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 2009  febbraio 17 Martedì calendario

E SILVIO AFFONDO’ L’ASTRO NASCENTE

Soru era molto più del presidente della Regione Sardegna e forse non era solo «il nostro piccolo Berlusconi», come lo definì l’altro grande sardo Cossiga. Non si sentiva un nuovo Illy, per citare l’altro imprenditore divenuto governatore di una Regione mai espugnata prima dalla sinistra e infine sconfitto da un carneade berlusconiano. Piuttosto, un giggirriva al contrario: non il lombardo che trova una nuova vita in Sardegna, ma il sardo che sbancata Milano torna a casa vincitore. Nel suo intimo, mutato il moltissimo che c’è da mutare, Soru si sentiva una sorta di Sciascia di Sardegna: non Sciascia lo scrittore, quello vero, ma il guardiano dell’anima isolana, il custode della specificità insulare, l’idea che di Sciascia si erano fatti in continente i lettori che lo veneravano e coloro che, come il Michele Serra dei Falsi («La mia tata si chiamava Peppinedda. Tutti dovrebbero chiamarsi Peppinedda...»), lo prendevano rispettosamente in giro. Anche per questo, essere battuti dal figlio del commercialista di Berlusconi è una sconfitta all’apparenza umiliante; in realtà, testimonia la forza e la singolarità di Soru. Il Cavaliere, come Ercole, ha strozzato in culla il serpente che un giorno avrebbe potuto stritolarlo. Ha fatto testare il suo peso nazionale dai sondaggisti. Ne ha seguito l’ingresso nell’editoria con l’acquisto dell’Unità, che ne ha raccontato la campagna con mediterraneo calore. Ha letto le interviste in cui Soru evocava le due vittorie di Prodi. E ha dimostrato che chi invoca «non tutto è in vendita!» sbaglia, almeno qui in Italia, isole comprese.
Quando è venuto in Sardegna l’inviato del Monde, Soru ha rilasciato un’intervista di silenzi, lunghi anche trenta secondi; quando il malcapitato pensava che la risposta fosse finita e tentava un’altra domanda, lui chiedeva un po’ stizzito: «Per cortesia, non mi interrompa ». Quando si era candidato per la prima volta, nell’autunno 2003, Soru aveva portato il cronista del Corriere a vedere Sa Illetta, l’isoletta, la sede di Tiscali inaugurata appunto da Cossiga, poi la laguna dei fenicotteri (Soru dice «fenicoteri»), quindi la spiaggia del Poetto, dove si fermò a parlare con i mendicanti che lo conoscevano tutti e gli davano del tu (ricevendo il lei). Spiegò di aver deciso di scendere in politica dopo aver visto l’insegna di un negozio che si chiamava SARDEGNERIA. «Pensai: mai più. Mai più faranno mercato della nostra terra. Mai più villaggi turistici finti, che non sono costruiti da sardi, non impiegano sardi, non usano prodotti sardi, non distribuiscono utili ai sardi. La Sardegna è il campo giochi di partite altrui; di suo non ha neppure uno scivolo. Basta con le lottizzazioni sulla costa, con le moto d’acqua a tutto gas, con l’assedio degli yacht di ferragosto. Non possiamo diventare un’immensa Ibiza, perché anche Ibiza sta cambiando. Portiamo cavi e fibre ottiche, ma ritroviamo la nostra anima profonda, perché è quella che interessa al mondo globale ».
Soru era così complicato e così sardo che non solo detestava la Costa Smeralda, nelle due versioni di Tom Barrack e del Billionaire, della ricchezza internazionale e delle paillettes de noantri (e si seccò molto quando al bar dell’aeroporto di Cagliari vide nel menu il panino Porto Cervo). Non lo convinceva neppure l’idea della Sardegna cara a continentali che l’hanno molto amata, ad esempio Montanelli, affascinato da quello che gli pareva il Far West italiano, con i banditi, le cavalcate, gli spazi sconfinati, le sparatorie e tutto. L’idea dell’isola di Mesina e delle greggi gli pareva inutilmente romantica, ai limiti dell’oleografia: «Io la Sardegna la sento nel buio, nel silenzio. Due risorse quasi esaurite nel resto d’Europa, che sono la vera ricchezza naturale da sottrarre agli speculatori».
