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 2009  febbraio 03 Martedì calendario

Il Giornale, domenica 25 gennaio 2009 Immagini di salme. Viste da lontano sembrano fotografie, tanto appaiono perfette

Il Giornale, domenica 25 gennaio 2009 Immagini di salme. Viste da lontano sembrano fotografie, tanto appaiono perfette. Poi ti avvicini e scopri che sono pitture a olio su tela. E vedi dettagli che prima non avevi notato: scimmie urlanti attorno ai catafalchi di Giovanni Paolo II, Madre Teresa di Calcutta e padre Pio; l’oblò dell’Apollo 11 trasformato in diaframma davanti al volto sfigurato di Mussolini; un annoiato Totò nella camera ardente di Mao Tse-tung; l’astrofisico Stephen Hawking che veglia Che Guevara dalla sedia a rotelle su cui l’ha inchiodato la sclerosi laterale amiotrofica; quattro teschi accanto ad Aldo Moro irrigidito sul tavolo autoptico dell’istituto di medicina legale; elettrodi che spuntano dalla chioma arruffata di Albert Einstein; una lepre appesa al gancio sospesa sulla bara aperta di Salvador Dalí. «Lancinato, drammatico, pittore classico dall’inclinazione quasi iperrealista, fine ritrattista e profondo indagatore del mondo animale, caso isolato nel panorama italiano» (la definizione è di Vittorio Sgarbi), Luca Del Baldo ha per il corpo umano lo stesso interesse degli anatomopatologi, degli investigatori del Ris, dei criminologi, dei telespettatori di Crime scene investigation e Grey’s anatomy. Ma spaventa i benpensanti perché trasforma i defunti in opere d’arte e li mostra «in luoghi stranianti rispetto al contesto ambientale che ci sembrerebbe più appropriato» (sempre Sgarbi). Lui le chiama, con un neologismo tedesco che s’è coniato da solo, todkammer, camere delle morte, e preferisce non esporle in Italia, per non urtare la sensibilità del pubblico. Diciamo che le dipinge per sé, e infatti non ne ha mai venduta una. In compenso sta ultimando una serie di normali ritratti a mezzo busto di grandi attori - Marilyn Monroe, John Wayne, Jean Gabin, Bette Davis, Burt Lancaster, Clint Eastwood, Jack Nicholson, - al cui confronto le tavole di Norman Rockwell, o quelle di Achille Beltrame apparse fino al 1945 sulla Domenica del Corriere, sbiadiscono. «Curt del geni» è scolpito all’ingresso della dimessa corte di Villa Guardia dove Del Bosco, nato 40 anni fa nella vicina Como, occupa un bilocale bohémien, insieme casa e atelier, gelido quanto basta per accendere la creatività. «Ma il genio non sono io, ignoro chi abbia murato quella lapide», si chiama fuori, nonostante si sia diplomato con 60/60 al liceo artistico e con 110 e lode all’Accademia di Brera. Varcare la sua porta equivale a entrare subito in argomento: sul cavalletto riposa fresca di colore la testa insanguinata di una donna, «una delle vittime estratte dalle macerie dopo l’attentato alle Torri gemelle», mostra la foto sul paginone di Newsweek al quale s’è ispirato, «alla fine penso che ne ricaverò un trittico». Note del Requiem di Orlando di Lasso in sottofondo. Foto di cadaveri eccellenti alle pareti. Sei ferri chirurgici appesi davanti al computer. Manuali di patologia e dermatologia sugli scaffali. L’occhio cade sul dorso di un volume pubblicato da Masson, casa editrice specializzata in testi per studenti universitari: La cinematica del suicidio e dell’omicidio per arma da fuoco. «Lo ha scritto il professor Paolo Picciocchi, all’epoca titolare della cattedra di medicina legale alla Federico II di Napoli. L’ho pagato 187.000 lire nel 1992, in libreria non volevano darmelo». Vi risparmio la descrizione del materiale iconografico contenuto nel tomo. «Eppure legga la dedica, ”A Kitty, mia moglie”. Le pare normale che l’autore dedichi un’opera simile alla propria consorte?».  