varie, 19 febbraio 2009
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Manotti Dominique
• Parigi (Francia) 24 dicembre 1942. Scrittrice. Storica di formazione e docente per molti anni, è giunta al noir negli anni della maturità e dopo una lunga esperienza di militante della sinistra rivoluzionaria francese e di sindacalista. Come ama spesso ricordare, ha iniziato a scrivere quando l’elezione di Francois Mitterand alla presidenza della Repubblica fu salutata come l’avvio di una trasformazione radicale della società. Giudizio che non la convinse mai del tutto, scegliendo il ”noir” per raccontare le speranze deluse di una generazione di militanti. In Italia, tutti i suoi romanzi - Il sentiero della speranza, Il bicchiere della staffa, Curva Nord , Le mani su Parigi, Vite bruciate sono stati pubblicati da Marco Tropea • «Siete del partito di Fred Vargas o del partito di Dominique Manotti? Basta leggere uno di seguito all’altro due romanzi di queste due scrittrici francesi, entrambe gialliste, entrambe docenti universitarie, con un passato politico simile, per capire quanto possano essere distanti gli estremi del ”polar”. Se in Italia la Vargas è molto più nota (Einaudi Stile libero ha tradotto quasi tutti i suoi libri), anche la Manotti comincia ad avere uno zoccolo duro di lettori appassionati. [...] La differenza tra le due la spiega bene Giancarlo De Cataldo, da sempre lettore di entrambe: ”Fred Vargas fa una metafisica del noir, ha una struttura classica, naviga in un universo parallelo a quello reale. Quelli di Dominique Manotti sono, più che gialli, romanzi storici a sfondo politico che raccontano la crisi della democrazia in Occidente. La Manotti fa quello che in Italia facciamo io, Carlotto, Lucarelli, Wu Ming, che in Scandinavia fanno Larsson e Mankell, in Spagna Vázquez Montalbán e Ledesma. l’Occidente che racconta il suo lato criminale. Romanzi che dicono in modo molto più efficace quello che è stato scritto in molti saggi letti da pochi. [...]”. Dominique Manotti, nata a Parigi nel 1942, (’è una donna simpaticissima, un incrocio tra la Lidia Menapace di 25 anni fa e Rita Levi Montalcini” la definisce De Cataldo) ha cominciato a scrivere relativamente tardi, a cinquant’anni, e appartiene, come la Vargas, a una generazione politicizzata e militante. Ma, se Fred Vargas, convinta sostenitrice che il giallo non possa incidere nella realtà sociale, trascina il lettore in un orrore che ha a che fare essenzialmente con la natura e con l’umanità riuscendo a catturarlo con storie spesso inverosimili che mescolano esoterismo e riti ancestrali, Dominique Manotti pratica un realismo hard-boiled rivestito da uno stile freddo, quasi documentaristico, affidando alla verosimiglianza dei fatti che si susseguono la suspense del romanzo. Docente universitaria di Storia economica, per vent’anni attiva sindacalista, Dominique Manotti ha raccontato [...] le illusioni della Francia di Mitterrand da un punto di vista sociale.[...] ” una scrittrice engagée nel vero senso della parola” dice Marcello Fois, suo lettore da lunga data [...] ”Impegnata ma non impegnativa, ha una mano lieve ma non rinuncia mai al suo diktat per cui la scrittura deve servire per migliorare il lettore. La sua è una difesa dei diritti elementari, in questo senso è una scrittrice all’antica, ma in un modo positivo”. Come lettore Fois ama sia la Vargas che la Manotti. ”Sono due autrici ”maschili’ per così dire e questo mi piace. Diciamo che se dovessi scegliere con la pistola puntata alla tempia sceglierei la Manotti. Per certi versi la trovo più potente, ha una scrittura scabra, essenziale, meno levigata ma di grande fascino. Mi piace molto anche come persona: mi ricorda una di quelle vecchie staffette partigiane. Diciamo che vedendola viene subito in mente un’idea di ”resistenza’”. Quanto all’engagement, anche in quello Fois vede una certa differenza tra le due, pur essendo entrambe di sinistra. ”Diciamo che la Vargas mi sembra più una rivoluzionaria in poltrona, la Manotti ha fatto vent’anni di sindacato, è meno legata all’establishment della sinistra culturale francese. Per intenderci: lei non sarebbe mai andata da Sarkozy a perorare la causa di Cesare Battisti”» (Cristina Taglietti, ”Corriere della Sera” 15/2/2009) • «[...] ha da tempo maturato la convinzione che il noir sia lo strumento adeguato per raccontare le tensioni, i conflitti, le contraddizioni di questa modernità. ”Il noir - sostiene la scrittrice - nasce con la grande crisi del ”29. I grandi scrittori statunitensi come Dashiell Hammett sono figli di quel periodo e mettono nero su bianco il fondo oscuro di una società che si vuol presentare invece come ordinata, armonica, pulita. C’è l’eccezione di James Ellroy, che racconta gli Stati Uniti che vogliono diventare i padroni del mondo. un grande reazionario, ma i suoi libri sono una magistrale e radicale critica alla società americana. La forza del noir sta proprio in questa possibilità di svelare ciò che le scienze sociali o la filosofia traducono in fredde astrazioni [...] Nel mio passato non c’è solo l’insegnamento della storia,ma anche una appassionante esperienza di sindacalista. So quindi che vuol dire essere cacciati, dalla mattina alla sera, dalla fabbrica. Conosco il dolore, la disperazione che questo ”evento” significa. In Vite bruciate mi sono ispirata a una donna licenziata: con lei ho parlato molto di cosa avesse significato quella cacciata dalla fabbrica. Ecco, penso che il noir possa dare la parola a chi non l’ha più. Per molti aspetti, possiamo dire che lo stesso Honoré de Balzac ha saputo rappresentare la Francia del XIX secolo meglio di tanti libri delle nascenti scienze sociali. Perciò ritengo che il noir possa svolgere lo stesso ruolo per questo inizio di millennio. [...] Nei miei romanzi non c’è riscatto dei vinti. Semmai scrivo della dignità degli sconfitti. Quando insegnavo storia citavo sempre il libro di Edward P. Thompson sulla formazione della classe operaia inglese. Nel saggio si diceva che la storia è sempre quella dei vincitori; lui si proponeva di raccontare l’’altra’ faccia, perché i vinti spesso non hanno storia. Ecco, penso che il noir possa aiutare a scrivere la loro storia. Dopo la sconfitta, i vinti, in questo caso gli operai, non si percepiscono più come appartenenti a un soggetto collettivo, la classe operaia, ma solo come singoli che svolgono un certo lavoro. Ciò è dramamtico, ma è partendo da quella dignità che esprimono gli sconfitti che forse possiamo fare una storia aperta al futuro. [...] Ho anche insegnato per quindici anni in un liceo di una banlieue, ma non riesco a immaginare cosa possa pensare un giovane di adesso. La loro distanza rispetto al mio mondo è grande. Non dal punto di vista politico, perché credo che ogni movimento contro l’esclusione o la segregazione sociale sia da appoggiare, ma perché non riesco a immaginare come dare voce alle loro vite, alle loro emozioni [...]”» (Benedetto Vecchi, ”il manifesto” 19/2/2009).