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 2009  febbraio 15 Domenica calendario

MCENROE, I 50 ANNI DEL DIVINO E TERRIBILE GENIO DEL TENNIS

«Keep an eye on my boy». «Date un´occhiata al mio ragazzo, che viene per la prima volta in Europa».
A parlar così, dopo un doppietto amichevole in quel di Dallas, era un bel tipo roseo e pacioso, un famoso avvocato di New York, ci dissero, a me e a Tommasi. John McEnroe, si chiamava, e aveva un figlio tennista, pure lui John, ancora junior, che partecipava a un torneino di esibizione, prologo alle famose finali del World Championship Tennis, una sorta di contro-Master creato da un´organizzazione miliardaria che aveva requisito quattro mesi di calendario tennistico. Andammo a dargli un´occhiata per buona e educazione, al piccolo, e dopo un game ci guardammo con gli occhi sbarrati, e dopo due games Tommasi disse: «Glielo telefoni tu a Sergio Tacchini che può firmare il prossimo campione del mondo?».
Detto fatto. Non è che, in quei giorni del 1977, non ci fossero in circolazione dei buoni tennisti. A Dallas, a giocarsela, c´era gente come Borg, Connors, Gerulaitis e compagnia. Ma quel tipetto tutto tic, sotto i riccioloni già mostrava le stigmate del predestinato. Aveva, soprattutto, una manina benedetta, e, per di più, mancina: il che significa, un +15 di handicap nei games di servizio, secondo il mio immodesto parere. Incuriositi ancor prima che inteneriti, demmo un´occhiata al ragazzo, al Roland Garros. La terra, capimmo subito, non era il suo habitat. E tuttavia, in coppia con una ragazza newyorchese cresciuta a Milano, Mary Carrillo, riuscì a vincere il misto, che era ancora una gara seria. Ma il bello doveva venire.
Tre settimane più tardi, a Wimbledon, Mac sarebbe uscito dalla giungla delle qualificazioni per farsi largo sino alle semifinali: un record mai verificatosi in cent´anni di gara. Suo all´inizio incredulo avversario era niente meno che Bjorn Borg. Dopo il match, al solito ingrugnato, poco disposto alla conversazione, in una parola sgradevole, Mac ebbe ad affermare che il suo maggior torto era stato di non immaginare una possibile vittoria. I colleghi inglesi presero a definirlo superbrat, e cioè supermoccioso. Una viva comprensione per quel suo tanto amabile papà mi trattenne dal soprannominarlo, in milanese, Il Bauscia, come mi accadde di fare nel prosieguo della sua carriera: Bauscia, certo, ma alternante al McJesus dei momenti irresistibili.
Tra i molti sorprendenti aspetti delle sue affermazioni, par giusto ricordare che quel fenomeno ancora sedeva sui banchi della Università di Stanford, a bigiare lezioni della facoltà di Legge, ma a vincervi il titolo nazionale Ncaa. Fu Papà John a decidere l´abbandono della carriera forense a vantaggio di quella tennistica.
Si era così giunti al 1979, e Superbrat prese a vincere, dal Master spostato a gennaio, alle finali Wct di Dallas, allo U.S. Open, secondo anno di recite sul nuovo palcoscenico di Flushing Meadows. A Dallas, quelle sue parabole da battitore di baseball, quei suoi divini schiaffi volanti da metà campo, avrebbero colpito la coppia sin lì dominante, sia Connors che Borg, l´uno schiumante veleno, l´altro addirittura attonito. Fu allora che, grazie ad una intelligenza che filtrava ben oltre il rettangolo di gioco, Arthur Ashe ebbe ad affermare: «Borg e Connors vi prendono a colpi d´ascia, Mac vi lavora con uno stiletto, e in pochi minuti buttate sangue da cento ferite». Per due anni Mac rimase nella scia di un Borg sempre più inquieto, soprattutto dopo il mitico tiebreak del quarto set della finale di Wimbledon 1980, quel 18 a 16 per Mac, quel tiebreak di 34 minuti per che divenne una specie di Enfants du Paradis del gioco, proposto e riproposto da tutte le televisioni del mondo. E, nel 1981, la regolarità di un pur grande Borg non bastò più.
L´uomo John, che domani raggiunge i suoi cinquant´anni, non fu, purtroppo, all´altezza dello straordinario tennista. Una guerriglia continua con la buona educazione e il rispetto del prossimo lo spinsero ad alcuni record negativi. Nel corso di un match del 1985 contro lo jugoslavo Zivojinovic sputò in viso al giudice arbitro di Wimbledon una di quelle che si chiamano four letters words, una parolaccia, e la BBC la diffuse in tutto il mondo. Per la prima volta lo All England Club espulse un vincitore dal privilegiato elenco dei suoi soci onorari. E si potrebbe continuare, addirittura con la cacciata dal campo allo Australian Open del �90, durante una partita con lo svedese Pernfors, per accennare soltanto di passata a vicende matrimoniali sado nei riguardi della prima moglie, l´attrice Tatum O´Neal, ora sostituita con Patty Smith. Ma non sembra giusto occuparsi dei detriti intimi di un genio, di qualcuno che ha fatto di un gioco un´arte. L´anno passato, nel vederlo sul vecchio centrale del Foro Italico, mentre giocava un match veterani, mi ha attraversato la mente, dopo un suo tocco, una pennellata di Boccioni. Qualcosa che mai avevo ammirato, in uno dei primi dipinti futuristi. E, insieme all´immagine, mi ha visitato un titolo dell´amato Oreste Del Buono, per il suo libro su Gianni Rivera. Un tocco in più.
Qualcosa che mai avevamo visto, né, temo, rivedremo.