questo che sorprende dell’artista comasco: pur occupandosi di argomenti estremi, nella sua personalità non cogli alcun tratto visibile di eccentricità. un onesto travet della morte, al pari degli impresari di pompe funebri, colto, misurato nel linguaggio, cordiale. «Non sono un necrofilo, ho messo piede negli obitori soltanto due volte in occasione di funerali». All’estero stravedono per Del Baldo. James Graham Ballard, l’autore del romanzo L’impero del sole dal quale Steven Spielberg trasse l’omonimo film, ha ingiunto prima a Bompiani e poi a Baldini & Castoldi di affidare a lui le copertine delle edizioni italiane di Crash e Cocaine nights. David Cronenberg, il maestro del «body horror» (La mosca, Inseparabili, Il pasto nudo), lo aspettava in Canada come assistente sul set di Crash, «ma io non avevo i soldi per il biglietto aereo». Peter Greenaway, altro visionario che ha firmato film su cannibali e malati terminali, ha voluto conoscerlo a Lugano. Leni Riefenstahl, l’inquietante regista prediletta da Hitler, lo accolse a Pocking, affiancata da un amante alto, biondo e con gli occhi azzurri che aveva 40 anni meno di lei. Come si definirebbe? «Banalmente, un pittore. Altrettanto banalmente, un esteta. Il mio organo erettile è l’occhio. I quadri li vendo solo all’estero, soprattutto Spagna e Germania. In Italia ho dovuto arrangiarmi con i ritratti di imprenditori e le copertine per Mondadori e Rizzoli». Mi descriva il suo lavoro. «Una cartografia del contemporaneo. Mi sento ceronettiano (da Guido Ceronetti, poeta, saggista, traduttore di testi biblici, marionettista, ndr). Il male prevale sul bene». Triste. «L’uomo è irredimibile. Un essere che non mi piace. L’unica cosa che salvo di lui è il corpo. Questo non significa che non creda nel bene. La bontà del missionario e l’innocenza dell’idiota dostoevskiano mi lasciano disarmato, mi annichiliscono». Perché questa è l’epoca del piercing e dei tatuaggi? «Codici tribali. Nell’era dell’individualismo sfrenato, ci s’intruppa per paura dell’altro». Del lifting che cosa pensa? «Amo la vecchiaia. la forza del carattere, come sostiene lo psicoanalista James Hillman. La faccia di un anziano è la cosa più sublime che possa esistere». Il suo scopo, leggo, è «documentare le mutazioni del corpo, il passaggio tra ciò che eravamo e ciò che saremo». Che mutazioni vede? «Ha presente Orlan?». No. « un’artista francese che sta rimodellando il proprio corpo con diverse operazioni chirurgiche affinché corrisponda a un’immagine mitologica. S’è fatta aggiungere due corna in fronte, sembra uscita dalla traumatologia». Quando le è venuta la fissa per i morti? «A 12 anni. Mia madre mi portò a vedere un vicino di casa defunto, Adolfo, un omone. Me lo sognai per molto tempo. Di notte veniva a sedersi sul bordo del mio letto. Io mi svegliavo di soprassalto credendo d’aver visto il diavolo. Non s’è mai capito perché il mio dobermann, che dormiva nella stessa stanza, ringhiasse, come se avvertisse anch’esso una presenza. Poi ho fatto il chierichetto. Nella cultura cattolica la morte è sempre presente».  