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 2009  febbraio 15 Domenica calendario

«ANCHE MIA MAMMA COME ELUANA MAI PENSATO DI STACCARLE LA SPINA»


Eluana Englaro non c’è più. Ma per Eugenia Roccella il caso non è chiuso: «Quello che mi sconvolge è che non posso sapere com’è morta. Non c’è stato un controllo dell’autorità sanitaria sul protocollo che, stando a quanto è stato comunicato dalla stampa, è stato ”modificato vista la gravità della situazione”, quindi, immagino, accelerato. Non si sapeva esattamente cosa succedeva alla casa di riposo ”La Quiete”, dove, attraverso una serie di meccanismi ”borderline”, è stata creata una sorta di isola legale fuori dalla legalità. Il ricovero era stato autorizzato dal comitato distrettuale, ma non seguiva il piano che questo aveva predisposto. L’accettazione doveva essere firmata da un medico, ma sulla cartella clinica non c’è la diagnosi d’accettazione né la firma del responsabile. Il direttore della ”Quiete” non poteva entrare in questa ala riservata. Insomma, non c’è mai stata piena trasparenza». Il sottosegretario al Welfare è reduce dalla settimana più dura della sua vita politica. Era stata lei a convertire alla causa di Eluana uno eticamente anarchico come Silvio Berlusconi. «Certo, adesso c’è stata l’autopsia, ma non tutto emerge dall’esame autoptico», sospira.

Come ha saputo della morte di Eluana?

«C’è stata una telefonata mentre eravamo al Senato, in lotta contro il tempo».

Il primo pensiero che le è passato per la mente?

«All’inizio non ci ho creduto. Il medico, Carlo Alberto Defanti, aveva detto che lei stava bene e che fino a giovedì c’era tempo. Sono corsa dai capigruppo, Gasparri e Quagliariello, anche loro increduli. Abbiamo aspettato. Quando è uscita l’agenzia di stampa con la conferma della morte c’è stato un rimbalzo emotivo, perché avevamo creduto davvero, fino all’ultimo, nella possibilità di salvarla. Il pensiero è stato uno solo: non ce l’abbiamo fatta».

Anche lei, come Gaetano Quagliariello, ritiene che Eluana sia stata uccisa?

«Eluana non è certo morta di morte naturale. Io ho capito Quagliariello, Gasparri, Ronchi, Sacconi e tutti quelli che hanno urlato la propria ribellione. Eravamo tutti a metà tra rabbia e commozione».

Pensa o no che si sia trattato di eutanasia?

«Lo dice lo stesso estensore della sentenza del Tar della Lombardia, Dario Simeoli, che non avrebbe dovuto occuparsi del caso Englaro, avendo già scritto un articolo sulla sentenza di Cassazione su Eluana, pubblicato su una rivista di studi giuridici, in cui lui dichiarava che quella sentenza prefigurava l’eutanasia. Anche se per Eluana non parlerei proprio di eutanasia, che prevede una dolce morte, mentre qui di dolce non c’è stato niente».

Meglio una ”dolce morte” piuttosto che lasciarla morire di fame e sete?

«Ovviamente io sono per la cura. Ma se si dice, come ha fatto Simeoli, che si tratta di una sorta di eutanasia, allora sarebbe meglio una morte indolore. Nessuno può garantire che Eluana non abbia sofferto».

Chi ha ucciso Eluana?

«C’è una sentenza, un’interpretazione molto libera dell’articolo 32 della Costituzione cui si è arrivati con una forzatura».

Sta dicendo che l’hanno uccisa i magistrati?

«Non si può fare l’equazione: assassinio - colpevole - galera. Se fosse così semplice, potrei denunciare qualcuno per omicidio. Ma...».

Ma?

«Ma è evidente che Eluana è morta di sentenza, ”grazie” a un’interpretazione che la magistratura ha dato della Costituzione. quella la vera casta, che continua ad agire senza mai rispondere dei propri errori, nonostante il referendum radicale vinto dopo il caso Tortora sulla responsabilità dei magistrati».

Gasparri ha detto: «Quando si farà la storia di questa vicenda peseranno le firme messe e non messe». Anche lei ritiene che Napolitano abbia delle responsabilità nella morte di Eluana?

