Augusto Minzolini, La Stampa, 17/2/2009, 17 febbraio 2009
QUALCUNO TRA NOI HA REMATO CONTRO"
L’elezione di Cappellacci alla presidenza della Regione Sardegna dal punto di vista politico rappresenta una vittoria di Silvio Berlusconi. Si potrà dire quello che si vuole, ma questo è un dato oggettivo racchiuso in una frase che ieri sera il capo del governo ha ripetuto più volte: «In queste elezioni io ci ho messo la faccia». Questa campagna elettorale, infatti, il premier l’ha giocata in prima persona, quando poteva starsene tranquillamente fuori, puntando addirittura su un candidato «semi-sconosciuto» per marcare una sorta di rinnovamento al di fuori dell’establishment tradizionale del Pdl. E - altro dato da non sottovalutare - andando avanti malgrado i mal di pancia degli alleati, con un Gianfranco Fini più piccato che mai perché informato della scelta di Cappellacci a cose fatte.
Ma, soprattutto, il premier ha vinto sulla linea del ”decisionismo”, quella che più gli si addice: la fase cruciale della campagna elettorale è stata occupata dallo scontro con i vertici istituzionali sul decreto legge per Eluana, approvato dal Consiglio dei ministri ma respinto dal Quirinale; e proprio alla vigilia del voto da un altro decreto, quello anti-stupro, per il quale di fronte alla situazione che si è creata difficilmente Napolitano potrà contestare i requisiti d’urgenza (oggi il premier ne parlerà direttamente con il capo dello Stato al Quirinale). Una filosofia ”politica” che ha avuto la sua applicazione anche in Sardegna quando Berlusconi - contro la politica dell’Eni - ha imposto che le industrie petrolchimiche di Porto Torres fermassero gli stabilimenti. Una politica, quella del ”decisionismo”, che ha spostato nelle ultime settimane consenso a livello nazionale così come in Sardegna: dopo il caso Eluana il Pdl nei sondaggi riservati del premier è tornato al di sopra del 40% (un tetto che non riusciva a toccare da sei mesi). «Ormai il Pd - ridacchiava ieri sera, Gaetano Quagliariello, sicuro della vittoria nell’isola - può contare su tre voti cattolici: quello di Rosy Bindi, quello di Giuseppe Fioroni e quello di Francesco Rutelli, sempre che sia credente».
Appunto, ieri sera, già nella prima serata, c’era un certo ottimismo nello stato maggiore berlusconiano. Un ottimismo probabilmente determinato anche dalla sicurezza che Berlusconi ha sempre mostrato sull’esito finale del voto. Ieri per tutta la giornata - fatto strano - il premier non ha chiesto notizie sull’andamento dello scrutinio come se per lui l’esito fosse scontato. Impressione che hanno ricavato anche quelli che hanno parlato con lui in serata. «Questa vittoria - ha spiegato ai suoi interlocutori - è la dimostrazione che chi amministra bene il paese è premiato anche a livello locale. Anche i sardi si sono accorti che a Roma c’è un governo che governa e prende decisioni. Le quattro volte che sono andato in Sardegna in queste settimane mi sono limitato a dire quello che stiamo facendo anche per loro: abbiamo garantito ai sardi l’insularità e risolto il problema del gasdotto in Algeria. Per affrontare la questione del Sulcis ho chiamato addirittura Putin. Questa è la politica del fare. Una filosofia che dovrebbero adottare i nostri alleati di governo. Abbiamo vinto sul Pd di Veltroni che ha rispolverato i vecchi argomenti di una volta. Ma anche contro chi come Soru aveva l’ambizione di sostituirlo. Il problema è che questa sinistra - con le sue polemiche e le sue cattiverie - non ha una cultura di governo».
Già, gli sconfitti. Lo scenario che si apre nel Pd è di quelli imprevedibili. Il gruppo dirigente è in piena confusione. E anche l’ipotetica alternativa Soru - caldeggiata anche nel mondo dei ”media” vicini al centrosinistra - è venuta meno. Veltroni rischia di finire sul banco degli imputati prima del previsto. Come spiegava qualche settimana fa un personaggio mite come Pierluigi Castagnetti «il Pd potrebbe cambiare leader prima delle Europee». I segnali ci sono tutti. Il movimentismo di D’Alema negli ultimi tre giorni è diventato spasmodico. Alla vigilia del voto l’ex-premier ha sparato contro Emma Marcegaglia proprio quando il leader Pd stava tentando di stipulare una tregua con la Confindustria. Lo stesso giorno ha appoggiato il competitor di Veltroni alla guida del Pd, Bersani. E, ancora ieri, ha demolito la politica dell’attuale numero uno dei democratici, sconfessando l’idea di «un Pd autosufficiente» e riaprendo il confronto con la sinistra massimalista. Insomma, Veltroni ora deve farsi due conti: continuare a resistere, sapendo che le Europee potrebbero segnare una sconfitta storica per il Pd, trasformandosi in una pietra tombale per tutte le sue ambizioni politiche, presenti e future; o giocare in anticipo, dimettendosi ora e accusando i suoi avversari di aver sabotato la sua linea politica («C’è chi dentro il partito rema contro - è stato il suo sfogo ieri sera - e questi sono i risultati»). Qualunque strada scelga, quello che non deve ripetere è l’errore che ha commesso nell’ultima settimana, quando per risollevare le sorti del Pd ha riproposto il vecchio schema della resistenza sotto l’icona di un personaggio impopolare come Oscar Luigi Scalfaro contro il Cavaliere nero che vuole attentare alla Costituzione e alla libertà del paese. Una formula trita e ritrita e inefficace (la manifestazione di giovedì scorso è stata un mezzo fallimento,) con la quale il Veltroni ”disperato” di oggi ha archiviato di colpo il Veltroni ”pieno di speranze” del Lingotto.