religioso? «No, sono ateo. Ma la chiesa, parlo dell’edificio, è il luogo più bello in assoluto, libera la testa da tutte le preoccupazioni. Fra le navate, specie se gotiche, si avverte il mistero. Provo un’attrazione-repulsione per le alte gerarchie. Mi piacerebbe ritrarre da vivo Papa Ratzinger. Lo vedo come l’Innocenzo X dipinto dal Velázquez, che sono andato a rimirarmi varie volte alla galleria Doria Pamphilj di Roma. Aveva ragione Francis Bacon: è il più grande ritratto nella storia dell’arte». Non conosco pittori che abbiano come testo sacro «L’atlante di medicina legale» di Weimann e Prokop con le sue foto agghiaccianti. «Però Léon Cogniet nell’Ottocento dipinge il Tintoretto mentre ritrae la figlia morta: è al Museo di belle arti di Bordeaux. Stesso soggetto in una tela di Eleuterio Pagliano alla Galleria d’arte moderna di Milano. Comunque L’atlante l’ho prestato a un amico che non me l’ha più restituito». Come mai la sua arte ha bisogno dei tavoli anatomici delle morgue? «La salma di Che Guevara è magnifica, mi ricorda il Cristo morto del Mantegna custodito nella Pinacoteca di Brera. Appaga gli occhi». Ha dipinto anche Mussolini e la Petacci appesi a piazzale Loreto. «Mostro la tela capovolta: sembra una danza dei balletti russi di Sergej Djagilev. Non lo faccio per stupire. Non credo nella pittura engagé, non m’interessano le provocazioni, tipo quelle di Maurizio Cattelan, per capirci, o il Benedetto XVI in autoreggenti che Paolo Schmidlin voleva esporre a Milano. Penso che la storia italiana sia stata divisa in due parti dalle uccisioni di Mussolini e di Moro. Due corpi di Stato che hanno segnato un prima e un dopo. Gli artisti sono una massa di paraculi: lavorano per chi gli dà i quattrini. Ma il genio va oltre il committente». Anche lei ha tentato di far rumore esponendo al Miart di Milano un trittico sull’autopsia di John Fitzgerald Kennedy e un Pier Paolo Pasolini deturpato. «Nanni Moretti e Oliviero Toscani li hanno digeriti. Dolce & Gabbana e Sgarbi no, li hanno giudicati troppo forti. Però la tela su Moro mi sono sempre rifiutato di esporla, per non offendere i familiari». Al Padiglione di arte contemporanea il dipinto della salma di padre Pio è stato contestato. «S’è pure fulminato il faretto che lo illuminava, l’unico su 142. Prima mi chiamano alla rassegna Nuovi pittori della realtà, poi mi tolgono dal catalogo. Io che colpa ne ho? Per me, per noi italiani, per noi cattolici, padre Pio è una figura importantissima». Ha detto «noi cattolici»? «Anche se sei ateo, non puoi non dichiararti cattolico. Non m’interessa sapere se padre Pio era un santo oppure un impostore, come sostiene Sergio Luzzatto nel suo libro. Non ho il diritto d’entrare nella fede delle persone. Dico solo che il frate di Pietrelcina mi ossessiona non meno del Duce e del Che». Perché accanto ai papi e agli statisti ritratti sul letto di morte mette sempre babbuini e oranghi che strillano? «La scimmia è un animale ambiguo, il più prossimo all’essere umano, ma dai tratti demoniaci. Ciò che m’inquieta, m’affascina. Nel quadro di Madre Teresa le scimmie piangono, come in una deposizione. Alcuni ci vedranno il dolore, altri la morte che irride alla vita. L’artista si misura inevitabilmente col trascendente, col tempo, con la materialità delle cose. Anche una bottiglia di Giorgio Morandi ha a che fare col sacro, se non altro per via della luce. La grande arte s’interroga su chi siamo noi uomini». Perché la salma di Mao è vegliata da Totò? «Inserisco elementi grotteschi per smorzare la repulsione. Come fece Federico Fellini nel Casanova, un film lugubre ma ricco d’invenzioni che ne attenuano la cupezza». Che cosa pensa del corpo umano? «Quanto di più bello la natura abbia fatto. Ho questo limite: non riesco a vedere il fascino dei tramonti, dei paesaggi». Circonda il suo di cure particolari? «Fumo tanto, mangio tanto, non mi drogo, mai preso farmaci». So che cerca come modelli uomini e donne grassi oltre i 55 anni. Che cosa la attira dell’obesità? « tanta, riempie la tela. Ma i modelli scarseggiano. Gli uomini credono che sia gay, le donne che ci voglia provare. Va’ a spiegarglielo che m’interessa solo dipingerli». Quando incontra una persona, qual è la prima cosa che osserva? «La faccia». E l’altro che cosa osserverà in lei, ha provato a chiederselo? «Mai. Sono molto autoreferenziale».  