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 2009  febbraio 15 Domenica calendario

SIRENE BLU GEOPOLITICA DELLA POLIZIA


«Le polizie della società postindustriale, tendono ad essere sempre meno istituzioni che, secondo una visione funzionalista, servono innanzitutto al dominio del potere politico sulla società. Al contrario, esse tendono sempre più a caratterizzarsi come potere socialmente costruito con la partecipazione della maggioranza dei cittadini». Così nel 2001 Salvatore Palidda descriveva nel suo Polizia postmoderna , pubblicato nella collana Interzone di Feltrinelli il "fatto sicuritario" globale che si andava imponendo anche nella società italiana incrociando "sicurezza" e vita sociale, tra forme della repressione, processi sociali e mutamenti economico-produttivi. Il libro di Palidda anticipava di pochi mesi i fatti del G8 di Genova, l’uccisione di Carlo Giuliani e la gestione Fini-Berlusconi dell’ordine pubblico.
Docente di sociologia all’Università di Genova, nell’équipe della rivista Conflitti globali e autore di Mobilità umane. Introduzione alla sociologia delle migrazioni pubblicato recentemente dall’editore Raffaello Cortina, Salvatore Palidda indicava già nel 2001 lo sviluppo di un fenomeno nuovo, caratterizzato non tanto e non solo da un’accelerazione e da un imbarbarimento delle tecniche repressive, quanto dal loro posizionarsi all’interno di un nuovo "senso comune", socialmente sostenuto e condiviso. Una sorta di ridefinizione della cittadinanza e della partecipazione democratica attraverso le forme di un controllo sociale diffuso. In questo contesto, spiegava già allora Palidda, «la polizia non è più soltanto lo strumento utile al primato di quella minoranza di persone che hanno sempre costituito la minoranza dominante o lo strumento di controllo dello stato su una società considerata come potenzialmente ostile o nemica, ma la forza che incarna e assicura il potere sociale dei cittadini nei confronti dei non cittadini, cioè della società nei confronti di chi ne è escluso». Nella progressiva "privatizzazione" dello spazio collettivo, l’ultima struttura percepita come "pubblica" sembra così diventare una sorta di "welfare del controllo e della repressione". Perciò di fronte alle molte pubblicazioni, fiction e cronache che raccontano in questo momento le forze dell’ordine siamo tornati a interrogare Salvatore Palidda.

Professor Palidda, lei è uno dei maggiori studiosi italiani della questione "sicurezza", perché nel nostro paese dopo il suo libro del 2001 non è uscito nessun altro studio sull’evoluzione che ha interessato le forze dell’ordine?
Già in quel mio libro di dieci anni fa ponevo questo problema: come oggetto di studio il tema di chi gestisce l’ordine pubblico, la polizia e le forze l’ordine in generale, non sembra interessare "l’accademia", gli studiosi di scienze umane e scienze sociali. Così come è stato del resto fino a pochi anni fa anche per un tema oggi divenuto centrale come è quello delle migrazioni. Con il risultato che ad occuparsi di questioni così importanti per un paese democratico finiscono per essere quasi soltanto ricercatori "embedded" o persone che pensano di guadagnare un po’ di soldi costruendo descrizioni agiografiche del comportamento delle forze dell’ordine e dei loro appartenenti. Dico questo perché da oltre una decina d’anni il Ministero dell’Interno lavora con accademici e ricercatori a cui chiede di celebrare le performance delle forze di polizia. Una cosa tipica di paesi che non hanno conosciuto alcuna tradizione liberaldemocratica che si preoccupa soprattutto di tutelare i diritti fondamentali degli individui. Inoltre si deve forse ammettere che nel nostro paese non c’è mai stato un Michel Foucault o, come in Inghilterra, Stati Uniti o Canada, una cultura che avesse davvero a cuore i diritti fondamentali dei cittadini.

La situazione italiana di oggi è perciò frutto dell’evoluzione storica conosciuta dal nostro paese nel corso del Novecento?
In realtà credo che per capire qualcosa di come funzionano oggi le forze dell’ordine si debba rimontare molto più indietro, anche prima del fascismo tanto per essere chiari. Mi spiego. L’habeas corpus fu inventato in Inghilterra nella seconda metà del Seicento con la Rivoluzione democratica proprio a tutela dei cittadini. Quando si parla di polizia e di forze dell’ordine il primo problema da porsi è infatti rappresentato dal modo in cui si esercita il controllo su questi apparati, perché l’uso legittimo della violenza da parte dei tutori dell’ordine deve rispettare e non violare in alcun modo i limiti dei diritti fondamentali della persona. Solo che in Italia non c’è traccia di questa influenza liberaldemocratica e nessuno sembra essersi posto domende decisive come: «Chi controlla la polizia?», «Chi controlla quei poteri che hanno una tale discrezionalità che di fatto può diventare facilmente libero arbitrio?».

