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 2009  febbraio 19 Giovedì calendario

CHIMERICA DALLE FERROVIE AI PREMI NOBEL LA LUNGA MARCIA DEI "CHINAMEN"


La storia della "Chimerica" comincia da un chiodo. Anzi, da un chiodone, la zeppa d´oro che il 10 maggio del 1869 Leland Stanford, presidente della prima ferrovia Transcontinentale conficcò a martellate nell´ultima traversina dell´ultimo binario che scavalcava le Montagne Rocciose nello Utah e spalancava definitivamente il Far West alla colonizzazione americana. Attorno a lui, all´uomo che avrebbe poi dato il proprio nome alla Stanford University, un coro muto e invisibile di visi asiatici, di occhi a mandorla tirati sugli zigomi esposti da mesi di fatiche bestiali, assisteva alla cerimonia. Erano i chinamen come si chiamavano allora con disprezzo, i braccianti cinesi che avevano costruito il tratto più difficile della ferrovia, quello montagnoso. Erano poco più che schiavi, importati a decine di migliaia dalla provincia del Guangdong - Canton nella dizione europea - per lavorare a quel collegamento ferroviario che un giorno avrebbe funzionato nella direzione opposta a quella immaginata dai costruttori. Sarebbe divenuto l´arteria lungo la quale l´Oriente avrebbe invaso l´Occidente, con capitali, prodotti e uomini. E Stanford un´università frequentata da formidabili studenti, e insegnanti, venuti dall´Asia, a volte pronipoti di quei braccianti.
Il cammino che in 140 anni ha portato la Cina degli ultimi imperatori e l´America dei disperati pionieri in carri coperti a divenire una realtà interdipendente, è costellato di mine, di missionari, di esplosioni, di crisi militari e di lento, inesorabile riconoscimento della necessità di convivere. E se l´America è una nazione di immigrati più meno regolari, è nel rapporto con la Cina e i cinesi che la cultura collettiva, lo «spirito di una nazione» con radici europee, hanno dovuto accettare, dopo aver cercato invano di respingerla anche con una legge che negli anni 30 ne proibì l´immigrazione, dimostrando la costante, la sfida più difficile, perché più riconoscibile nella diversità apparente, seconda soltanto alla «diversità» degli africani.
Una alienità che si è manifestata non soltanto nella ghettizzazione dei primi centoquarantatrémila chinamen importati per deporre binari poi confinati nelle Chinatown da New York a San Francisco. La diffidenza per l´"asiatico" si traduceva e si alimentava nella difficoltà del rapporto ufficiale, politico, linguistico, fra una Cina in decomposizione, poi sotto occupazione, poi in guerra civile e infine coagulata nella dittatura comunista di Mao Zedong.
Per un secolo la politica estera americana ha vacillato tra il risibile sogno di «isolare» dal mondo la nazione più clamorosamente popolosa del Pianeta e quello di agganciarla al carro del nuovo ordine mondiale, tra vacui ossimori come quello lanciato da Bush, che voleva le due nazioni «partners in competizione», fino all´incidente dell´aereo spia americano entrato in collisione con un caccia cinese, che costrinse l´inesperto presidente ad abbassare la cresta e chiedere scusa.
Presidente successivi, da Roosevelt a George Bush il giovane, hanno cercato prima di forgiare la Cina a propria immagine, in un protoesperimento di esportazione della democrazia attraverso il molto poco democratico Chian Kaishek poi fuggito a Formosa oggi Taiwan. Poi di fermarla militarmente sul 38esimo parallelo in Corea, dal quale il generalissimo McArthur sognò follemente di lanciare l´assalto contro la Cina stessa. Poi di usarla come leva per spezzare l´asse comunista mondiale contro l´Unione Sovietica. Prima di rassegnarsi, cominciando dai mitici tavoli da ping pong di Kissinger, sotto Richard Nixon, a guardare l´inevitabile e a imporre il riconoscimento politico alla Repubblica Popolare cooptandola alle Nazioni Unite a al Consiglio di Sicurezza. Un evento che non mancò di sconvolgere i benpensanti e di resuscitare qualche brivido di ilarità razzista quando il primo ambasciatore cinese all´Onu dichiarò al suo sbarco a New York nel 1971 che Bejing avrebbe portato al mondo soltanto «peace, peace, peace». Un lodevole annuncio che nella pronuncia difettosa del bravo diplomatico suonò come «porteremo piss, piss, piss», che è altra cosa, meno nobile.
Ora che oltre tre milioni di «sino americani», più legioni di «irregolari» scaricati dai container a Seattle e San Francisco, se sono ancora vivi dopo settimane vissute in scatola, sono non soltanto perfettamente integrati, ma al vertice della vita politica, accademica ed economica (Yahoo fu fondata dal taiwanese Yang Zhiyuan, in arte Jerry, e il Nobel Steven Chu è ministro dell´Energia nel gabinetto Obama) la questione razziale, lo stereotipo del chinaman che depone rotaie o lava a secco gli abiti dei bianchi tra zaffate di aglio fritto e tranci di pollo alle noccioline, è sepolto. Ma l´animosità verso «l´Impero al Centro del Mondo», la Cina, riaffiora nel nuovo terrore della globalizzazione, della delocalizzazione di impianti e lavoro oltre quell´Oceano che la ferrovia collegò nel 1869.
Come il Giappone negli anni 70 e 80, così la Cina del Terzo Millennio è il «ladro nella notte» che succhia stipendi, salari e linfa all´America, promettendo di tradurre un giorno tutta questa trasfusione di ricchezza in potenza, secondo leggi storiche, e di sfidare sul campo di battaglia l´egemonia strategica degli Stati Uniti. A differenza del Giappone, che ostentava i propri marchi famosi, Sony o Toyota, Honda o Mitsubishi, come poi farà la Corea, la Cina è una potenza economica ancora stealth, invisibile. Le sue fabbriche lavorano sotto brand americani, sfornando computer e paperelle di gomma, rubinetteria e televisori per conto terzi, o mimetizzandosi con etichette anodine. Non compete con l´America, come Toyota fece con GM, o Sony contro Rca. Entra omeopaticamente nei grandi magazzini del discount, dove il prezzo basso comanda, si insinua, con il proprio capitalismo di stato, nei portafogli dei consumatori americani, finanziando i debiti delle loro carte di credito, e riempiendo il carrello della spese, con i prodotti che i suoi prestiti aiutano a comperare.
E se la agenzia governativa Xinhua denuncia quel profumo di protezionismo che si sprigiona dal pacco di finanziamenti votato dal Congresso e che contiene misure protezionistiche per «comperare americano», nessuno, né a Beijing né a Washington pensa che l´enorme cordone ombelicale che ormai lega i grattacieli di Shanghai e quelli di Wall Street, le nuove ferrovie a levitazione magnetica con i mutui in sofferenza, possa essere tagliato senza uccidere insieme la madre e il bambino. Né la «soluzione giapponese», quel diktat americano che fece salire al cielo il valore dello yen, la moneta nipponica, e tagliò le gambe all´industria, può essere applicata allo yuan cinese con la stessa brutalità, perché asfissiare Shanghai significa togliere ossigeno a Washington. Ormai, simul stabant, simul cadent, insieme si reggeranno e insieme cadranno, i signori della ferrovie e i coolie che sistemavano i chiodi nelle traversine. Servi e padroni insieme, condannati a viaggiare o a precipitare sullo stesso treno della storia.