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 2009  febbraio 15 Domenica calendario

FELTRI A COLLOQUIO COL PRESUNTO ASSASSINO

Da quando i classici greci esistono solo sui libri e nessuno più li legge, il processo ha preso il posto delle tragedie. Non soltanto nell’aula del tribunale che è come una chiesa, con tanto di chierici, toghe svolazzanti, riti celebrati da persone iniziate; oggi la giustizia entra in tutte le case, mostra il suo volto peggiore in tivù ed è diventato uno spettacolo più simile al Grande fratello che a una tragedia. Ha perso in solennità e ha guadagnato in popolarità; in versione domestica poi rivela soprattutto le sue miserie, le sciatterie tipiche dell’apparato statale.

Lo schermo televisivo riduce tutto a storiaccia; gli accusati di omicidio vengono presentati sbrigativamente, spesso privati della loro umanità, sembrano pupazzi che ciascun partecipante alla ”funzione” strapazza incurante d’ogni rispetto. Guardare un talk show dedicato a un delitto è come guardare dal ballatoio una lite in cortile: voci che si sovrappongono, confusione, urla. Non si capisce niente o, peggio, si capisce storto.

Ecco perché quando, arrivato a Mortara (con Cristiana Lodi inviata di Libero che ha narrato dalla A alla Z il giallo di Garlasco senza pregiudizi e senza farsi addetta stampa della Procura), entro nel ristorante San Michele e mi imbatto in Alberto Stasi rimango deluso. Mi aspettavo di incontrare un essere diabolico, il famoso biondino dagli occhi di ghiaccio ritratto nella fotografia riproposta mille volte, imperturbabile nella sua spietatezza, e invece mi trovo davanti un giovanottino dal sorriso imbarazzato, pallido, magro, media statura. Gli manca lo zainetto per essere uguale a tanti studenti appena usciti dalla Bocconi.

Esauriamo in fretta i convenevoli aiutati (...)

(...) da un sorso di prosecco o qualcosa del genere. L’approccio al cuore della conversazione che mi preme è molto lento. D’altronde mi riuscirebbe difficile dire a bruciapelo: scusa Alberto, spiegami come fa uno con la tua faccia da ragazzo perbenino ad essere un assassino così lucido da non commettere un errore; soprattutto ad aver ucciso con una violenza rara anche sotto il profilo muscolare?

 ciò che pensano tutti, ma non ho avuto il coraggio di esprimere una scemenza di queste dimensioni.

Qualche minuto se ne va nella lettura del menu. In verità non leggo affatto; piuttosto osservo di sottecchi il commensale seduto al mio fianco. Indossa una camicia bianca, maglione celeste, jeans regolamentari e scarpe la cui foggia non riesco a definire per mio difetto di conoscenza delle assurde calzature giovanili.

Il nostro appuntamento è stato combinato da due avvocati fratelli, Giulio e Giuseppe Colli. Difendono dal primo momento Alberto guidati dal professor Angelo Giarda. Siedono anche loro due al tavolo. E costato che i legali hanno un rapporto insolito con l’indiziato di un omicidio. Gli parlano con confidenza amicale, direi fraterna, con affetto. Ne scopro presto il motivo.

Stasi lo scorso anno, a marzo, si laureò. Voto, 100. Una tesi strana sulle tasse che devono pagare le compagnie di assicurazioni. Se lo viene a sapere Tremonti ingaggia il ragazzo di nascosto per raccattare qualche euro per il fisco piangente. Di nascosto perché un posto di lavoro ad Alberto non lo dà nessuno. Ovvio. un dottorino sul cui capo pende il sospetto di aver fatto fuori la fidanzata nel modo noto, colpi in testa fino a rompergliela, si ignora con quale oggetto. Era il 13 agosto 2007. Pensare che cinque giorni prima egli aveva superato un colloquio con una società di revisione bilanci e affini. L’assunzione doveva essere formalizzata nel giro di un paio di settimane. Invece è successo quel che è successo. Assodato che in Italia non c’è bisogno del verdetto per essere condannati al pubblico ludibrio e all’ostracismo, Giulio e Giuseppe Colli hanno aperto lo studio al loro assistito. Tanto perché abbia un luogo dove trascorrere le giornate, avere l’illusione di rendersi utile, essere circondato da volti amici, ”ammazzare il tempo”, stavo per scrivere, ma in questo caso il verbo non è adatto.

