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 2009  febbraio 20 Venerdì calendario

WALTER SITI PER LA STAMPA DI VENERDì 20 FEBBRAIO

Scusate, ma difendo Povia. Schiacciato senza pietà dal carro armato di Benigni. Non è questione di livello artistico, naturalmente: la canzone di Povia è di una semplicità un po’ ovvia, sia nella musica che nel testo, mentre il carisma di Benigni è il frutto di un talento raro - la maschera o il folletto che tutti conosciamo, capace di insegnare divertendo. La lettera di Oscar Wilde che ha letto l’altra sera era straziantemente bella, nella sua ingenuità disperata e formale. L’ala della poesia, insomma, stava dalla parte di Benigni.
Ma l’Arci-gay, nella polemica di questi giorni, non ne ha fatto una questione di estetica o di poesia: ne ha fatto una questione di contenuti. Che cosa sia l’omosessualità, come nasca, come la si debba valutare. Da questa prospettiva, allora diciamo che il testo di Povia è ortodossamente freudiano e che le idee freudiane per molti di noi, omosessuali sessantenni, o per i nostri fratelli maggiori, sono state un momento importante nella lettura di noi stessi - riportando i comportamenti a un percorso familiare e storico, ci liberavano proprio da quel mito romantico e decadente (alla Proust o anche alla Wilde) che vedeva l’omosessuale come l’appartenente a una «razza» esclusiva e separata, maledetta o sublime.
Che poi Freud fosse condizionato dalla struttura machista e patriarcale della borghesia ottocentesca, e che dunque le sue analisi più sbagliate siano quelle sulla sessualità femminile e sull’omosessualità, anche questo pare ormai assodato. Probabilmente non è vero che l’omosessualità maschile sia per forza legata a un eccessivo amore per la madre (che è la tesi di Povia e di mezza letteratura del 900, per esempio quella splendida poesia di Pasolini che si intitola Supplica a mia madre); gli studi sono andati avanti, il panorama sociale è cambiato ed è giusto dirlo. Quel che mi preoccupa è che l’Arci-gay, presa nel fuoco della battaglia, compia un’indebita estrapolazione logica; che siccome l’omosessualità non è una nevrosi, ne deduca che allora non possono (o non devono) esistere omosessuali nevrotici. E che dunque raccontarne la storia sia una menzogna, o peggio un’offesa. O che l’omosessualità sia una condizione talmente perfetta e autosufficiente che non ci si possa transitare, per sboccare poi in un rapporto eterosessuale. O viceversa. Sarebbe triste, dopo aver passato gli Anni 60 a vergognarci di essere omosessuali, che ora dovessimo vergognarci di essere omosessuali nevrotici. Che dovessimo per forza recitare la felicità, o la coniugalità normalizzata e fedele. Che fossimo obbligati ad escludere dai nostri racconti, per essere politicamente corretti, tutte le ossessioni, i deliri padronali, i terrori infantili; che dovessimo considerare il passaggio all’eterosessualità come un tradimento.
Il progresso maggiore che abbiamo fatto, dai tempi di Freud, è proprio l’aver capito che omo ed eterosessualità non sono compartimenti stagni, che le frontiere si possono attraversare di qua o di là a seconda del nostro cammino psicologico, dipendente da mille fattori, compreso il caso. Se io, omosessuale, posso uscire dal rancore e dalla paura amando una donna, perché no? E se qualcuno mi raccontasse la storia di un etero infelice, che trova il suo equilibrio in un rapporto omosessuale, di nuovo perché no? (Nessuno l’ha ancora raccontato, d’accordo, ma allora è su questo che si dovrebbe lavorare per il prossimo Sanremo). Il testo di Povia non è minimamente offensivo, è solo parziale.
(A questo proposito, se fossi nell’Arci-gay mi sentirei più offeso dalle gag da avanspettacolo di Bonolis e Laurenti, che duettano lepidamente su quanto sia orribile baciare qualcuno che ha la barba, o sull’atroce rischio di essere sodomizzati. Qui sì, siamo all’uomo delle caverne, o delle caserme. Coraggio, Bonolis e Laurenti, provateci con qualcuno dei bonazzi che portate sul palco tutte le sere: vedrete che non è poi così terribile, e i poveretti almeno avrebbero ruolo).