Antonio Rossitto, Panorama, 19 febbraio 2009, 19 febbraio 2009
ANTONIO ROSSITTO PER PANORAMA 19 FEBBRAIO 2009
Sollecito Una famiglia di detective. Giallo di Perugia Il padre Franco coordina e fa sopralluoghi. La zia Sara raccoglie tutte le informazioni sul pc. La cugina Annamaria analizza le impronte. E poi lo zio Giuseppe, la sorella Vanessa... Ecco come i parenti di Raffaele, accusato dell’omicidio Kercher, da più di un anno svolgono indagini parallele. Al punto di finire inquisiti. Anche se le loro scoperte potrebbero essere utilizzate dalla difesa.
Come ogni sabato sera, anche la scorsa settimana Franco Sollecito si è seduto al tavolo della sua cucina con la seconda moglie Mara, il fratello Giuseppe e la cognata Sara Achille. Si dovevano discutere le prime due udienze del processo per la morte di Meredith Kercher, che vede imputato il figlio Raffaele e la sua ex fidanzata, Amanda Knox. I temi del giorno erano: due testimoni che sconfessano l’agente della Polizia postale, l’inquilina della casa del delitto che conferma una telefonata di Amanda. I Sollecito, però, non si sono limitati all’esegesi del dibattimento. Hanno discusso di perizie, tabulati ed esami del dna: come se si trovassero in un ufficio legale e non nella cucina di un appartamento alle porte di Bisceglie, nel Barese.
Riunioni così si ripetono da quando, il 6 novembre 2007, Raffaele Sollecito è entrato in carcere. Da quel momento i suoi familiari hanno cominciato un’indagine parallela a quella della procura. Obiettivo: far emergere le presunte incongruenze dell’inchiesta ufficiale. Hanno letto ogni carta ed esaminato ore di sopralluoghi. Hanno cercato di mettere assieme indizi a discolpa: intuizioni, investigazioni artigianali e dossier. Materiale usato poi dai loro avvocati e dai consulenti, di cui si discuterà anche nel processo. Un’indole da detective che ha permesso loro di chiarire alcuni punti. Ma che li ha fatti pure scivolare, quasi come nemesi, in un’altra inchiesta parallela: quella della procura di Perugia che ha indagato la famiglia, definendola «un clan». Avrebbe tentato di ostacolare magistrati e poliziotti, cercando anche di coinvolgere politici. «Un clan»: proprio come vengono definiti i Franzoni, circondati da spasmodico interesse mediatico e avvocati di grido.
Sara Achille, la zia di Raffaele Sollecito, è una volitiva donna di 51 anni con i capelli neri e l’aria informale: «Siamo consapevoli che il muro contro muro con i magistrati ha leso mio nipote» dice seduta nel soggiorno della sua casa di Giovinazzo, a pochi chilometri da Bari, il paese in cui viveva anche lui. «Avremmo dovuto cercare il dialogo, invece che la guerra. Ma ogni giorno uscivano notizie false. Bisognava difendere l’immagine di un bra vo ragazzo, dipinto come un mostro».
I Sollecito continuano a ripetere che Raffaele è finito in carcere per un errore: un’impronta di scarpa insanguinata trovata nella stanza di Meredith e inizialmente attribuita al giovane. Circostanza su cui batte il padre Franco, 61 anni, urologo a Bari. Dopo il lavoro ha raggiunto la cognata a Giovinazzo. «Guardando la perizia abbiamo visto che qualcosa non andava» ricorda. «La scarpa non sembrava compatibile».
Bisognava però risalire al modello. Dalla cucina sbuca sorridente la cugina Annamaria, 21 anni, studentessa di architettura. Con un compasso è riuscita a ricostruire: «La suola aveva 11 cerchi, quella di Raffaele solo sette» afferma. «Allora ho ripreso il disegno della pianta, l’ho ricostruito su un lucido e abbiamo cominciato a verificare nei negozi».
Sara Achille tira fuori uno scatolone: dentro ci sono tutte le prove grafiche servite per ottenere l’impronta. Nelle indagini si è cimentata tutta la famiglia. Il padre ha girato i negozi di Perugia; la cugina ha fatto lo stesso a Bari. Ma è stato lo zio Giuseppe, 51 anni, manager di un’impresa di fitofarmaci, a scovare la Nike giusta in un centro commerciale. «Quando l’abbiamo scoperta, pensavamo che tutto fosse finito» racconta Sara Achille. «Le ragazze piangevano. Mio marito diceva con lo sguardo al cielo: Dio esiste». «Dopo un nostro consulente» continua Franco Sollecito, mentre i suoi occhi cerulei sfavillano «trovò una scatola di scarpe a casa di Rudy. Il modello coincideva: era stato lui a lasciare quell’impronta, non mio figlio». Conclusioni finite anche in una perizia di parte firmata dal medico legale Francesco Vinci.
Alle inchieste artigianali sono stati affiancati dettagliati dossier al computer. Negli ultimi mesi la zia di Raffaele Sollecito ne ha preparati quattro, per ricostruire l’omicidio ed evidenziare presunte contaminazioni dei reperti. Prende il suo portatile e comincia a mostrare alcune schermate: le foto del luogo del delitto sono corredate da considerazioni e stralci di atti giudiziari. «Ci ho lavorato giorno e notte» dice. «Mio cognato stendeva il canovaccio, io cercavo immagini e documenti che avvalorassero le nostre intuizioni». Ricorda quando gli avvocati, dopo aver esaminato il risultato delle indagini casalinghe, le annunciarono che sarebbero stati presentati in dibattimento: «Una soddisfazione. Mi hanno detto che era inutile rivolgersi a dei consulenti. Del resto è vero: nessun esterno potrà mai conoscere così bene l’inchiesta».