Ma il comparto della sicurezza come ha attraversato la storia del paese?
Prima del Fascismo c’erano stati spesso governi autoritari, si pensi solo al Governo Giolitti che impose il coprifuoco per il terremoto a Messina, per non parlare della partecipazione alla Prima guerra mondiale. Il regime di Mussolini, ovviamente, rincorò la dose e nella fase delle persecuzioni degli ebrei italiani verso i campi nazisti fu la polizia a stilare liste di nomi e di indirizzi dove andare a prendere i candidati alla deportazione e al genocidio. Poi, e questa è storia nota, nel secondo dopoguerra, non c’è mai stato un vero risanamento democratico degli apparati dello Stato: la maggioranza dei questori e degli alti gradi dei carabinieri sono rimasti al loro posto. E i pochi prefetti nominati dopo la liberazione, su indicazione del Cln, furono rapidamente estromessi. Con Scelba, la polizia diventò infine il corpo che garantiva l’assolouto potere del Partito-Stato, la Democrazia cristiana, che ha imposto con la forza un determinato modello di sviluppo che è quello che ha definito fino ad anni recenti il profilo del nostro paese. Inutile dire che la gerarchia di queste forze dell’ordine, per quanto ho ricordato fin qui, ha sempre guardato con sospetto l’"accademia" che, dal canto suo, ha snobbato questi argomenti, considerati "minori" o "scomodi".

Veniamo, per così dire all’antropologia delle forze dell’ordine. Negli ultimi decenni abbiamo conosciuto almeno due stagioni di uomini in divisa: i "poliziotti figli di poveri che vengono da periferie, contadine o urbane" di cui parlava Pasolini sull’"Espresso" all’indomani degli scontri di Valle Giulia del 1968 e quelli attraversati dal dubbio e vagamente in odore di sinistra del dopo ’68, in parallelo con l’esperienza dei "Proletari in divisa" nelle forze armate. E oggi, nell’era delle fiction televisive dedicate a poliziotti e carabinieri, chi sono questi agenti?
Partiamo dalle fiction che mi sembra coprano ormai tutti i settori delle forze dell’ordine, Guardia costiera compresa. MI sembra si tratti perloppiù di prodotti assurdi dal punto di vista del rapporto con la realtà, talmente edulcorati e grotteschi che perfino gli operatori delle forze dell’ordine non vi si riconoscono. A fronte dell’enorme produzione internazionale, penso in particolare sia al caso francese che a quello americano, che mostra anche il lato in ombra della polizia e degli altri tutori del’ordine, da noi ci sono solo queste descrizioni agiografiche e perciò anche un tantino inutili. Da noi è sempre lo stesso registro: siamo di fronte a una sacralizzazione costante dello Stato e dei suoi apparati, con il risultato che della realtà continuiamo a non sapere nulla. Quanto alla domanda su chi sono oggi gli agenti di polizia, credo che la prima risposta sia che assomigliano al resto della società italiana di questi anni. Nelle forze di polizia ci sono persone uguali a quelle che troviamo in tutti gli altri segmenti dell’Italia di oggi: c’è una corrispondenza pressoché totale. Non si sono "corpi separati" come è stato in altre epoche della storia nazionale. Si respira e si vive la medesima cultura di "fuori". I giovani che lavorano nei corpi di polizia hanno le stesse abitudini dei loro coetanei che non fanno i poliziotti, sono in tutto e per tutto uguali. Il livello di scolarizzazione si è notevolmente alzato rispetto al passato, a quello degli anni Cinquanta o Sessanta, ma è un livello che resta comunque mediocre. Le scuole di polizia sono di un livello bassissimo per un’istituzione dello Stato, al loro interno si dà un’infarinatura molto generale di tipo giuridico perché un operatore della polizia deve conoscere il Codice per poter operare correttamente un arresto o per fare una denuncia. E qui emerge un’altra stortura della situazione italiana, visto che almeno la formazione dei quadri intermedi e dei dirigenti delle forze di polizia dovrebbe essere obbligatoriamente fatta nelle scuole o nelle università pubbliche.

Siamo all’attualità, quali i cambiamenti osservabili nelle forze dell’ordine negli ultimi decenni?
Dal 1981, con una legge di riforma la Polizia di Stato non è più un corpo militare, bensì un «corpo civile militarmente organizzato» e il divieto, per i suoi membri, di far parte e di iscriversi a organizzazioni politiche o sindacali è stato in parte ridotto dalla possibilità di costituire sindacati interni. Anche se applicata solo in parte e spesso contraddetta da spinte che andavano nella direzione opposta, la riforma recepì in ogni caso il clima che si era respirato anche tra le forze dell’ordine già durante gli anni Settanta e l’annuncio di processo democratico che attraversò questo settore dello Stato. Tutto questo è stato invece contraddetto a partire dagli anni Novanta da una decisa svolta che va nella direzione opposta, la stessa svolta che caratterizza l’intera società italiana. Sono cresciuti all’interno dell’istituzione gli elementi di destra e, a giudicare dalla cronaca di ogni giorno, gli atteggiamenti xenofobi e violenti, sia individuali che di gruppo, basti pensare al G8 del 2001. Questo mentre da parte dei governo di destra è cresciuta la pressione culturale e politica sui temi della sicurezza - all’insegna di politiche razziste e discriminatorie verso una parte della popolazione - nell’ambito di quella "rivoluzione conservatrice" che nel nostro paese si è fatta sentire in modo particolare. E che non è ancora finita. Se a questo si aggiunge che nell’ultimo quindicennio è diventata prassi reclutare gli agenti tra coloro che sono stati volontari nelle forze armate in missioni all’estero, diventa evidente il processo di militarizzazione, se non di vera "conversione militare" delle forze dell’ordine. Del resto i carabinieri del Tuscania che prestavano servizio a Piazza Alimonda a Genova durante il G8 del luglio del 2001 non avevano fatto esperienza in Somalia?