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 2009  febbraio 17 Martedì calendario

IL FESTIVAL E’ MORTO DA TEMPO ORA CANTA SILVIO BERLUSCONI

Forse quel giorno del 1945 il Cln (Comitato di liberazione nazionale) perse un’occasione. L’Italia offriva un panorama di rovine fumanti. Fisicamente e moralmente devastata dalla guerra.
«…. e un floricoltore si presentò con un progetto bizzarro. Un festival del cinema. E uno della canzone. Amilcare Rambaldi, che in seguito darà vita alla rassegna del Club Tenco, riteneva che potessero risollevare l’economia di Sanremo, prostrata».
Niente da fare. Il festival del cinema avrebbe trovato ospitalità dall’anno seguente a due passi da lì, ma in Francia, a Cannes. La canzone dovette segnare il passo. I gestori del casinò si impuntarono; ne intuivano il forte impulso promozionale. Si arrivò al 1951, sotto l’egida della Rai, allora solo radio.
«Tutto incentrato sulle canzoni. Venti, scelte su un lotto di duecento. Tre cantanti. Nilla Pizzi, il duo Fasano, Achille Togliani. Della scuderia di Cinico Angelini, che dirigeva l’orchestra. Spettacolo molto sobrio. Dal lunedì al mercoledì. Un’oretta verso le dieci di sera. Nel salone delle feste del casinò. Tra i tavoli e la gente che cenava».
Una stanza luminosa nel complesso straordinario dell’auditorium di Roma disegnato da Renzo Piano, quartiere Flaminio. Sulle pareti spiccano Pier Paolo Pasolini, il manifesto de L’uomo che sapeva troppo ; un Hitchcock interpretato da un grande James Stewart. Gianni Borgna parla con pacato fervore. Romano del 1947, laureato in filosofia, sulla canzone italiana ha scritto più di un libro. Dalla Storia a L’Italia a Sanremo .
Interesse coltivato di pari passo con l’impegno politico. Entrato giovanissimo nel Pci, Borgna è stato per anni assessore alla Cultura del Comune di Roma. Alla politica ha voltato le spalle. Ha scelto la musica. Da oltre due anni è presidente di Musica per Roma. Un palmarès in cui si incastona una cattedra: Sociologia della musica a Roma Tor Vergata.

Origini dimesse. Presente sfarzoso. Musica mediocre. Giro d’affari spropositato. Quest’anno tocca a Paolo Bonolis inventarsi qualcosa di nuovo.
Il festival è morto. Da tempo. Ogni anno si celebra non so bene cosa. Uno spettacolone televisivo, come tanti, che si giova di quell’etichetta, e capta così un’audience alta, ma non ha nulla a che vedere con il festival. Il fatto stesso che si dica il festival di Baudo, di Chiambretti, di Bonolis, che magari riuscirà anche a mettere su uno spettacolo divertente, simpatico, lo dimostra. Non si è mai detto il festival di Filogamo. O di Mike Bongiorno, che pure è un mattatore.

Filogamo? La preistoria…
Nunzio Filogamo è stato uno straordinario presentatore. Di grande finezza. Nell’edizione del ’52, l’ho sentita registrata naturalmente, per ogni canzone che presentava recitava dei versi di poesia, a memoria.

Ma quale dovrebbe essere la formula doc del festival?
Trovare canzoni e artisti nuovi. Quella dei primi venti anni. Ma quella formula si esaurisce alla fine degli anni Sessanta. L’ultimo che in ordine di tempo ha tentato di fare qualcosa di vicino alle origini, ma l’esperimento in sostanza fallì, è stato Toni Renis (Sanremo 2004, ndr ). Subissato di critiche, purtroppo soprattutto da sinistra. Ma lui almeno tentò di sottrarsi a questa formula tutta televisiva, con un festival di ricerca di nuovi talenti. Senza riuscirci, anche perché forse questi talenti non c’erano.

Quindi viva Filogamo, i papaveri e papere…
Intendiamoci. Il Festival nasce all’insegna della restaurazione. Una restaurazione melodica. Sanremo è la quintessenza del melodismo, della retorica. Canzoni costruite, anche sapientemente, sulla triade dio-patria-famiglia, in alcune presente al completo. Per esempio in Vola colomba di Cherubini e Concina, vittoriosa nel ’52 con Nilla Pizzi. Prende spunto dalla vicenda di Trieste, allora divisa. Con grande maestria, alla patria viene abbinata la religione: la canzone inizia con un’invocazione a dio, poi c’è la preghiera, quindi la famiglia, umile ma felice. Trionfano populismo, patetismo. C’è persino un accenno mascherato all’inno nazionale.

Ma restaurazione? Il fascismo non le aveva irreggimentate abbastanza le canzoni?
Può apparire strano, ma col fascismo si realizza un ossimoro. La canzone, come le altre espressionni artistiche, presenta una realtà variegata, non assimilabile al regime. C’è la condanna ufficiale di quella musica "negroide", che per di più viene dall’America. Toni duri. Giudizi coloriti. Sul Popolo d’Italia l’anatema era ricorrente. Un giornalista, Alberto Consiglio, riassunse tutti i concetti e coniò musica afro-demo-pluto-giudo-masso-epilettoide.