«Non voglio attribuire responsabilità morali, perché non entro nella coscienza di nessuno. Ma il decreto era pienamente legittimo e i requisiti di urgenza c’erano».

Crede anche lei, come Berlusconi, che la lettera privata che gli ha mandato Napolitano implicava l’eutanasia?

«Io ho trovato molto irrituale quella lettera. Ho scoperto che dall’epoca Ciampi, come atto di cortesia, si mostrano al Capo dello Stato i decreti prima che si riunisca il Consiglio dei ministri. In questo caso c’è stata un’anomala richiesta anticipata di Napolitano di non fare quel decreto».

La prima volta che era partita l’ambulanza a prelevare Eluana a Lecco, sotto Natale, tramite Gianni Letta, riusciste a bloccarla con una tempestiva direttiva di Sacconi. Cosa non ha funzionato questa volta?

«Il ministero non ha possibilità di intervento diretto sulle strutture sanitarie. Noi abbiamo fatto l’atto d’indirizzo, che dovevano applicare i presidenti di Regione. Noi abbiamo mandato gli ispettori, i cui atti andavano alla procura e agli enti locali. La Regione è intervenuta tiepidamente, ma la responsabilità diretta ce l’hanno il sindaco, che ha fatto subito capire che non sarebbe intervenuto, e la procura, che si è chiusa in una logica di difesa della casta».

Che colpe ha la procura?

«Non si è mai posta il problema di verificare se gli esposti avessero un qualche fondamento o se i rapporti del ministero e dei Nas rilevassero delle irregolarità. Ha solo ribadito continuamente che bisognava applicare la sentenza».

Come ha fatto a convertire alla vostra causa Berlusconi, che non si era mai schierato sui temi etici?

«Io non ho convertito nessuno. Il presidente ha una sua sensibilità e ha capito che Eluana era una donna viva a fronte di fatti inequivocabili: deglutiva, si addormentava e si svegliava, aveva il ciclo mestruale».

Cosa le ha detto il premier su Eluana?

«Che sarebbe andato avanti secondo coscienza senza dare retta ai sondaggi».

 vero che è stata sempre lei a ”convertire” Sacconi?

«Io sono il suo sottosegretario, quindi è chiaro che ne abbiamo parlato. E attraverso il dialogo si è informato e coinvolto sempre di più in questa vicenda. Ma Sacconi ha una sua disponibilità e sensibilità personale su questi temi».

 mai andata a trovare Eluana?

«Magari… Avrei molto voluto».

E perché non lo ha fatto?

«Non l’ho nemmeno chiesto perché, anche se con il signor Englaro i rapporti sono sempre stati molto civili, mi sembrava un’invasione nella sua privacy».

Se uno dei suoi figli si fosse trovato nelle stesse condizioni di Eluana, cosa avrebbe fatto?

«Non avrei mai staccato la spina, come non ho fatto con mia madre quando cadde in coma per un’emorragia cerebrale causata da un aneurisma. Fu operata in Canada e rimase un paio di mesi in stato vegetativo. Poi, nel giro di due anni, recuperò moltissimo. Ed è morta vent’anni dopo».

Anche per questo si è così appassionata al caso di Eluana?

«Certo. Ma c’entra anche il pensiero femminista. Molti pensano alle femministe come a delle scalmanate, abortiste o paritarie. Invece, dentro a un femminismo che vuole valorizzare la differenza, ha un grande posto l’etica della cura».

Quando sua madre era nelle condizioni di Eluana non l’ha mai neanche sfiorata il pensiero di porre fine alla sua agonia staccando la spina?

«Assolutamente no. Tra il tenere tra le tue la mano tiepida di una persona ancora viva e quella rigida e fredda di un corpo morto c’è una differenza incolmabile: la differenza decisiva tra la vita e la morte. In quelle mani si crea un contatto di relazione».

Potrebbe anche essere una suggestione.

«Può darsi. Ma il professor Giuliano Dolce ha ricordato il famoso ”effetto mamma” in base al quale, di fronte a voci e contatti di persone care, si attivano alcune reazioni cerebrali».

Parliamo di suo padre, Franco Roccella, fondatore dell’Unione goliardica italiana.

