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 2009  febbraio 19 Giovedì calendario

IL FUGGITIVO. PSICANALISI DI UN PERDENTE DI SUCCESSO

La via più efficace al recupero della verginità politica l’ha seguita Walter Veltroni, che forse non l’aveva mai persa. Negli ultimi anni, infatti l’ex segretario dei Ds ha saputo tracciare una rotta tutta sua, diversa da quella di Fassino, che ha cercato pacatamente di salvare il salvabile così come da quella di D’Alema, che ha rispolverato baldanzoso le armi della critica. Veltroni sceglie di navigare in tutt’altre acque, senza darsi troppa cura di quanto ha lasciato nella casa di cui è stato amministratore. All’apparenza s’intende, perché nei fatti segue da vicino i contraccolpi della sconfitta elettorale sul corpo del partito e vigila sulla discussione del congresso di Pesaro del 2001. Tenendosi al riparo dietro lo schermo della sua nuova collocazione di sindaco di Roma e rifiutandosi di votare alcun documento congressuale, ma gratificando della propria benedizione il candidato del ”correntone” giovanni Berlinguer con parole da sapiente King maker: « un dirigente di questo partito tanto autorevole quanto discreto, dai suoi incarichi politici è entrato e uscito con un’eleganza rara e con un disinteresse che vorrei ci assomigliasse sempre di più. Berlinguer è un uomo moderno, ha grande civiltà e può tenere unito il proprio partito».

D’altra parte, alla vigilia della rovinosa sconfitta elettorale del 2001 Veltroni aveva trovato il modo di porsi al riparo dalla tempesta che si preparava, con una gestione al solito magistrale del proprio personaggio pubblico. Poteva dunque far largo a Francesco Rutelli come candidato dell’Ulivo licenziando Giuliano Amato, che negli ultimi e più difficili mesi della legislatura aveva ricoperto il ruolo di presidente del Consiglio. Ma al contempo riusciva a imbastire un’elegante presa in giro all’indirizzo del giubilato, affermando che «se c’è un uomo che può darci una mano si chiama Giuliano Amato…, che oggi è più forte per autorevolezza politica e per funzione di leadership». Ugualmente poteva presentare la propria candidatura al Campidoglio (...) come un gesto di generosità: «Non avevo mai preso in considerazione l’ipotesi di candidarmi a sindaco, ero tutto impegnato a combattere lo sconfittismo…ma ho trovato che candidandomi potevo unire, come si diceva una volta, il personale e il politico».
Da Lando ai boy scout

Il personale e il politico, per l’appunto. Come dargli torto? Il suo piccolo miracolo personale, infatti, consiste proprio nella conquista di una nuova incolumità pubblica e politica. Pubblica perché, agli occhi di chi è fuori dai Ds, egli guadagna subito dopo la sconfitta la riva sicura della neutralità istituzionale; politica perché dentro il partito riesce a mantenere intatto il proprio capitale, congelandolo in attesa di tempi migliori. Che certamente verranno, come infatti sono venuti al momento della scelta dell’unico leader possibile per il Partito democratico, perché in questi anni Veltroni ha lavorato con scaltrezza alla creazione di una base di consenso davvero imponente. Dietro il suo Campidoglio sono ormai ordinati in fila indiana i simboli e gli stendardi di mondi lontanissimi da quello da cui era partito molti anni prima: Lando Buzzanca con i settori dello spettacolo di simpatie destrorse accanto al partito della Rai nei secoli fedele, gli ambienti dell’Opus dei con i quali si raccorda Alberto Nichelini insieme alla Comunità di Sant’Egidio, l’unione industriali insieme alle cooperative dell’Estate romana, gli antagonisti dei centri sociali accanto allo scoutismo. un ribollire di consenso dal sapore quasi totalitario, che Veltroni ha conquistato allargando i confini della sua tenda con gli strumenti che da sempre ne hanno fatto la fortuna: la capacità di trasformare l’arte della fuga in retorica del coraggio, l’abilità di reinventarsi ogni giorno una spettacolare avventura mescolando nostalgia e metafore sempre nuove. (...) Come Giovanni Astengo, il protagonista del romanzo a cui ha affidato un altro pezzo dell’autobiografia che va narrando da 20 anni e al quale fa dire: «Proprio perché ho vissuto tante vite mi sta capitando questa magnifica magia… A me è stato concesso questo. O mi sono concesso questo. Ho potuto, posso, usare la marcia indietro».
Gli Inti Illimani e il golpe