Il legame fra gli avvocati e Alberto è nato su basi solide. Nei giorni immediatamente successivi all’omicidio, i professionisti, incerti se accettare o no l’incarico, hanno sottoposto il giovane a un torchiante interrogatorio. Volevano sapere a ogni costo se era colpevole. Non per curiosità, bensì per impostare la difesa. Se non sei stato tu, adottiamo una strategia; se viceversa sei stato tu ne adottiamo un’altra. Perché la musica, comprenderai, è diversa.

Lo stesso interrogatorio è stato ripetuto da Giarda, docente della Cattolica. La risposta è stata netta: non c’entro. Ma questo potrebbe significare poco. Il fatto decisivo è stato un altro: lo scrupolo e la disponibilità di Stasi nel dare una mano sia agli inquirenti sia ai legali nel tentativo di ricostruire l’intera vicenda. Da qui ha preso avvio e si è sviluppata l’amicizia. In tanti anni di questo mestiere non mi era mai capitato di essere testimone di un simile affiatamento fra un accusato e i suoi avvocati.

Mentre ascolto il racconto, mi domando perché Stasi sia stato indicato quale autore dell’omicidio quando ancora le indagini erano all’inizio, zero prove, indizi idem. La ragione forse è banale. Di norma, in casi così, la rosa dei sospettati si limita alla famiglia, ai conoscenti. Se poi la vittima ha un fidanzato, le attenzioni si concentrano su di lui. Chi vuoi sia stato? Chi altri aveva moventi per ammazzare? E si attacca a cercare un appiglio per incastrarlo: due dichiarazioni a distanza di qualche giorno non perfettamente sovrapponibili (come se una deposizione fosse tale quale una poesia imparata a memoria), un atteggiamento giudicato ambiguo; piccoli particolari benché insignificanti vengono ingigantiti.

Si costruisce un teorema, poi si scelgono solo i dettagli che potrebbero concorrere a dimostrarlo. Sono metodi sbagliati in linea di diritto, ma anche i più praticati. Il guaio è che si trascurano altre piste. Sicché man mano trascorrono i giorni, il vero assassino - se ci fosse stato - è inghiottito dalla sua routine; ha avuto facoltà di cancellare le tracce e scompare. Alberto è stato oggetto di intercettazioni (e lo è ancora). Non gli hanno dato requie. Eppure non una sola telefonata ha rafforzato i sospetti su di lui. Sono intervenuti i Ris con i loro strumenti sofisticati e non sono giunti a capo di nulla. Non importa.

Il fidanzato è arrestato lo stesso. Ma l’arresto non è convalidato: assenza di indizi sufficienti. La bicicletta nera scorta dinanzi al villino di Chiara non era di Stasi (la sua è granata e con le borse). Il sangue sul pedale non è sangue. Insomma. Nada de nada. Eppure gli investigatori non si rassegnano. E si svolgerà tra una settimana l’udienza preliminare dove si deciderà: proscioglimento o giudizio.

Il punto da chiarire è: come ha fatto Alberto a entrare quella mattina in una casa cosparsa di macchie di sangue senza sporcarsi le scarpe?

Commento dell’accusato: «Non ricordo come mi comportai nella circostanza, ma so come mi comporto di solito: se a terra c’è una pozzanghera, spontaneamente evito di metterci i piedi. Nell’appartamento c’era abbastanza luce, data l’ora. Non ho certo passeggiato in corridoio; appena visto quanto successo, ho dato l’allarme. Ero sconvolto».