«Era una persona di grandissima intelligenza e generosità, ma anche infantile, innocente e bugiardo. Era un uomo molto affascinante, anche umanamente: uno a cui piaceva mangiare, uscire, stare con gli amici. Si spendeva molto per gli altri, conversava subito con tutti».

Che rapporto c’era tra voi?

«Complicato. Lui era uno che stava molto poco in casa. Era poco padre. Anche mia madre era poco madre. Tutti e due erano poco genitori e molto figli».

E lei con chi è cresciuta?

«Io sono nata a Bologna, dove mia madre e mio padre si sono conosciuti, ma sono cresciuta in Sicilia, affidata a una zia e a un amatissimo nonno, perché i miei genitori non erano assolutamente in grado di occuparsi di una bimba. Sono venuta a vivere con loro a Roma a cinque anni. Ma, prima di cedermi ai ”miscredenti”, mia zia mi fece battezzare. Poi io chiesi a mia mamma di fare la comunione e la cresima».

E come hanno reagito i ”miscredenti”?

«Mia madre ne parlò con mio padre. Attimo di silenzio. Poi lui, da tipico siciliano, rispose: ”Va bene, essere cattolica per una donna non è male”. Quando mi fu chiesto di indicare una madrina, scelsi Liliana Pannella, la sorella di Marco».

Pannella ricorda che la teneva spesso sulle ginocchia da ragazzina.

«Ah sì? Le nostre famiglie si frequentavano molto. Ricordo i Natali in casa Pannella a mangiare il tacchino con le castagne. La mamma di Marco era francese, cucinava molto bene».

Suo padre è stato anche tra i fondatori del Partito radicale. Pannella lo ha sempre considerato il suo maestro. Cosa ricorda lei di lui?

«Marco era bellissimo e sempre alla ricerca di finanziamenti».

Suo padre con lei era più radicale o più siciliano?

«Non era per niente radicale con me in tema di diritti civili. Sono diventata femminista anche per questo. A scuola noi eravamo costrette a portare il grembiule col fiocco - che siamo riuscite a togliere solo al Tasso, a 16 anni – e i maschi no. Il corpo da coprire era quello delle donne».

Porta ancora dei miniabitini: un retaggio della fase femminista?

«No, anzi, noi indossavamo scialli e gonnellone a fiori».

Che rapporto aveva con la tradizione radicale della sua famiglia?

«Fin da piccolina mia madre mi portava ai congressi radicali, molto bohémien, dove c’erano quattro gatti».

Ma allora ne subìva il fascino. I radicali raccontano che lei «era più assatanata della Bonino» e mimava anche lei con le mani il simbolo della vagina.

«Quello era il simbolo femminista, non c’era nulla di volgare. Noi siamo stati vicini ai radicali, ma il femminismo è un’altra cosa e qualunque radicale le dirà che il Movimento per la liberazione della donna era un movimento di pazze invasate. Io non andavo per niente d’accordo con le donne radicali, compresa la Bonino».

Aveva 15 anni nel ”68. Come l’ha vissuto?

«Allora ero nel movimento studentesco. Ma la mia prima, unica, reale militanza è stata il femminismo».

Infatti a 18 anni aderì al Movimento per la liberazione della donna, di cui divenne il leader. Era un’altra Eugenia Roccella quella?

«Era la stessa. Ci sono cose che non rifarei e frasi che non ridirei, né riscriverei, ma c’è una sostanza che non rinnego affatto».

Le manca quella Eugenia?

«L’Eugenia femminista, tanto. Il mio filone non è quello della parità, è quello della differenza. Ma all’epoca le disparità erano impressionanti. Il diritto di famiglia era terrorizzante. A una ragazza che stava per sposarsi veniva voglia di scappare a gambe levate».

Da femminista quale battaglia porterebbe avanti oggi?

«Contro l’invasività della tecnoscienza nella maternità e nella paternità».

Oggi lei difende il diritto alla vita, ma trent’anni fa si batteva per l’aborto. Nel 1981, quando i radicali lanciarono il referendum per la liberalizzazione totale dell’aborto, lei faceva parte della segreteria di Francesco Rutelli.

«L’aborto non è un diritto, ma noi lo pensavamo».

