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 2009  febbraio 16 Lunedì calendario

FERRE’, LA MODA E LA CRISI COSì TREMANO LE GRIFFE

Il primo ad alzare bandiera bianca è stato il cavalier Tonino Perna, uno che nella moda c´è da sempre e che ha sempre avuto, per la verità, un po´ di sfortuna. Uno che ha sempre guardato avanti (a volte troppo) e che per questo ha dovuto arrendersi e chiamare un commissario a occuparsi del suo gruppo. Il suo gruppo (IT Holding ) era un gruppo misto. Un po´ lavorava per gli altri, un po´ aveva marchi propri. Gli ”altri´ erano Just Cavalli, Costume National, Galliano, Versace sport e VJC Versace. Tra i marchi propri, soprattutto Malo (bellissimi cachemire, Exté e GF Ferrè). Ma in passato aveva fatto scelte coraggiose, come quella di provare a gestire Romeo Gigli. Era stato, per qualche anno, anche il "fabbricante" di Dolce & Gabbana, ma poi la storia era finita.
Il cavalier Perna è sempre stato un ottimista. Ha sempre pensato che davanti al made in Italy ci fosse un mercato infinito: bastava arrivarci. E, quasi certamente, è questo che ne ha fatto la prima vittima "modaiola" di questa crisi. Qualche anno fa si era spinto così avanti da aver osato comprare la GF Ferré, e questo lo ha reso ancora più fragile sotto il profilo finanziario. Ma lui si era lanciato perché il marchio Ferré era il suo biglietto d´ingresso nel grande giro della moda alta. Quella che fa tendenza e che impone il tuo nome. Ma non è andata bene. Gli è subito arrivata addosso la crisi. E qualche giorno fa è arrivata, inevitabile, la decisione di gettare la spugna. Quella stessa spugna che anni fa, in circostanze forse anche più difficili, non aveva gettato.
Gli altri, il resto del mondo della moda, per ora fanno finta che quello di Perna sia solo un incidente. La storia sventurata di uno che voleva fare troppo e che quindi è caduto di fronte al primo ostacolo. E ostentano un benessere che non c´è, e nascondono ansie che invece ci sono.
Capirci qualcosa è difficile perché il mondo della moda è sempre stato avaro di numeri precisi. Però si può provare a fare una specie di geografia.
1- Al primo posto ci sono le griffe super-modaiole, quelle ambite dalle ragazze di Tortona come da quelle di Winesburg (Ohio) o di Colorado Spring. E qui tira un vento di tempesta. Costano un occhio della testa (anche 500 euro per un paio di jeans) e francamente non è più aria per cose di questo genere. Poco a poco stanno tutti fermando la produzione e la pubblicità di queste vere follie del "bel vestire".
2- Poi ci sono i marchi assestati, di fascia alta, ma senza troppi strilli, quelli insomma che possiamo considerare i classici moderni. E qui oggi come oggi le vendite sono già almeno del 40 per cento. Una botta che nessuno si aspettava, non almeno in queste dimensioni. E che non accenna a mutare di segno. Qui c´è il cuore vero della crisi, e venirsene fuori non sarà tanto facile. Anche perché i prezzi sono piuttosto alti. E di questi tempi persino le fidanzate degli oligarchi russi si sono fatte più ragionevoli e stanno attente a non spendere troppo (i compratori russi sono quasi spariti dal centro di Milano). Le ragazze dei commendatori o le figlie dei commercialisti si erano già date alla fuga ancora prima di Natale.
3- C´è infine la fascia più popolare, più con prezzi più sensati. Roba cara, ma ancora abbordabile. E questi, si dice, sono quelli che se la passano meglio, nonostante la crisi. Un po´ in Italia e un po´ fuori riescono a piazzare i loro prodotti, e i conti stanno abbastanza insieme.
Queste sono, con intensità diverse, le crisi che si vedono. Basta appunto fare quattro passi nel centro di Milano: i negozi sono disperatamente vuoti e il personale delle boutique (ben truccato e elegante) se ne sta lì, con un´aria molto imbarazzata perché di clienti non se ne intravedono proprio. La speranza di vedere arrivare un cliente non c´è più perché ormai anche la commessa più distratta ha capito che la gente ha altro per la testa, e che van benissimo i vestiti dell´anno scorso.
