Corriere della Sera, 17/2/2009, Christopher Hitchens, 17 febbraio 2009
L’EPIDEMIA MUGABE
Oggi la situazione in Zimbabwe ha raggiunto un punto tale che il ricorso alla forza, da parte della comunità internazionale, sarebbe del tutto giustificato per arrestare e processare il dittatore Robert Mugabe. Perché dico tutto questo?
I crimini di Mugabe sono spaventosi, non c’è dubbio. Ma si è trattato di crimini perpetrati da un governo eletto e fino a oggi non era del tutto chiaro se avessero superato il limite che autorizza l’intervento o per lo meno l’emissione di un mandato in tal senso. In sostanza, esistono quattro criteri fondamentali. Il primo è il genocidio che, secondo i firmatari della Convenzione sul genocidio (cui partecipano anche gli Stati Uniti) richiede un’azione immediata o per prevenire o per punire gli esecutori. Il secondo è l’aggressione contro la sovranità degli Stati confinanti, tra cui l’occupazione del loro territorio. Il terzo è il concedere ospitalità, o appoggio concreto, ai gruppi terroristici internazionali. Il quarto, infine, riguarda le violazioni del trattato di non proliferazione o delle risoluzioni dell’Onu sulle armi di distruzione di massa.
Mugabe istigò numerosi massacri nel Matabeleland negli anni Ottanta, per mezzo di spedizioni punitive condotte da unità speciali, addestrate in Corea del Nord, contro un gruppo etnico rivale. E così pure ha infierito su quei distretti elettorali a lui contrari, con la sospensione arbitraria dei rifornimenti alimentari. Ma tutto questo non costituisce un vero e proprio «genocidio ». I suoi soldati si sono abbandonati di tanto in tanto a episodi di saccheggio delle risorse del Congo, ma ciò non equivale a un’invasione o un’occupazione. Lo Zimbabwe non è rifugio né porto franco dei terroristi internazionali più ricercati né lucra sul mercato nero mondiale delle armi di distruzione di massa.
La situazione, tuttavia, di recente ha preso un’altra piega e un’attenta analisi di questo cambiamento può aiutarci a chiarire quando uno Stato da «fallimentare» diventa «canaglia». Tale è la sua indigenza, che il popolo dello Zimbabwe oggi è devastato dalla malnutrizione, che scatena epidemie come il colera. E tale è la sua disperazione, che i cittadini hanno cominciato ad attraversare in massa i confini, specie in direzione del Sudafrica, portandosi dietro le loro malattie. Ciò significa che Mugabe si è trasformato in un problema internazionale, destabilizzando i Paesi vicini. Questi, direttamente chiamati in causa, hanno ogni diritto legittimo a intervenire per ristabilizzare lo Zimbabwe. Siamo davanti a uno scenario di guerra batteriologica.
Né è un particolare di poco conto che Mugabe abbia chiaramente perso le ultime elezioni in Zimbabwe, anche se continua a sfruttare i meccanismi dello Stato quasi fossero proprietà privata del suo partito al governo. Il rovesciamento del governo democratico in qualsiasi Paese è da considerare giustamente come foriero di minacce o aggressioni contro gli Stati confinanti. L’Unione Europea, per esempio, non ammette Paesi che non abbiano una democrazia parlamentare. Vi sono membri dell’Unione Africana che vorrebbero adottare una simile linea politica, anche se la sua realizzazione appare ancora molto lontana nel tempo. Le Nazioni Unite, ovviamente, devono accontentarsi dei Paesi così come sono, benché il concetto di «responsabilità per il benessere del proprio popolo», lanciato da Kofi Annan, abbia contribuito a erodere in una certa misura la gelosa prerogativa degli «affari interni» sbandierata da taluni membri.
La dialettica tra «Stato canaglia» e «Stato fallimentare» non è sempre facile da valutare. L’Iraq (che sotto Saddam Hussein era l’unico Paese a collezionare tutti e quattro i criteri sopra menzionati) diventò uno Stato fallimentare come risultato del suo comportamento canaglia, attirandosi sanzioni penalizzanti, isolamento e corruzione. L’Afghanistan è diventato uno Stato canaglia come conseguenza della sua gestione fallimentare – in questo caso non per colpa sua – che ha consentito ai gangster politici internazionali di impiantarvi le loro basi. E’ stato un comportamento «canaglia» interno a spingere il Ruanda sull’orlo del baratro, causando la fuga di centinaia di migliaia di profughi, i quali a loro volta hanno innescato la tremenda guerra civile in Congo che finora sarà certamente costata milioni di vite umane. In quel caso, è stata diffusa la peste del tribalismo etno-fascista, di cui oggi vediamo le tragiche conseguenze.
Ho avuto modo di trascorrere qualche giorno in compagnia di Sebastião Salgado, l’inviato speciale dell’Unesco per la lotta alla poliomielite. Nel 2001, quando visitammo Calcutta e la regione del Bengala, questa malattia, tanto drammatica quanto prevenibile, stava per essere relegata al passato, assieme al vaiolo. Ma se solo poche sacche di popolazione sfuggono alla vaccinazione, questo morbo altamente contagioso ben presto si diffonde in vaste aree. In alcune zone abitate da militanti musulmani, dove corre voce che l’immunizzazione altro non è che un tranello dei malvagi imperialisti per rendere sterili uomini e donne, non pochi dottori e infermiere sono stati brutalmente assassinati. Risultato, la poliomielite è tornata a colpire. Ancora una volta, sostengo che si potrebbe accusare l’Amministrazione federale delle aree tribali del Pakistan di inadempienza a livello internazionale e non solo nell’ambito nazionale del Pakistan. Che talebani e Al Qaeda si annidino precisamente in queste aree forse non è una coincidenza, pertanto invito tutti a riflettere sulla necessità di non considerare più disgiuntamente diritti umani ed epidemiologia. In tal senso, lo Zimbabwe sarà un eccellente laboratorio per verificare fino a che punto questi due tipi di salute sono tra loro collegati.
traduzione di Rita Baldassarre