Andrea Milani, L’Espresso 19/2/2009, 19 febbraio 2009
BENEDETTO SBOOM
Crollo nell’influsso dei pellegrini in Vaticano, polemiche a non finire con il mondo laico e i credenti delle altre religioni, lacerazioni sempre più vistose nel mondo cattolico. A neppure quattro anni dalla sua elezione, Joseph Ratzinger appare avviato sul cammino dell’impopolarità. Sarà la società digìtale, sarà la sua istintiva freddezza, fatto sta che Benedetto XVI sta conquistando un vero palmares nel crollo dei consensi: «Avrebbe potuto essere l’Obama della cattolicità, invece si sta dimostrando il suo Bush» ha sintetizzato ruvidamente la "Suddeutsche Zeltung". E il quotidiano svizzero "Le Temps" ha rincarato la dose, definendolo «un papa tagliato fuori dalla reàltà».
L’ultima vicenda che ha scatenato uno tsunami di critiche è quella della "remissione" della scomunica ai quattro vescovi lefebvriani della Fraternità San Pio X, il manipolo di tradizionalisti che avevano creato una comunità scismatica nel 1988. Pochi giorni prima che la "grazia" pontificia fosse comunicata ufficialmente, uno dei quattro, monsignor Richard Williamson, aveva rilasciato un’intervista alla televisione in cui faceva varie affermazioni antisemite e negazioniste: «Le camere a gas non sono mai esistite», ha detto il prelato. Aggiungendo che per mano dei nazisti non sarebbero morti 6 milioni di ebrei, ma «al massimo 300 mila». Nonostante lo scandalo mondiale provocato da queste parole, il papa non ha fatto marcia indietro e ha riammesso nella Chiesa il gruppetto lefebvriano. Apriti cielo: imbarazzo glaciale degli episcopati più impegnati nel dialogo con il mondo ebraico, sollevazione di una sessantina di teologi cattolici tedeschi, propositi di rottura delle relazioni diplomatiche di Israele con la Santa Sede, viaggio del papa a Gerusalemme (previsto per maggio) a rischio. Persino la cancelliera Angela Merkel ha chiesto di «chiarire in modo netto» che «da parte della Chiesa non può esserci negazione dell’Olocausto».
Dopo ripetute correzioni di rotta e qualche tardiva messa a punto, il "caso Williamson" è finito in archivio come cronaca del giorno prima. Ma le gaffe di Benedetto XVI sono passate alla storia come la telenovela di maggior insuccesso in questo piccolo scorcio di nuovo millennio. Il " Ratzinger format" segue quasi sempre un copione prevedibile: la boutade azzardata del santo padre, le critiche degli esperti, l’indignazione dell’opinione pubblica, lo spiazzamento della grande massa dei cattolici, la marcia indietro vaticana, l’apparente ricerca di un capro espiatorio e, come risultato finale, l’inipennata nel disagio e nella disaffezione dei fedeli.
Con il passare del tempo, l’elenco delle puntate della telenovela si è allungato. Farne una cronistoria non è semplice. In realtà aveva cominciato in sordina, Joseph Ratzinger. Il primo anno da pontefice, il 2005, lo aveva passato a carburare. Ma quando ha preso confidenza con il nuovo abito, ecco che il meccanismo si è innescato. Il primo segnale di un papa "ad alto rischio gaffe" lo si era visto a fine maggio 2006, quando il pontefice tedesco visita il lager di Auschwitz, luogo simbolo della Shoah. In quel discorso, pure molto celebrato, molti passaggi avevano fatto discutere: nessun mea culpa, non una parola sulle responsabilità dei cristianesimo nel favorire l’emergere dell’antisemitisnio, silenzio totale sulle responsabilità di Pio XII.
Se la tappa di Auschwitz era stata una preview per intenditori, è con il discorso di Ratisbona che Ratzinger si svela al grande pubblico. Il 12 settembre 2006, durante l’incontro all’università tedesca, il papa cita una controversia medievale tra un imperatore bizantino e un dotto musulmano: «Mostrami ciò che Maometto ha portato di nuovo e vi troverai soltanto delle cose cattive e disumane», dice la frase incriminata. E il succo del discorso pontificio è che Islam e democrazia sono incompatibili. La reazione alle parole del papa da parte dei mondo musulmano sono durissime. Gli episcopati dei paesi arabi, rappresentanti di comunità cristiane fortemente minoritarie, ne pagano le conseguenze. Il capitale di fiducia e ammirazione che Wojtyla aveva accumulato in 27 anni di pontificato viene bruciato. Paradossalmente, per rimediare, papa Ratzinger si butta più avanti di quanto avrebbe voluto: nel novembre successivo, durante un tesissimo viaggio a Istanbul, lui che da cardinale era stato un feroce critico dell’incontro interreligioso di Assisi voluto da Giovanni Paolo II, si trova a pregare fianco a fianco con un imam all’interno della Moschea Blu. Con un’acrobizia linguistica, la stampa vaticana parla di «istanti di raccoglimento» e non di preghiera. Ma la frittata è fatta: il nemico numero uno dei sincretismo si è ritrovato a fare uno spot per il "supermarket delle religioni". Con il viaggio in Turchia, Benedetto XVI
allarma i conservatori, devoti dello "scontro di civiltà", senza convincere i musulmani. E i fedeli comuni perdono il senso dell’orientamento. Tra il 2006 e il 2008, dicono le statistiche vaticane, il numero di pellegrini arrivati a Roma per vedere il papa durante le udienze e gli Angelus e diminuito di un milione di persone: un flop pesante. Certo, Ratzinger non è Wojtyla, quanto a presenza scenica: tanto era naturale il papa polacco, quanto è rigido e impettito quello tedesco. Per non parlare dello stile dell’abbigliamento: dal pastore sportivo e casual, si è passati al pontefice paludato in vecchie mise tridentine, con copricapo desueti, pianete dimenticate e vinitose scarpette rosse.
