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 2009  febbraio 15 Domenica calendario

«RELIGIO MEDICI» AL CAPOLINEA


«Poiché io ebbi fame e mi deste da mangiare, ebbi sete e mi deste da bere...»: sono le parole evangeliche con le quali Matteo (25, 35-37) pone le premesse delle due prime opere di misericordia corporale. Camillo de Lellis, prototipo dell’infermiere ideale ossequiente alla parola divina, stabilì nel 1586, nella regola XXXI della confraternita assistenziale da lui fondata, che «agli infermi, quando magnano, ognuno cerchi con charità incitarli con parole amorevoli e farli magnare». L’alimentazione "regolata" e "incitata" era già un intervento sanitario, responsabilmente concertato «la matina, quando viene il medico».
Nel 1780 scosse l’Europa la dottrina del medico scozzese John Brown, dottore a Edimburgo, che teorizzando la vita come "stato forzato" (vitam coactum statum esse) necessitato dagli stimoli esterni, distingueva tutta quanta la patologia in malattie da iper e ipo-eccitazione. Mentre le prime si curavano con il salasso e il digiuno, le seconde si curavano con il vino (facente buon sangue) e con l’iperalimentazione (anche) forzata.
Nel biennio 1865-1866 il colera, «peste dell’Ottocento», devastò per la terza volta l’Italia. Un celebre medico, Jakob Moleschott, fisiologo nell’Università di Torino (prima di esserlo alla Sapienza di Roma), scriveva che «dal formidabile catarro gastro-enterico deriva in via diretta la diminuzione dell’acqua contenuta nel sangue e l’essiccazione di molti tessuti», onde «il sangue ne è impoverito e ispessito». Per combattere tale inspissatio sanguinis, che porta al collasso cardiocircolatorio, un altro grande clinico del tempo, Arnaldo Cantani, professore nell’Università di Napoli, attuò per primo la terapia del colera con «iniezioni sottocutanee di acqua salata tiepida». Erano le prime ipodermoclisi di soluzione fisiologica, le prime applicazioni mediche della idratazione forzata.
La storia sembra dunque indicarci che il nutrire e l’idratare – l’ipernutrire e l’iperidratare – organismi denutriti e disidratati sono interventi già da tempo acquisiti all’ambito medico-sanitario. Essi fanno parte di un bagaglio terapeutico che nel corso ulteriore degli anni, soprattutto a partire dall’avvento delle tecnologie biomediche, si è sempre più medicalizzato e specializzato. Non occorre appartenere al gruppo degli addetti ai lavori per sapere che oggi, a fronte degli eventi dismetabolici indotti da inveterate condizioni di una vita giunta al suo limite, è necessario possedere una vasta gamma di competenze specifiche. Non c’è bisogno d’aver frequentato un reparto di terapia intensiva o una sala di rianimazione per sapere che il medico che vi opera è al tempo stesso internista, fisiologo, farmacologo, biochimico, ingegnere elettronico.
 a questo medico, non ad altri, che compete di nutrire e idratare un malato in stato vegetativo permanente, senza ritorno. Suo è il compito della nutrizione e idratazione "ad arte", esercitata "a buon fine", a vantaggio del malato. Questi è persona che secondo la Costituzione italiana (art. 32), «non può essere obbligata a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge». La legge contempla come sole eccezioni alcune disabilità psichiche e le vaccinazioni obbligatorie. Se un paziente ha dato testimonianza consapevole (diretta o validata in sede giudiziale) di non voler essere spinto aldilà dei limiti entro i quali, non oltre, vuole vivere, «non si può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana».
L’etica del rispetto è la nuova pietas. Chiediamoci: si può mai aggirare l’ostacolo affermando che nutrizione e idratazione non sono atti medici? Che dar da mangiare e da bere non sono, in ogni caso, trattamenti sanitari, ma gesti del nostro vivere comune? Che pertanto essi esulano dal dettato del legislatore afferendo a un altro ordine di valori? In tale diverso ordinamento la vita della persona viene a collocarsi, dal piano naturale, al livello sovrannaturale. Davanti alla "sacralità della vita" la laica religio medici deve farsi da parte?
L’esperienza storica e l’evidenza tecnico’scientifica sembrano, a chi scrive, orientare l’imminente domani in altra direzione, non meno "pietosa" e "rispettosa". Il medico che interrompe la fleboclisi nutritizia e idratante a un malato giunto al capolinea, nel "rispetto" della persona che ha voluto così, non ha minor "pietà" (e minor competenza) del suo collega che centocinquant’anni fa reidratava e tentava di rianimare, con l’ipodermoclisi, il malato in coma nell’ultimo stadio del funestante colera. La religiosità è cosa diversa dalla sacralità: mentre questa attiene alla sfera teologica del divino, la prima appartiene alla sfera antropologica dell’umano. Alla religiosità peculiare del mestiere di medico si richiede di non essere dissacrata, non di essere consacrata.