uscito da Brera con una tesi sulla fotografa Diane Arbus. Come mai è attratto dall’autrice dei raggelanti primi piani di reietti e minorati? «I normali fotografati dalla Arbus sembrano anormali, e viceversa. Un acondroplasico (nano, ndr) ritratto dalla Arbus diventa un re in trono. Ho il massimo rispetto per la deformità, perché è più autentica del reale. I cosiddetti mostri sono esseri epifanici, rivelano una verità che altri non hanno. Lo stesso dicasi dei morti: il loro volto si nobilita, come se avessero raggiunto una conoscenza che a noi vivi è negata». Quanto c’è di vero nel film «Fur» in cui la Arbus è interpretata da Nicole Kidman? «Nulla. La Arbus della Kidman è oscena e inverosimile». Potrebbe anche lei innamorarsi di una donna barbuta, come càpita alla Arbus con Lionel, l’infelice essere somigliante allo yeti? «Sì, perché no?». L’inclinazione al macabro ostacola o facilita i contatti con l’altro sesso? «Facilita. La gente è curiosa. Donatella, una ragioniera con cui sono fidanzato da sei anni, all’inizio era un po’ scossa. Molte cose non gliele mostro, né lei vuole vederle. Preferisce i cartoni animati di Madagascar». Che cos’è per lei la normalità? «Conformismo». Quando le ho telefonato per un appuntamento, mi ha detto che era meglio se venivo a trovarla di sera e ha subito soggiunto: «Per via del traffico, non perché io celebri qualche sabba». questo che pensano di lei a Villa Guardia? «Pensano che sia un po’ strano. Ma io non mi sento più strano di altri. Insegnavo disegno dal vero all’istituto d’arte di Como. Il rapporto con gli studenti era splendido. Ho smesso di mia iniziativa: la scuola mi impegnava tanto e mi pagava poco. Secondo i miei genitori sono un barbone fuori di testa perché non ho fatto i soldi». Pochi si occupano di ciò da cui lei sembra attratto. Dunque siamo nell’anormalità, non crede? «Tanti ne sono attratti quanto me, solo che si vergognano a confessarlo. Altrimenti mi deve spiegare il successo di serial come Csi e di Fox crime, canale satellitare riservato ai delitti e al noir». Che differenza c’è fra lei e un voyeur? «Nessuna. Solo che il mio unico fine è ricavarci un quadro anziché soddisfacimento sessuale». Non è angosciante occuparsi sempre di defunti? «Sì, parecchio. Mi svago dipingendo i vivi. Le todkammer non rappresentano che un terzo della mia produzione». Ha paura della morte? «No». Che cosa pensa che ci sia dopo? «Nulla. Siamo cadaveri. Ma qualcosa lasciamo: quadri, figli... Nel mio caso solo quadri. Sono troppo egoista per avere dei figli, ruberebbero tempo all’arte». C’è qualcosa di fronte alla quale si ferma? «La mia vita è tutta un rischio». Stefano Lorenzetto LORENZETTO Stefano. 52 anni, veronese. Prima assunzione a L’Arena nel ”75. stato vicedirettore vicario di Vittorio Feltri al Giornale, collaboratore del Corriere della sera e autore di Internet café su Raitre. Scrive per Il Giornale, Panorama, Monsieur e Quattroruote. Sei libri: Fatti in casa, Dimenticati, Italiani per bene, Tipi italiani, Dizionario del buon senso e Vita morte miracoli. Ha vinto i premi Estense e Saint-Vincent di giornalismo. LORENZETTO Stefano. 52 anni, veronese. Assunto a L’Arena nel ”75. stato vicedirettore del Giornale e autore Rai. Scrive per Il Giornale, Panorama, Monsieur e Quattroruote. Sei libri: Fatti in casa, Dimenticati, Italiani per bene, Tipi italiani, Dizionario del buon senso e Vita morte miracoli. Ha vinto i premi Estense e Saint-Vincent di giornalismo.