La ”magnifica magia” del Veltroni sindaco è stata quella di ricorrere alla marcia indietro senza alcuna remora e, soprattutto, senza dare la minima impressione di indietreggiare. Nel 2001 si è così potuto presentare a poco più di un mese dalla conclusione dell’esperienza di governo, ma alla vigilia delle proteste per il G8 di Genova, come l’alfiere da sempre del movimento no-global. Perché «è assolutamente naturale che la rivolta ci sia, semmai c’è da chiedersi come mai non sia esplosa prima… Il combinato disposto di fame, siccità, malattie e guerra ci conduce a un passo dal genocidio. Tutto questo è avvenuto e avviene sotto gli occhi dell’Occidente. E l’Occidente volge o sguardo da un’altra parte. incredibile che prima della nascita di questo movimento nessuno si sia levato a dire basta». Ma è anche riuscito a rispondere allo smarrimento dei propri elettori mescolando magistralmente l’eterna nostalgia e l’eterna velleità della rifondazione della politica, in un gioco di prestigio nel quale i gloriosi Inti Illimani illuminano il percorso della sua nuova missione: «Quando sentimmo per le prime volte suonare gli Inti Illimani, sapevamo che il golpe li aveva sorpresi, impotenti e impauriti, qui in Italia e che appena scesi dal palco sarebbero corsi a telefonare agli amici e ai compagni italiani per avere notizie di quel che succedeva laggiù … Mi tornano alla mente la passione e la rabbia, ma anche dei sorrisi, una certa serenità. Come si spiega? Io credo che in quei giorni, come in altri momenti di quelli in cui la Storia ci prende a schiaffi e si mette a fare salti, ci sia stato allora uno scatto di coscienza che ci ha reso più maturi, meno fragili … Io credo che quella certezza sia andata, negli anni passati, perdendosi. Anche a sinistra, anche fra chi è cresciuto politicamente su quei ”miti”. Credo che questa sia una perdita grave; credo che come stiamo cercando di fare a Roma, si debba invece lavorare per ricostruirla. E credo che la sinistra debba ritrovare la parte di sé che ha lasciato cadere».

Almeno Veltroni, quella parte, l’ha ritrovata. Lontano dalle sabbie mobili in cui si è dibattuto il partito dei Ds in questi anni, oggi può coltivare in tutta serenità il proprio personaggio, accreditandosi come campione del coraggio liberista quando impone mezzo migliaio di nuove licenze ai riottosi tassisti romani, anche se il costo dell’accordo sarà scaricato sull’utenza con la crescita dei prezzi in un regime di tariffe amministrate, oppure dedicandosi all’apoteosi della propria egemonia culturale con la Festa del Cinema di Roma. E, soprattutto continuando placidamente ad alimentare la leggenda di un passaggio soave e provvisorio sui territori della politica, con la leggerezza di sempre ma con un metodo che ha ormai raggiunto le vette dell’eccellenza: «Sono affascinato da un’idea: una bellissima uscita di scena. La considero una delle cose più importanti della vita. Soltanto un’uscita di scena forte e dignitosa ti può garantire il ricordo che mi auguro. Spero che un giorno si possa parlare di Veltroni come di un uomo che ha fatto una vita pubblica appassionata e disinteressata (...) Fin dall’inizio la mia ossessione è stata stabilire il momento dell’uscita di scena, come ha fatto Marcello Lippi... Credo che la grandezza di una persona si misuri veramente soltanto nel momento in cui si ritira. E deve farlo prima, molto prima, che il sipario gli venga calato in faccia (...) Per fare che cosa? Sicuramente quello che più mi piace. E oggi per esempio mi piace immensamente passare un pomeriggio con i bambini ricoverati in ospedale. Non so come sarà la mia vita. Ma penso che non sentirò nessun dolore. Nessuna nostalgia del potere. Sono fatto così».

* dal libro ”Compagni di scuola” (Mondadori)