Mancava solo omosessuale, altro termine che destava raccapriccio.
Eppure il jazz ha una formidabile fioritura. Nello stile dei cantanti: il trio Lescano, bravissime e scatenate, Alberto Rabagliati, Ernesto Bonino, e negli stessi testi. La famosa Mille lire al mese esalta sì lo spirito piccolo borghese con quell’orgia di diminutivi, mogliettina, casettina, ma ha una partitura jazzistica. Insomma, il jazz è il sound dell’epoca. E circola indisturbato anche alla radio.

Bella contraddizione.
Già. Se vogliamo buttarla in filosofia, come sostengono alcuni storici, soprattutto anglosassoni, il fascismo distrugge la logica formale. Perché è al tempo stesso A e non-A.

Con la Democrazia cristiana, invece, Aristotele non correva di questi pericoli.
Si procede alla restaurazione. Dominio del melodico. Ma poi il vento cambia.

Volare…
Certo. Domenico Modugno apre nel 1958 la pagina delle canzoni d’autore. Ci sarà una ricerca poetica, prima i testi erano molto meno impegnativi. I cantautori si rifanno alla scuola dei francesi, importanza del testo, del tessuto poetico. Ma per loro era una tradizione antica, che risaliva addirittura ai trovatori. Comunque già Vecchio frac , sempre di Modugno, scritta nel ’54, era molto francese.

Modugno, ma l’anno seguente scoppia uno scandalo gigantesco. Un bel passo indietro.
Con Tua , cantata da Jula De Palma. Interprete bravissima, di impostazione jazzistica. Una voce calda, sensuale. Nella sua performance, quella canzone quasi ricordava un amplesso. Un oltraggio per quell’Italia bacchettona.

Intanto la musica, in quegli anni, entra nel patrimonio culturale delle giovani generazioni, cosa che prima non avveniva.
Una rivoluzione tecnologica apre una stagione nuova. I juke-box, e soprattutto i dischi a 45 giri. Irrompe il rock sulla scena. Sul mercato s’impone una musica per giovani, mentre prima la musica era intergenerazionale. Gianni Morandi, Rita Pavone sono adolescenti, hanno la stessa età dei loro fan, di cui rappresentano in tutto per tutto passioni, sogni, tormenti.

E il ’68 porrebbe una pietra tombale su questa stagione?
Il primo segnale viene dal suicidio di Luigi Tenco. Il festival è diventato una roulette russa, crudele. In tre minuti può determinare una carriera. La televisione aveva molto depauperato la rassegna, forse perché non ci credeva troppo. Dopo la morte di Tenco, i cantatutori si allontanano. Fino ai primi anni Settanta si trova ancora qualche bella canzone, qualche personaggio interessante. Poi il buio, tanto che la stessa televisione riduce l’impegno, manda il festival in differita.

Quello che non sembra cambiare è la distanza tra quello che avviene nella società e quello che raccontano le canzoni.
Non è vero. Certo, è sempre presente anche l’aspetto dell’evasione. Ma i Tenco, i Paoli, gli Endrigo si pongono di fronte allo spartito in modo diverso, rivoluzionario. L’incontro con Gino Paoli, per me, è stato determinante, un radicale rovesciamento di prospettiva. I loro testi hanno avuto un’enorme influenza politica. Cosa che invece non avveniva con la canzone direttamente politica, sociale, spesso noiosa e basta.

C’è stato, comunque, un filone in Italia.
Con risultati anche egregi. Il tentativo di fare cronaca con le canzoni. Giovanna Marini, il Cantacronache, il Nuovo canzoniere italiano, hanno avuto un peso specifico sul mercato e un’influenza sui giovani.

I cantautori, quindi. Per molti, però, la musica non potrà mai attingere alla poesia.
Sono due forme di espressione tecnicamente diverse. Un conto è la poesia, la musicalità intrinseca delle parole, un conto è agganciare le parole ad una musica. Molti poeti hanno fallito come parolieri. Le eccezioni sono Salvatore Di Giacomo e Pier Paolo Pasolini, che hanno usato le parole in modo diverso, con una stretta adesione al tessuto musicale.

Su quel giudizio non peserà il lascito spirituale di Benedetto Croce?
Un filosofo molto calunniato. Certo, Croce ha una visone sistematica, derivata dalla tradizione ottocentesca, hegeliana, dove tutto si teneva, ed operava delle distinzioni. Ma sapeva benissimo quanto fosse importante questa forma di espressione popolare. Non a caso ha avuto una lunga, e interessantissima, corrispondenza con Di Giacomo. E dopo di lui ci sono stati Antonio Gramsci e Pasolini. Esiste invece, questo sì, un accademismo, e Croce era tutt’altro che accademico, un aristocraticismo che crea gabbie, confini. Molto tipico dell’Italia. In Francia, Gran Bretagna non ce n’è l’ombra.

La musica. Non solo. Borgna ha allestito con Miranda Martino una lezione-spettacolo sulla canzone napoletana, Napoli senza tempo . Con materiali d’archivio ha realizzato un film, Città aperta , ora anche in dvd: racconta la cultura italiana dal ”44 al ’68. Con, a parte, un nutrito corredo di interviste.
La mano corre al computer; apre Internet. «Berlusconi partecipa a Sanremo», annuncia Borgna con una risata incredula. Ma sì, il festival è morto.