Internazionale (Alicia Gonzales, El Pais), 18 febbraio 2009
SEPOLTI SOTTO UNA VALANGA DI DEBITI
Governi di tutto il mondo stanno cercando di uscire il prima possibile dalla recessione. Non importa quanti soldi servono per stimolare l’economia, per entrare nelle banche e per aiutare l’industria. Bisogna fare tutto il necessario per superare la crisi. Questa è l’unica priorità. Poi si vedrà.
Ma anche se il momento di pagare sembra lontano, i precedenti delle altre crisi finanziarie non lasciano molto margine all’ottimismo. Gli economisti Kenneth Rogoff, dell’università di Harvard, e Carmen Reinhart, dell’università del Maryland, hanno spiegato che il debito pubblico (il complesso dei debiti contratti dallo stato) dei paesi vittime di una crisi finanziaria nell’ultimo secolo è aumentato in media dell’86 per cento nei tre anni successivi al crollo.
L’ufficio di bilancio del congresso degli Stati Uniti stima che a settembre il debito pubblico, a esclusione dei titoli emessi dalla previdenza sociale e di quelli in mano alla Federal reserve, era di 5,8 miliardi di dollari, una cifra pari al 41 per cento del pil. Quest’anno e il prossimo, con i piani di salvataggio del governo uscente e senza considerare il piano da 800 miliardi di Barack Obama, il disavanzo del bilancio federale supererà il miliardo di dollari. E alla fine del 2010 il debito pubblico raggiungerà il 60 per cento del pil, il livello più alto da quando gli Stati Uniti hanno dovuto affrontare il pagamento dei debiti della seconda guerra mondiale e della guerra in Corea.
La maggior parte dei paesi della zona euro ha già ammesso che non riuscirà a rispettare il patto di stabilità e che il disavanzo del bilancio pubblico sforerà la soglia del 3 per cento del pil fissata da Maastricht. Morgan Stanley stima che nel 2009 questi disavanzi si tradurranno nella contrazione di nuovi debiti da par te degli stati membri per circa 760 miliardi di euro, il 20 per cento in più rispetto al 2008. Il debito pubblico aumenterà di più in Spagna, nei Paesi Bassi e in Irlanda. Secondo l’uffìcio per la gestione del debito in Gran Bretagna, inoltre, nei prossimi tre anni Londra emetterà titoli di stato per circa 166 miliardi di euro all’anno, il lo per cento del pil nazionale.
Tsunami in arrivo
Sono livelli senza precedenti. "In questo momento", spiega l’economista Nouriel Roubini, "i tassi d’interesse dei titoli di stato a lungo termine sono bassi, ma con lo tsunami di debito pubblico in arrivo sui mercati le cose cambieranno. Paesi che generalmente erano compratori di titoli di stato, come la Cina, la Russia e i paesi del Golfo, non disporranno delle stesse risorse e potranno perfino registrare dei disavanzi nei loro bilanci, che ridurrebbero la possibilità di comprare titoli".
Con i tassi d’interesse vicini a zero in buona parte del mondo sviluppato, i titoli di stato perderanno il loro fascino non appena migliorerà la situazione economica e agli investitori tornerà la voglia di rischiare. Ma alcuni analisti temono che in questo scenario possa scoppiare la bolla del mercato dei titoli del debito pubblico. Per la prima volta dall’introduzione della moneta unica, gli investitori stanno facendo delle differenze tra i paesi dell’euro. Il gap tra il rendimento dei titoli di stato tedeschi a dieci anni e quello dei titoli di paesi come la Spagna, l’Irlanda, la Grecia e il Portogallo è arrivato ai livelli più alti dal 1997.
Inoltre l’efficacia della politica dell’indebitamento è discutibile. Basta guardare il Giappone. Durante la crisi degli anni novanta, Tokyo ha iniettato grandi quantità di denaro pubblico nel sistema per aiutare le banche ed evitare la deflazione. Dieci anni dopo non si può dire che questa politica abbia avuto successo: il Giappone continua a combattere contro la caduta dei prezzi. E il conto è salato: il debito pubblico giapponese è passato dal 65 per cento del pil nel 1990 al 175 per cento di oggi.
Infine, in un ambiente caratterizzato dall’alto indebitamento dei governi le aziende pagheranno molto di più per ottenere finanziamenti. "Quante più risorse consuma lo stato", spiega Alex Patellis, di Merrill Lynch, "più possibilità ci sono che il settore privato resti fuori dall’accesso al capitale".