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 2009  febbraio 16 Lunedì calendario

TONI NEGRI, IL MIO PADRE BAMBINO

«Nell’estate del ’73 si è sciolto Potere Operaio e c’è stata una grande festa in campagna per i quarant’anni di Toni. C’erano tavolate e tavolate piene di gente, un grande fuoco, mio padre molto ubriaco che rideva, circondato dai compagni; sembrava una di quelle feste all’ultima pagina di Asterix. Io li guardavo incuriosita, era il mondo all’incontrario, come in quei vecchi quadretti che aveva mio nonno, dove il capretto faceva arrosto l’uomo: il papà si divertiva molto più di me, come se lui fosse il bambino e io quella seria, in una vita noiosa e senza gioia».
Il mondo all’incontrario lo descrive con rara efficacia Anna Negri, primogenita del filosofo e teorico dell’Autonomia Toni Negri, in un’autobiografia carica di passione e a volte di risentimento che uscirà il 12 marzo da Feltrinelli:
Con il piede impigliato nella storia. Metà cronaca famigliare, metà racconto degli anni della contestazione e del terrorismo, visti con gli occhi di una ragazzina costretta a fare troppo presto i conti con la realtà, questo libro confessione va dal 1969, anno della strage di piazza Fontana, al 1983, quando Negri, eletto deputato nelle liste radicali, venne scarcerato e fuggì in Francia per cominciare un esilio di quattordici anni.
Anna, che oggi è un’affermata regista cinematografica, aveva cinque anni e suo fratello Francesco due, quando il 12 dicembre 1969 nella sua casa di Padova arrivò la prima perquisizione. Il papà non c’era, tra i compagni era circolata la voce che quella notte era meglio dormire fuori, e i due bambini non si resero conto di nulla. Assistettero invece all’irruzione degli agenti nell’appartamento milanese all’indomani dell’omicidio Custra, il brigadiere di 22 anni ucciso il 14 maggio 1977 in via De Amicis. Quel giorno, durante la perquisizione in casa Negri, fu fermato Maurice Bignami, che aveva con sé un mazzo di carte di identità bianche. Anna non aveva il coraggio di chiedere che cosa c’entrasse il padre con l’omicidio Custra, «ma non saperlo» scrive, «era molto peggio. Era come la parola "P38": appena qualcuno la diceva mi sentivo chiamata in causa, colpevole, anche se non sapevo bene perché». In realtà il teorico dell’Autonomia operaia non era imputato di quell’assassinio ma trascorse un lungo periodo da latitante e la prima notte, su suggerimento della nonna, i genitori di Anna «sarebbero andati in un night, fino all’alba».
«La casa di Padova era un’isola incasinata e felice » così come sarebbe stata quella di Milano, un grande appartamento nel quartiere borghese tra via Boccaccio, piazza Virgilio e via Monti, un’andirivieni di compagni, intellettuali che spesso si fermavano a dormire. Ma il sogno della bambina Anna era la normalità: nelle «fantasie pastello» prima di addormentarsi «il papà era un mite professore di liceo, quasi timido, la mamma faceva la casalinga e portava le gonne, le calze bianche, i twin-set, e io e mio fratello eravamo bambini tranquilli e ben pettinati». Nella famiglia Negri dominava invece la dimensione politica, «il papà sempre in giro per l’Italia e l’Europa », la mamma impegnata nelle centocinquanta ore. Un impegno che diventava ossessione. Tanto da far scrivere ad Anna: eravamo bambini malati di realtà. Non che mancassero affetto e dimensione giocosa. Anzi, molte pagine descrivono un quadro felice con al centro il padre Toni «come un re e noi la sua corte», la madre innamoratissima, nevrotica e intelligente.
A volte invece si svolgevano scene come questa: durante una festa a Lugano, dove Toni Negri si era rifugiato per qualche mese, un esule cileno disse alla dodicenne Anna: lo sai che in Cile ragazzine della tua età sono state «violate»? «Non ero a mio agio, non volevo saperne di tutto quel dolore, non capivo perché doveva raccontarmi tutte quelle cose, insomma mi sentivo violata anch’io, nel senso italiano del termine». L’ossessione politica disturbava quei bambini: per esempio durante un viaggio a Londra con amici la mamma di Anna si era messa a rubare nei negozi, gettando nel panico i ragazzi.
Il sogno di normalità naufraga totalmente il 7 aprile 1979 quando Toni Negri viene arrestato assieme a Luciano Ferrari Bravo e ad altri compagni dell’Autonomia con l’accusa di «associazione sovversiva» e «insurrezione armata contro lo Stato » che porterà al processo nel 1984 con una condanna a trent’anni. Ma nel racconto di Anna non è tanto centrale la contestazione del «teorema Calogero», dal nome del pubblico ministero che aveva formulato le accuse, quanto l’impegno della famiglia nello stare vicino al padre, seguendolo nella dolorosa peregrinazione carceraria: Roma, Palmi, Trani, Forlì. Una famiglia esplosa ritrova l’unità attorno al padre ferito, una coppia in crisi si riconcilia. Il centro di queste pagine è la madre di Anna, che sacrifica tutta se stessa per aiutare il marito.
Il racconto privato di un’adolescenza inquieta negli anni Settanta a Milano si alterna con la descrizione di fatti e personaggi pubblici legati al padre: dal rapimento Moro all’omicidio di Walter Tobagi. Anna ha parole particolarmente dure per il terrorista pentito Marco Barbone: «C’era qualcosa di molto violento nel diventare pentiti: con la stessa mancanza di scrupoli con cui avevano ammazzato, ora per salvarsi mandavano in galera gente che magari non c’entrava affatto. Per poi, anni dopo, farsi sposare nel Duomo di Milano dal cardinal Martini».
Il libro si chiude con la fuga in Francia del padre, la scoperta che questi a Parigi aspetta una figlia dalla nuova compagna, Donatella Ratti, il dolore della madre. Ma soprattutto con la condanna di una generazione che aveva sacrificato tutto alla politica. Rifacendosi a un discorso pronunciato da Toni Negri in Parlamento Anna scrive: «Pensavo all’Inno di Venere che anche mio padre non aveva saputo ascoltare, non quello filosofico ma quello dei suoi figli che non aveva protetto. Proprio come tutta la classe politica italiana, che è Crono che mangia i suoi figli, e l’Italia è una società dove è impossibile crescere». Anna si sente parte lesa della storia: «Ci sono ferite che non si rimarginano perché è morta tanta gente, sono morti i ragazzi in manifestazione, sono morte le vittime del terrorismo, quelle delle bombe, ma sono morti anche tanti poliziotti, e sono morti tanti operai, come quelli che lavoravano alla Montedison». Figli di Crono anche «i compagni finiti ingiustamente in prigione che sono morti giovani di tumore, e tanti figli di compagni ingiustamente inquisiti che crescendo sono stati male: tentati suicidi, droghe, depressioni, e lo stesso si può dire per i figli delle vittime. E allora ti accorgi che quando si tratta di figli non ci sono vittime o carnefici, siamo tutti bambini traumatizzati da una Storia che non ci apparteneva e non abbiamo scelto».