Più che la tesi di Alberto, mi sembra debole quella dei Pm. Ciò che stupisce però non è l’atteggiamento degli inquirenti e degli investigatori; per loro non identificare l’assassino è un fallimento, e se non inchiodano Stasi, a due anni dal delitto dove vanno a ficcare il naso? Meraviglia invece la convinzione diffusa di colpevolezza maturata in seguito ai dibattiti televisivi, e alla pubblicazione ripetuta della fotografia tagliata ad arte per far risaltare gli ”occhi di ghiaccio” del ragazzo, appena nascosti dalle palpebre leggermente abbassate.

Già, occhi di ghiaccio. Sono semplicemente quelli di un miope. Quanto ai talk show, anche se influenzano molto la gente, sono inevitabili. Diritto di cronaca. Sono gli psicologi di pronto intervento, i criminologi e gli psichiatri da rotocalco, le toghette rosa, i nani e le ballerine, le soubrette in disarmo riciclate opinioniste a far danni attraverso disinformazioni e interpretazioni arbitrarie e idiote.

«Nonostante questo», dice Alberto, «la mia vita scorre normalmente. Vado al cinema, in pizzeria, la compagnia di qualche amico. Con i genitori non ho problemi. Aspetto con tranquillità. Il giorno in cui entrai in carcere sopportai, consapevole di subire un torto. Ne ho subiti parecchi. Non immaginavo di essere un obiettivo e collaboravo coi carabinieri nella speranza si arrivasse al dunque. In estate sono stato in Sardegna, al mare. C’è chi mi ferma e mi incoraggia; essere riconosciuto per strada all’inizio mi sorprendeva, mi provocava disagio. Adesso sono abituato, non provo sensazioni».

Nell’esistenza del bocconiano c’è un’amica, Serena, che frequentava Chiara. «Me l’hanno attribuita come fidanzata. Ma la nostra non è una storia d’amore; parlo volentieri con lei. Il 24 febbraio mi auguro che il giudice sia di quelli non suggestionabili dai pettegolezzi e indifferente alle pressioni ambientali. Vorrei riprendere il mio cammino. Andrei volentieri a Londra per lavorare; mi piace Londra, ci sono stato in due circostanze. Lì sarebbe più facile ritrovare entusiasmo. Il mio sogno era fare il commercialista, la mia materia mi appassiona. Ho studiato gli atti del processo; ne colgo al volo gli errori. Quando sei dentro, non ti sfugge nulla».

Alberto è riservato. Non so se per timidezza o per pudore, non si addentra in ricordi sentimentali. Ma se si accenna a Chiara tradisce una punta di commozione; ci sarà pure la nostalgia per il tran tran rassicurante di una relazione durata otto anni.

«La conobbi appena trasferito a Garlasco, mi pare nel ”99. Insegnavamo entrambi ai bambini dell’oratorio. Poi sa come accade... Ci intendevamo. Ci siamo voluti bene. Lei aiutava me, io aiutavo lei...».

L’occhio di ghiaccio ora si scioglie. Alberto dissimula. Racconta un episodio paradigmatico. «Una sera ero al telefono e una terza voce si inserisce: svelto, passami la matita».

Il maresciallo si era dimenticato di pigiare il tasto giusto con la dovuta prontezza per non farsi sorprendere a intercettare.

Stasi ride.

Siamo al caffè. Avrei il desiderio di approfondire il suo stato d’animo; rinuncio per non infastidirlo.

C’è una cosa che sappiamo in pochi e ve la svelo, perché serve a capire il ragazzo più di ogni altro discorso. Certe sere, dopo il tramonto, quando nell’ombra tutti i gatti sono grigi, Alberto esce dalla tana dei genitori e percorre la strada che conduce al cimitero.

Anche l’ultimo dolente è andato a casa, e lui sta lì con Chiara finché il cancello è aperto.

Forse le parla, forse prega.

Questi sono affari suoi, e mi scuso se non li ho tenuti per me.