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 2009  febbraio 19 Giovedì calendario

ECCESSI FUTURISTI. AVANGUARDIA PER VECCHIE ZIE

Da quanto non ne posso più di questa retorica celebrativa del Futurismo che compie adesso cent’anni, se incontro per strada Filippo Tommaso Marinetti lo ammazzo. E anche se lui per primo non avrebbe amato questo profluvio di mostre, di libri talvolta raffazzonati per l’occasione, di ”eventi” e cene futuriste, di gente che per ogni dove si proclama futurista al cento per cento e per 24 ore al giorno. E anche se Effetì (come lo chiama il mio amico Giordano Bruno Guerri nella sua recente e bella biografia mondadoriana che gli ha dedicato) sarebbe stato il primo a non amare questo centenario che da una parte gli era stradovuto, dall’altra arriva quando tutti i buoi sono usciti dalla stalla. Quando siamo entrati in un nuovo millennio, altro che in un nuovo secolo, e tutto è cambiato della nostra cultura e dei nostri linguaggi culturali; quando le provocazioni del futurismo storico sono divenute l’abc dell’odierna vita culturale e dunque non pungono più e non sorprendono più; quando i celebratori del Futurismo non rischiano nulla e non inventano nulla.
Libri introvabili

Vi sta parlando uno che al tempo dei suoi studi universitari di letteratura moderna, e sono passati purtroppo ben quarant’anni, non una volta aveva sentito pronunciare la parola ”Futurismo” e se qualche professore menzionava il nome di Marinetti era per sbeffeggiarlo. Uno che ha imparato ad amare il futurismo libro su libro trovato in antiquariato, volantino su volantino, quadro su quadro, foto su foto, ed erano libri e foto che li dovevi cercare a lungo se li volevi trovare. Uno che ha fatto l’apologia del futurismo quando era ancora molto forte e solida la barriera di cemento eretta da chi giudicava i futuristi dei fascisti e degli strampalati e nulla più. Dio, che tempi meravigliosi che erano quelli in cui noi innamorati del futurismo eravamo una loggia massonica discosta e segreta.

Oggi vi sto parlando quando ho appena ricevuto l’invito a una cena futurista che si terrà a Roma domani, e naturalmente mi spiace non poterci essere. Il mio vecchio amico Giuseppe Casetti, uno dei più bravi antiquari romani, ha organizzato in questi giorni, tutt’attorno alla sua libreria che se ne sta al ghetto, una serie di eventi per strada a celebrare e mimare gli exploit futuristi del 1911 o del 1914 o del 1931. A Milano e altrove debutta una mostra di pittura futurista al giorno. A Torino il grande Enzo Biffi Gentili ha organizzato una mostra in onore di Pablo Echaurren, pittore neodada e collezionista emerito dei materiali cartacei del Futurismo, fra i primissimi a capire quel che era del futurismo ed era dovuto al futurismo.

Tutte cose egregie, beninteso. Tutte cose che pagano il debito contratto dalla cultura italiana nei confronti del Futurismo, divenuto innominabile e innominato dal 1945 e fino al 1985, data della famosa mostra veneziana a Palazzo Grassi. Ci vollero poco meno di 25 anni, dal 1945 al 1969, perché quello che era diventato l’editore per antonomasia dei libri di Marinetti - Mondadori - accettasse di ripubblicare un libro di Marinetti. Per 25 anni era stato un nome tabù. La terza delle figlie di Marinetti, Luce, ha raccontato che quando lei era al ginnasio (negli ultimi anni Quaranta) il suo professore apostrofava duramente suo padre mentre lei lo ascoltava. Negli anni Cinquanta la famiglia Marinetti, Benedetta e le sue tre figlie, era alla fame. Un museo americano chiese di poter comprare un meraviglioso quadro di Umberto Boccioni che stava nella stalla di una loro casa di campagna. Per loro fortuna - perché ne ricavarono di che mangiare - Carlo Giulio Argan disse di sì, che una tale porcata fascistoide la potevano vendere senz’altro agli americani. (Più tardi Argan ammise lealmente il suo errore, dovuto al pregiudizio ideologico).

Oggi siamo all’estremo opposto. Sindaci e assessori culturali che provengono dall’area di An promuovono da mattina a sera l’eccellenza dei futuristi sino a vantarne la connotazione politica. E qui bisogna andar cauti. Da una parte è verissimo che non c’è stata alcuna antitesi e muro divisorio tra ”fascismo” e ”cultura”. Tutto il contrario. Il fascismo fu un prodotto della cultura di guerra e dopoguerra, del tempo orribile in cui le opposte fazioni si scaraventavano l’una contro l’altra ad annientarsi. Il gusto della violenza e del ”santo manganello” non fu una prerogativa dei fascisti e laddove i loro avversari politici sarebbero stati dei francescani scalzi. Gli uni e gli altri miravano alla guerra civile totale, un mito e un incubo da cui siamo usciti da non molti anni.
Intellettuali fascisti

Il fascismo ebbe dalla sua gli intellettuali i più moderni e i più innovativi, da Giuseppe Ungaretti a Ottone Rosai, da Mario Sironi a Leo Longanesi, da Giuseppe Pagano a Mario Carli, da Giuseppe Bottai a Fortunato Depero. Ne fa fede il celeberrimo allestimento, nell’attuale Palazzo delle Esposizioni a Roma, del decennale della marcia su Roma e della vittoria mussoliniana. L’allestimento del 1932 che qualcuno ha definito il più bello del secolo.

Detto questo, e detto come di una ovvietà assoluta, l’ultima fase dell’avventura futurista fu caratterizzata dal compromesso e dalla viltà politica. I futuristi non erano certo a favore delle leggi razziali, ma dissero poco o nulla contro quelle leggi ignobili. Loro che avevano combattuto la Germania durante la Prima Guerra mondiale non erano certo a favore dell’abbraccio con il nazismo hitleriano, ma di quell’abbraccio accettarono tutta la retorica e tutte le pagliacciate. Loro che avevano proclamato la guerra come «la igiene del mondo», fecero finta di non capire che l’esercito italiano nella Seconda guerra mondiale stava perdendo tutte le battaglie e di terra e di mare e d’aria, e non certo perché i nostri soldati e i nostri avieri fossero dei vili. Sino all’ultimo, gente da me adorata, come Benedetta Marinetti e Fortunato Depero, hanno scritto porcate inaudite a favore di un fascismo ridotto allo stremo e alla polvere. Commemorare e ricordare sì, ma non facciamo com’è nel dna del nostro Paese.

Che sino all’ultimo tutti erano dei mussoliniani convinti, e il giorno dopo tutti degli antifascisti della prima ora. Sino all’ultimo giorno tutti dei fautori del Bettino Craxi ”decisionista”, il giorno dopo tutti che non lo avevano mai conosciuto. E a non dire di quelli che avevano proclamato Walter Veltroni uno dei più grandi romanzieri contemporanei, e che adesso lo mollano via come fosse un lebbroso. Il dna di un Paese pagliaccio.