«Il computer» prosegue «prima quasi non lo usavo. Adesso sono diventata un’esperta». Tutto il materiale è archiviato nei due pc di casa: in decine di cartelle e sottocartelle. «Ma non riesco a trovare sempre tutto, spesso mio cognato mi chiama: ”Sara, dobbiamo riguardare l’immagine in cui...”. E posso impiegare ore per trovare un fotogramma».
Il primo lavoro risale al marzo 2008. La famiglia richiede i video dei sopralluoghi della scientifica. Li guarda e li riguarda per giorni. Si convince che molti reperti sarebbero contaminati. Conclusioni sintetizzate in un dossier, dato a una tv locale, Telenorba, che manda in onda anche il filmato della polizia, comprese le immagini del corpo di Meredith. Succede un putiferio: il «clan» viene indagato per violazione della privacy, diffamazione e pubblicazione arbitraria di atti giudiziari. «Aver dato quelle riprese è l’unica cosa di cui mi pento» ammette il padre di Raffaele, seduto nella cucina di casa. Ha gli occhiali calati sul naso, inforcati per leggere la sentenza con cui Rudy Guede è stato condannato a 30 anni. «Le abbiamo utilizzate male, è diventato un boomerang».
Altre polemiche seguono. Il giorno della chiusura dell’inchiesta, lo scorso giugno, vengono pubblicate le intercettazioni tra i Sollecito. Secondo i magistrati, che riportano colloqui piuttosto coloriti, pensavano di poter far trasferire poliziotti scomodi, organizzare campagne mediatiche e chiedere l’intervento di politici.
Dai brogliacci risultano chiamate a parlamentari e senatori. Ora la famiglia dà la sua versione. In una telefonata tra il padre e Vanessa, sorella di Raffaele, tenente dei carabinieri, si parla del possibile intervento di Nello Formisano, dell’Italia dei valori: «Mia figlia mi disse che il senatore le aveva domandato un favore per un conoscente» spiega lui. «Lei voleva chiedere in cambio di rimanere a Roma. Il fratello non c’entra».
Il medico si accende un sigaro. Si affaccia al balcone: dà due profonde boccate. «Lei a questa storia è estranea: è stata coinvolta solo per la scelta dei consulenti. Il risultato, però, è che adesso stanno cercando di farla fuori».
Mentre parla suona il citofono: il fratello e la cognata sono venuti a discutere «cose urgenti». Prima però si continua a parlare di intercettazioni. Tra le chiamate ne erano spuntate anche alcune con il vicepresidente del Senato, Domenico Nania, interpellato dalla cognata di Sollecito, Sara Achille, dirigente provinciale di An. Amica personale di Giuseppe Tatarella, è stata candidata a sindaco di Giovinazzo nel 2001 e prima alle elezioni regionali.
«Ho fatto parte per sette anni dell’assemblea nazionale del partito: i leader nazionali li conosco tutti» dice lei. «A Natale del 2007 mi telefonò Nania, un caro amico. Con lui mi sfogai, parlandogli di mio nipote. Mi consigliò di rivolgermi all’avvocato Giulia Bongiorno». Che in effetti, dopo qualche mese, diventò il legale della famiglia. «Lo chiamai altre due volte per ringraziarlo e fargli le congratulazioni dopo le elezioni. Occasioni in cui continuai a esprimergli la mia rabbia. Nient’altro».
Sara Achille afferma che nello stesso periodo cercò di contattare pure l’allora ministro della Giustizia, Clemente Mastella: «Volevo che esaminasse il dossier che avevamo preparato. Gli mandai un messaggio. Lui mi telefonò chiedendomi chi fossi. Gli risposi: sono la zia di Sollecito. Mio nipote è vittima di un errore e penso che a Perugia non possano garantirci un prosieguo sereno. Potrei mandarle dei documenti: poi, se lo riterrà opportuno, saremo felici di vederla. Il giorno dopo mi chiamò dicendo che era interessato. Rimanemmo intesi che ci saremmo risentiti per la consegna delle carte. Tre giorni dopo fu arrestata la moglie e lui si dimise».
Il padre di Raffaele nega che si trattasse di perorazioni: «La cosa mi offende» dice con le guance che avvampano. «Ritengo di essere una persona di media intelligenza. I magistrati di tutta Italia, per motivi svariati, ogni giorno rinviano a giudizio politici, compresi quelli che hanno fatto la storia della democrazia, come Giulio Andreotti. E io andavo a chiedere intercessioni?».
Ogni settimana Franco Sollecito fa la spola in Umbria: a Terni, dove è rinchiuso il figlio, e a Perugia, per il processo. «Lui è preoccupato» riferisce. Il fratello e la cognata si rabbuiano. «Gli diciamo di stare tranquillo, ma lui in carcere è un pesce fuor d’acqua. Non vuole avere rapporti con nesssuno. ”Non condivido niente con queste persone” mi dice. ”Non voglio sentire le loro lamentele”. Si rifiuta perfino di sapere perché sono stati condannati».
Di Amanda parla poco: «La ritiene immatura» continua Franco Sollecito. Sgombera il tavolo dalle carte processuali e si alza verso il balcone, per dare qualche altra boccata al suo mezzo sigaro. «E comunque più pensa a quella sera, più si convince che sia rimasta con lui tutto il tempo».
Nella prima udienza Raffaele Sollecito, fino a quel momento sempre spaurito e sommesso, ha chiesto di fare dichiarazioni spontanee: «Sono vittima di un errore giudiziario» ha detto risoluto. I suoi avvocati hanno chiarito che d’ora in poi interverrà su tutto. Qualis pater, talis filius.