Ha mai aiutato una donna ad abortire?

«Mi è capitato di accompagnare delle amiche».

Ha anche scritto un manuale, nel 1975, con Adele Faccio: ”Aborto: facciamolo da noi”, Napoleone Editore.

«Era un libro sulla disobbedienza civile. Tutte noi ci denunciammo per aborto, anch’io che avevo 18 anni, non perché avessimo abortito, ma come atto di disobbedienza contro il reato d’aborto».

Lei rivendica sempre di non aver cambiato idea. Riteneva anche allora che il feto fosse un individuo?

«Sì, questo l’ho sempre pensato. E mia mamma diceva: ”Non lo devi dire”. Penso che l’aborto sia un dramma irrisolvibile e bisogna adottare delle politiche di riduzione del danno».

Oggi pensa che l’aborto sia un dramma o un diritto?

«Pensavamo anche allora che fosse un dramma, scrivevamo che era un’enorme violenza. Le donne andavano in galera e non c’è mai stata, nemmeno oggi, una corresponsabilità maschile. Quello che volevamo come femministe era una forma di depenalizzazione, che non ci fosse l’aborto di Stato. Oggi penso che con questa legge si possa lavorare».

Non cambierebbe la legge 194?

«Credo che sia una legge abbastanza equilibrata e, per come si è stabilizzata nella storia, penso che non la si possa toccare senza provocare terremoti. La si può migliorare se riusciamo a fare delle linee guida con le Regioni, che fissino un limite sugli aborti tardivi uguale per tutte e che sviluppino di più la parte preventiva».

Su Eluana lei è sulle stesse posizioni della Chiesa. Ma sul caso Welby non lo era. Perché?

«Nella Chiesa ci sono posizioni molto diverse, e alcuni prelati avevano parlato di omicidio, mentre secondo me tra il rifiuto delle cure e l’eutanasia ci può essere un confine sottile. E i radicali, con molta consapevolezza politica, scelsero il confine più sottile possibile».

Che rapporto ha con la fede?

«Sono credente e vado a messa».

Nel PdL dicono che lei sia la pupilla di Ruini.

«Solo perché ho fatto il Family Day».

Che tipo è monsignor Ruini?

« un grandissimo padre, una persona di rara intelligenza e acutezza, ma anche un uomo di grandissima capacità spirituale. Non è assolutamente un Richelieu. vivissima in lui l’idea di una Chiesa che va oltre la contingenza storica».

Raccontano che in un colloquio riservato tra lei, Ruini e un’altra parlamentare del PdL che si batteva il petto, Ruini, guardando lei, ma rivolto all’altra abbia detto: ”Signora, lei è un po’ troppo cattolica”.

«Non è così», ride, «ma lui è sicuramente un fautore del coinvolgimento dei laici, proprio perché le ragioni di certe scelte non sono cattoliche, ma ragioni tout court».

Lei ha tanti ”fratellini” radicali nel PdL: da Quagliariello a Elio Vito, a Benedetto della Vedova, a Raffaele Perna… Come mai molti radicali a un certo si convertono sulla via di Arcore?

«Perché i radicali sono cresciuti nell’anticomunismo».

Chi l’ha introdotta alla corte di ”Re Silvio”?

«Io non sono in nessuna corte. Ho conosciuto Sandro Bondi, con cui è nato un rapporto di stima reciproca ed è stato lui a proporre la mia candidatura».

Le è piaciuto subito il Cavaliere?

«Io ho sempre votato Berlusconi, fin dall’inizio».

Perché ha scelto il Family Day per la sua ridiscesa in campo?

«Io non ci pensavo affatto. Mi è stato proposto chiedendo un apporto laico».

Chi glielo ha proposto?

«Mimmo Delle Foglie, a nome delle associazioni che hanno promosso la manifestazione. Lui è stato il paziente tessitore».

Al termine della legislatura tornerà in panchina o studia da ministro, come si vocifera nel PdL?

«Io ho cominciato con una militanza femminista, poi sono tornata a casa per vent’anni perché avevo due figli e persone anziane da accudire. A me la politica piace, ma si può fare in molti modi, non solo in Parlamento e al governo».

Cos’ha in mente?

«Un centro studi di biopolitica».