Nei circoli curiali più conservatori, la "tendenza Ratzinger è diventata persino di moda. E c’è chi, come il cardinale spagnolo Antonio Canizares Llovera, nuovo prefetto della Congregazione per il culto, o l’arcivescovo americano Raymond Burke, che guidi la Segnatura apostolica, non ha esitato a fare sfoggio di mantelli con lungo strascico rinascimentale. Ma il parrocchiano medio noti sembra aver apprezzato. E ben più cogenti sono i problemi della vita concreta: il lavoro che non c’è, l’aumento della povertà, le relazioni affettive complicate, magari le separazioni o i divorzi, le ansie per i figli.
Anche su questo fronte "pastorale", Benedetto XVI riscuote scarso successo: troppo distante, professorale, preoccupato per la purezza della dottrina ma disattento alla fede vissuta nella fatica di tutti i giorni. E quando interviene, lo fa con la bacchetta del maestro che commina astratte condanne, senza troppo preoccuparsi delle conseguenze concrete. E’ il caso dei dibattito sul testamento biologico e la fine della vita. Oppure del clamoroso e recente "no" vaticano alla proposta Onu di "depenalizzazione" universale dell’omosessualità. «Non riesco a capire, sinceramente, se coloro che portano nella Chiesa le maggiori responsabilità abbiano una perceziotie realistica della delusione, e dei severi giudizi che sono orinai molto difflisi tra i credetiti, soprattutto fra quelli che un tenipo si sarebbero chiamati "impegnati"», ha scritto sconsolato l’ex vicedirettore di "Famiglia Cristiana", Angelo Bertani, stilla mire rivisti dei degoniani "Evangelizzare".
C’è poi l’ultimo capitolo dei fomat: dalla liberalizzazione della messa preconciliare in latino, nel luglio del 2007, fino al "caso Williamson", è un’unica lunga puntata, la cui posta in gioco è il peso dei tradizionalisti nella Chiesa, il valore dei Concilio Vaticano II, il significato dei dialogo con i credenti delle altre religioni, a cominciare dai "fratelli maggiori". Della sconsiderata gestione del dossier lefebvriano chi porta la responsibilità? Il papa? I suoi consiglieri? I meccanismi curiati? Secondo John Allen, uno dei difensori più brillanti dei pontificato ratzingeriano, il colpevole va cercato tra coloro che in Vaticano gestiscono i rapporti con media. Per il settimanale cattolico francese "La Vie", invece, il problema è che il papa non è in grado di governare la Curia. «Personalmente, prima di questo episodio, avevo sempre pensato che si trattasse di incidenti di percorso», spiega il professor Pier Cesare Bori, docente di Filosofia morale a Bologna: «Ora mi sembra ci sia sotto qualcosa di più grave. Le disattenzioni, se di questo si tratta, manifestano comunque il punto di vista dei papa». Dal canto suo, lo storico della Chiesa Sergio Tanzarella, che insegna alla Gregoriana e alla Facoltà teologica di Napoli, annota: «Personalmente, mi stupisco che ci si stupisca delle posizioni di Williamson: il negazionismo, purtroppo, è più diffuso di quanto si crede. E non soltanto negli ambienti lefebriani. D’altronde, non li si può certo accusare di mancanza di coerenza: durante il Vaticano II, Lefebvre fu uno dei più strenui oppositori della "Nostri Aetate", il documento conciliare che eliminò "l’insegnaniento del disprezzo" di cui era oggetto il popolo ebraico. E con il passare degli anni, la giudeo fobia dei lefebvriani non è certo cambiata».
Il giudizio più brutale lo dà il prete genovese don Paolo Farinella: «Un’abolizione della scomunica ai quattro vescovi scismatici è una violenza compiuta dal papa contro la Chiesa, perché di sua iniziativa sancisce che il Vaticano II non è mai esistito». Per Hans Küng, invece, «è tempo che Benedetto XVI si faccia da parte». Quali che siano le responsabilità della situazione, dei papa o della sua curia, le difficoltà del pontificato non potrebbero apparire più evidenti. Silenzioso e afflitto, il mondo cattolico che aveva sperato nel Concilio attende la prossima puntata.