c’è pure una novità positiva. «Si sta pensando di corrispondere subito solo una parte del bonus annuale in contanti, mentre una metà o più sarebbe congelata in attesa di conferme dell’andamento dell’impresa» spiega Catani. Un fatto rilevante, se si considera che in alcuni settori, come il farmaceutico, il bancario o l’assicurativo, e in genere là dove si parla di ricerca o di rischi, i veri conti vanno fatti su più esercizi.
Ci sono invece punti decisivi sui quali le aziende non sembrano voler cambiare rotta: i parametri in base ai quali vengono riconosciuti i tanto discussi premi. Il 56 per cento del campione infatti dice che non interverrà sulle «metriche di performance» utilizzate per il bonus annuale e l’80 per cento in quelle dei piani di lungo termine.
E quali sono queste metriche? Un approfondimento curato dalla Watson Wyatt sulle politiche adottate fra il 2004 e il 2007 dalle prime 100 aziende quotate in Italia rivela particolari sconcertanti. Il 32 per cento delle società non indica in base a quale parametro corrisponda gli incentivi di lungo termine. E in generale prevalgono gli indicatori di tipo finanziario, con forte propensione per l’utile a breve (32 per cento). «Mancano parametri importanti come la soddisfazione di clienti e creditori, la sostenibilità, e sono presenti in misura modesta quelli legati all’interesse dei soci» riferiscono dalla Watson Wyatt.
Nessuna intenzione, nell’80 per cento dei casi, di rendere più severe le condizioni di performance per l’incentivazione di lungo periodo. Solo un’azienda su cinque alzerà l’asticella che i numeri uno dovranno superare o cambierà i valori di premio correlati, anche se il 56 per cento pensa di allargare il numero dei destinatari. Come? Puntando sul livello gerarchico nel 14 per cento dei casi, ma, sopratrutto, per coprire i ruoli chiave (64 per cento) e le persone con competenze strategiche (21).
Insomma, c’è la speranza che frenando, sia pure in maniera non drastica, la corsa dei compensi degli amministratori delegati e allargando un poco la platea dei destinatari di premi la famosa forbice si riduca? Gli esperti cominciano a crederci, contando sulle pressioni degli esclusi dalla festa, dai dipendenti agli azionisti. «Si inizia a parlare di say ori pay, il principio secondo cui gli investitori hanno il diritto di esprimere le loro opinioni sulla remunerazione dei top executive» dice Catani, In Svizzera, sulla spinta dell’Ethos fund, una fondazione sul governo delle imprese, il Credit Suisse, l’Ubs e la Nestlé hanno consentito agli azionisti un voto (non vincolante) all’assemblea annuale sul sistema di pagamento dei manager.
In Italia «un’azione che si sta sviluppando, sia pure lentamente rispetto al tempi della crisi, è rendere più forti e davvero autonomi i comitati per la remunerazione manageriale» conclude Catani. Ma è più fàcile a dirsi che a farsi.