Dopo di che il settore probabilmente resisterà, e anche a lungo. E questo per una serie di ragioni. La prima è che la moda italiana non è un´attività industriale vera e propria. E´ un affare tutto disseminato fra centinaia di laboratori e piccole fabbriche in Lombardia, Emilia, Veneto e nel Sud. Ognuno di questi soggetti fa un pezzettino dell´abito che poi apparirà in vetrina proposto dalla griffe più o meno famosa.
E è proprio su queste centinaia di laboratori e fabbriche che si scaricherà (e si sta già scaricando) la crisi. Ma sono realtà produttive lontane dalle luci di Milano e di Roma, e quindi non le vediamo. Rappresentano il cuore di una sorta di crisi invisibile. Ma esiste e ha già cominciato a fare le prime vittime.
Sembrerebbe, quindi, che la moda italiana sia in grado di cavarsela con il solo sacrificio della It Holding e del cavalier Perna: gli altri, le griffe più famose, scaricheranno la loro crisi in provincia (ordinando meno capi, pagando più lentamente, ecc.). Ma, forse, non sarà proprio così.
Anche le griffe più solide hanno infatti un punto debole. E è esattamente quello che si vede: i negozi. Qui sono le regole stesse della moda che stanno creando i guai più pesanti. Fino a ieri, infatti, c´erano due assiomi, due verità assolute nel mondo delle griffe. Per fare soldi bisognava avere tanti negozi diretti, controllati cioè direttamente, e bisognava che questi negozi fossero nelle strade più esclusive (e care) delle capitali mondiali. E, naturalmente, il personale doveva essere bello, elegante, ben addestrato e pagato di conseguenza.
E oggi il mondo delle grandi griffe ha decine di migliaia di persone (rigorosamente vestite di nero, ben pettinate e ben truccate) che ogni mattina vanno a aprire negozi in Rodeo Drive o in Montena-poleone, sistemano lo champagne in frigorifero per i clienti di qualità (e spendaccioni). Ma sanno già che non arriverà nessuno. E tutta questa gente va pagata, come vanno pagati gli affitti.
La moda italiana, cioè, ha questo doppio volto. Dal lato della produzione è l´insieme più flessibile che ci sia (è tutto sparso qui e là, sa il cielo dove). Ma sul lato della vendita, è come un monolite di cemento armato. Per farsi largo tutti hanno dovuto mettere su degli apparati espositivi che sono fra i più costosi del mondo, e che oggi non servono praticamente a niente.
D´altra parte, non è nemmeno semplice ridimensionarsi. Come si fa a chiudere la boutique in Rodeo Drive a Los Angeles? Nel piccolo mondo pettegolo della moda, la notizia suonerebbe come una campana a morto, i clienti diventerebbe ancora meno, e le banche si farebbero ancora più insistenti nel voler vedere i conti veri. E allora si resiste (qualcuno ha fatto tanti soldi, in passato, che potrebbe stare lì, fermo, anche per un decennio, ma non sono tutti così). Quelli bravi, che possono reggere l´urto della crisi senza battere ciglio sono tre o quattro in tutto. E alcuni di essi sono stranieri (i soliti Hérmés e Vuitton).
In tutto questo dibattersi (fra crisi che si vedono e non si vedono) la speranza continua a esistere. La schiera di quelli che pensano che, comunque, la crisi passerà e che la moda tornerà a essere un grande affare si allarga sempre. Proprio in questi giorni Carlo Pambianco (il più diligente studioso italiano delle cose della moda) ha appena licenziato il suo ultimo studio: le 100 aziende modaiole che hanno i titoli e i requisiti per andare in Borsa. Il che, dati i tempi, è un po´ come fare l´elenco dei 100 uomini che hanno il fisico per andare sulla Luna. Sono anni che aspettiamo di vedere arrivare sul listino Armani e Prada. Ma non li abbiamo visti. E non li vedremo per chissà quanto ancora.