Anche per la profondità del suo radicamento, oltre che per i cinque anni di potere, la sconfitta di Soru che si profila nella notte appare un’impressionante dimostrazione di forza del suo rivale: non l’oscuro Cappellacci, ma Berlusconi. Certo, Soru lamenta che il vescovo di Cagliari, Giuseppe Mani, abbia benedetto il Cavaliere in arcivescovado: «Ricordatevi che questo presidente vuole bene ai sardi» («non è vero, non vuole bene ai sardi ma al potere!» fu la sua replica). D’accordo, l’Unione
sarda di Sergio Zuncheddu, editore e costruttore, non l’ha mai intervistato, «neppure una volta in cinque anni, e la sua tv Videolina a stento ha fatto sentire la mia voce». Di sicuro la tassa sul lusso gli ha alienato simpatie influenti, così come la vecchia nomenklatura di sinistra da Cabras in giù ha remato contro. Ma è evidente che la sua hybris è stata la sfida con Berlusconi, che della Sardegna conosce soprattutto le proprietà di famiglia ma si è rivelato in sintonia con i sardi d’oggi almeno quanto lui.
E’ stato proprio Soru ad accettare il duello. Conscio delle divisioni del centrosinistra e della sua debolezza endemica nell’isola, il governatore ha tentato di risvegliare l’orgoglio sardo contro l’invasore brianzolo, e magari ha cominciato a fare un pensierino anche alla partita nazionale. Intervistato per Vanity Fair da uno scrittore conterraneo, Pino Corrias, che gli chiedeva della successione a Veltroni, ha risposto: «Non credo. Però vedremo ». E poi, quasi come motto finale: «Per governare non si deve necessariamente essere simpatici».
Un rischio che Soru non ha mai corso, sostengono i suoi nemici («quali sono? Se ha il pomeriggio libero le faccio l’elenco »). «Pescecane travestito da spigola» l’ha definito con metafora ittica Giovanni Valentini, ex direttore dell’Espresso ed ex dirigente Tiscali. In realtà, Soru non è antipatico. E’ asciutto, essenziale, rapido. A 46 anni (ora ne ha 51) era già nonno. Scuola dai padri Scolopi («la mia famiglia era molto cattolica, e non di sinistra»). Un passaggio in autostop da un signore milanese fiero di avere gli eredi alla Bocconi; l’iscrizione alla Bocconi. Il padre aveva un minimarket; lui aprì un supermarket. Poi la finanza. La tecnologia. «A Milano ho passato 17 anni, sono nati due dei miei quattro figli, mi sono trovato benissimo. E’ tutto diverso dal Sud, là nessuno ti chiede nulla del tuo passato, basta quel che sei e quanto hai da dare. Però, quando ci torno, mi pare di non esserci mai stato». La scoperta di Internet e dell’Est: Praga. L’amicizia con Grauso. Il boom in Borsa, quando Tiscali capitalizzava più delle grandi aziende italiane, e il rapido declino della new economy, che Berlusconi gli ha rinfacciato come fosse uno smacco personale («ho verificato l’ingiustizia del Lodo Alfano: lui mi insultava, mi calunniava, e io non potevo neppure querelarlo»). Ai sardi ha parlato di nuove tecnologie ma anche di formaggi («l’80 per cento del pecorino romano è fatto con il nostro latte!») e di leppe, il coltello tradizionale, di cui lamentava aver trovato alla festa dell’Assunta a Bonaria una versione made in China. Amava raccontare di quando da bambino andò a vedere la prima e ultima partita del Cagliari in Coppa Campioni: eliminato dall’Atletico Madrid, neanche dal Real. «Avevamo un grande allenatore, Scopigno, autore di una delle migliori battute di ogni tempo: "Tutto mi sarei atteso nella vita, tranne vedere Niccolai via satellite"». E’ successo davvero, una volta. Ma era molto tempo fa.
Aldo Cazzullo