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 2009  febbraio 15 Domenica calendario

OBAMA E IL RISCHIO DEI DUE TEMPI

Sembra una tragedia greca dal lento incedere, destinata a sfociare in catastrofe. Ma cerchiamo di essere ottimisti: forse si rivelerà un’astuta mossa politica. Sto parlando del pacchetto di aiuti all’economia varato dal nuovo governo Obama negli Stati Uniti. Malgrado i numeri terrificanti, il pacchetto potrebbe rivelarsi troppo scarso e troppo timido per risolvere efficacemente i problemi economici e finanziari dell’America. Ci vorrà un secondo pacchetto, forse a seguito di una nuova crisi finanziaria, più in là nel 2009 o forse nel 2010.
Il posto migliore per cominciare è puntare il dito sui problemi economici degli Stati Uniti, che oggi subiscono il crollo della domanda privata, da parte delle famiglie e delle aziende, perché troppo spaventate da un eccessivo indebitamento e poco propense a spendere il loro reddito o a fare investimenti. Sono intimorite per la prospettiva della perdita del lavoro, ma anche perché le istituzioni fondamentali del sistema economico, le banche, lamentano enormi perdite e sono già – o quasi – fallite. Le difficoltà interne sono inoltre aggravate dalla recessione globale in atto, il che significa che l’America non è più in grado di togliersi dai guai grazie alle esportazioni (come le era riuscito nel 2007).
Per affrontare la situazione, il governo Obama ha escogitato metà della soluzione. Per rimpiazzare la domanda privata in picchiata, ha varato un enorme pacchetto di stimoli, che dopo molti dibattiti ed emendamenti è riuscito a superare le due Camere del Congresso. Il suo costo si aggira sui 787 miliardi di dollari, ma si tratta di un costo spalmato su un arco di dieci anni. In buona parte, comunque, verrà speso nei primi due anni. Siccome il Pil annuale americano ammonta a circa 14 trilioni di dollari, il pacchetto di stimoli equivale a circa il 2,5 per cento del Pil (ovvero 350 miliardi di dollari) per ciascuno di quegli anni.
La combinazione di spesa e di tagli fiscali aiuterà certamente ad attutire la recessione, ma produrrà crescita solo se il calo della domanda privata risulterà inferiore al 2,5 per ento del Pil, e questo sembra assai incerto.
Tuttavia, il pacchetto rappresenta la tattica giusta. Non ci sono alternative serie a un incremento della spesa pubblica e al corrispondente aumento del debito pubblico in queste circostanze. Ecco perché mi trovo in completo disaccordo con Giulio Tremonti quando scrive sul Corriere
che se il problema economico nasce da un eccessivo indebitamento, la cura non può prescrivere nuovi debiti. Il motivo del mio dissenso nasce dal fatto che il problema non è solamente un eccesso di debiti, quanto piuttosto un eccesso di debiti privati a rischio, e la perdita di fiducia in quel tipo di debito. Pertanto bisogna affrontarlo aumentando il debito pubblico, perché nell’attuale congiuntura di deflazione e crollo della domanda esso rappresenta un debito molto più sicuro.
Eppure, anche se è necessario ricorrere al debito pubblico, questo non basta. L’altra parte della soluzione deve essere la pulizia drastica e il ripristino del sistema bancario. Ed è questa parte della soluzione che il governo Obama non ha ritenuto opportuno varare in settimana.
Timothy Geithner, il nuovo ministro del Tesoro americano, ha proposto un piano per gestire il debito illiquido e non redditizio delle banche americane, ricorrendo a una combinazione di denaro pubblico e privato. Le cifre menzionate fanno impressione: subito 500 miliardi di dollari, per arrivare forse complessivamente a un trilione di dollari. Ma il piano non ha buone prospettive di successo. Il cosiddetto debito «tossico» è un problema, perché il mercato non sa decidere come valutarlo e pertanto le banche non sono in grado né di venderlo né di ammortizzarlo. Agli investitori quanto ai risparmiatori resta il grosso dubbio sulla reale situazione dei bilanci delle banche, e quindi sulla loro solvibilità.
Il piano pubblico+privato di Geithner rappresenta la speranza che con un coinvolgimento limitato del governo il mercato si riscuoterà e sarà finalmente pronto a investire capitali privati e a ripristinare il meccanismo dei prezzi.
Ma in un momento così rischioso sul versante economico, non basta la speranza. Una soluzione reale e decisiva sarebbe quella di nazionalizzare le banche americane più grandi e più malconce, accettando di lasciar fallire quelle più piccole e meno importanti.
La nazionalizzazione consentirebbe di trattare i debiti tossici come transazione interna, senza ricorrere al meccanismo dei prezzi basato sul mercato. Ma soprattutto riuscirebbe a convincere le famiglie, le aziende e gli investitori che, nel sistema bancario, il peggio è davvero passato.
Una mossa simile, però, potrebbe essere rischiosa sul fronte politico. Il Congresso dovrebbe accettare di ricorrere a un bel po’ di denaro pubblico per acquistare e salvare le grandi banche. Prima o poi, questa soluzione si rivelerebbe economica, perché si potrebbero successivamente vendere i debiti tossici e privatizzare le banche così ripulite. Ma il denaro necessario per l’operazione rischia di suscitare un vespaio di polemiche. Il governo Obama è stato forse troppo timido nell’avanzare anche questa richiesta, accanto al grosso pacchetto di stimoli. Oppure reputa che sarà più facile presentarla in un secondo momento.
Questa potrebbe rivelarsi una mossa politica assai astuta. Ma che sia una mossa astuta anche sul versante economico, ho i miei dubbi. Quando il governo chiederà questi soldi, i costi saranno certamente lievitati e l’economia forse ancor più indebolita.