Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2009  febbraio 15 Domenica calendario

LA CADUTA DEL CONSENSO

Poco ci si aspettava dalla riunione romana dei G7 e poco ne è uscito. Tutti hanno avuto modo di incontrare personalmente Tim Geithner, l´uomo dell´economia nel nuovo team Obama. Per il resto, sostanzialmente sono stati ribaditi gli impegni già annunciati a novembre, in attesa della riunione di Londra di aprile, che sarà allargata anche alle grandi potenze industriali dei paesi emergenti, come Cina e India. C´è da chiedersi se simili vertici, che finiscono per creare aspettative, siano utili, quando le aspettative vengono sistematicamente deluse.
Perché la crisi va più in fretta dei vertici politici: ieri qualche ministro ha avuto parole d´ottimismo, lasciando intendere che potremmo essere già vicini al fondo della recessione. Ma i più (il direttore generale del Fondo monetario internazionale, Dominique Strauss-Kahn, per esempio) pensano, invece, che il peggio debba ancora venire e che la seconda metà del 2009 sarà peggiore della prima. E non c´è solo una crisi drammatica per la velocità con cui si è estesa a tutto il mondo e per il declino verticale verso cui sta spingendo tutti gli indicatori, facendo balenare l´immagine di un´economia globale non solo in recessione, ma sull´orlo di una depressione stile anni �30. C´è anche una crisi politica o, se volete, politico-filosofica, che sta rapidamente incrinando il consenso generale su cui si è retta l´economia internazionale degli ultimi 30 anni e che è il collante della globalizzazione.
Il documento finale della riunione dei G7 ha parole molto decise contro il risorgere di tendenze protezionistiche. Ma quell´impegno fa a pugni con quanto abbiamo visto e sentito nelle ultime settimane. Il "Buy American", compra americano, contenuto nel testo della legge americana per stimolare l´economia, dove si chiede di cercare il "made in Usa", nella realizzazione dei progetti di nuove infrastrutture. Il "British jobs for British workers", posti di lavoro britannici per lavoratori britannici, del premier inglese Gordon Brown. I soldi dati dal presidente francese, Nicolas Sarkozy, alle aziende automobilistiche di casa, perché i posti di lavoro non li taglino in Francia, ma, ad esempio, nella Repubblica Ceca (un altro paese dell´Unione europea). Ognuna di queste indicazioni è stata e sarà, probabilmente, ammorbidita, rilavorata, ritagliata, per frenarne l´impatto. L´impegno anti-protezionista di Roma è stato certamente preso in buona fede: bisognerà vedere, però, come verrà reinterpretato, una volta tornati a casa propria. In ogni caso, un messaggio è stato lanciato, dalle capitali più importanti dell´Occidente. Per chi crede alle virtù del libero commercio e ritiene il protezionismo una trappola, che, fra ritorsioni e guerre commerciali, può accelerare la spirale della depressione, si tratta di un messaggio pericoloso. Sia perché ha destato echi, nelle opinioni pubbliche interne, che potrebbe non essere facile contenere. Sia perché può essere facilmente colto dai grandi paesi emergenti, che sono oggi un ingranaggio cruciale dell´economia globale.
La crisi attuale, comunque, nasce nella finanza e il documento finale spende un impegno risoluto a rilanciare il credito e a stabilizzare il sistema finanziario internazionale. Si tratta, tuttavia, di capire di cosa stiamo parlando. La paralisi del credito degli ultimi mesi va vista in relazione con il boom del credito degli ultimi anni, che ha reso, in larga misura, possibile il contemporaneo boom dell´economia internazionale, adesso spentosi nella recessione. Quel boom era alimentato dai fiumi di liquidità, messi a disposizione dal "sistema del credito ombra", ovvero gli attori "non banche", e non regolati come banche. Tim Geithner, nella sua precedente incarnazione come presidente della Federal Reserve di New York, ha provato a misurarlo. Fra hedge funds, cartolarizzazioni, obbligazioni immobiliari, attivi delle grandi banche di investimento (come Lehman Brothers, ma anche Morgan Stanley), Geithner calcola un volume di crediti di 10 mila miliardi di dollari. Uguale a quello dell´intero sistema bancario vero e proprio americano. L´attuale paralisi del credito è figlia, anche, dell´implosione di quel sistema-ombra. I G7 insistono, giustamente, sulla necessità di regolarlo, per evitare gli eccessi che ci hanno portato alla crisi attuale. Ma, fino a che queste regole non ci saranno (e c´è qualche dubbio che arrivino per il vertice di aprile a Londra), quel sistema non potrà ripartire. In ogni caso, bisogna sapere che, con regole, doverosamente, più stringenti, non potrà generare la liquidità degli anni scorsi.
La paralisi del credito risale, comunque, anche alla paralisi delle banche. Il documento dei G7 sottolinea che il sistema del credito ordinario non si rimetterà in moto, fino a che non ci sarà "trasparenza" nei bilanci delle banche, in particolare la quantità di titoli avvelenati, legati al sistema-ombra, che tengono in cassaforte. E´ un appello che sentiamo, ormai, da settembre, ma, finora, si è visto poco. Il problema è, forse, ancor più europeo che americano. Uno studio del Fmi sottolinea che le banche europee detengono titoli tossici per un ammontare pari al 75 per cento del volume nelle mani delle banche americane. Tuttavia, finora, le banche Usa hanno effettuato svalutazioni degli attivi per 738 miliardi di dollari, quelle europee solo per 294 miliardi. C´è un buco, in Europa, che ancora deve emergere. Il punto è cruciale se si considera la situazione delle banche americane. Secondo Nouriel Roubini, le banche Usa hanno in corpo perdite su crediti per 1.800 miliardi di dollari, ma capitale solo per 1.400 miliardi. Di fatto, sono sotto per 400 miliardi di dollari o, comunque, considerando le previste iniezioni di capitale fresco pubblico, a capitale zero. Qual è la situazione delle banche europee? Che salvataggi sono in vista? Il documento dei G7 lascia la gestione del problema ai singoli paesi. Una conclusione, politicamente, probabilmente inevitabile, ma che non aiuta a diradare la nebbia.
Gli Stati Uniti nazionalizzeranno il grosso del sistema bancario? Nel piano Geithner, questo, oggi, non c´è. Ma, secondo Roubini - ad oggi, il miglior interprete della crisi - questo è un espediente politico. Un intervento del genere sarebbe politicamente possibile solo se l´insolvenza delle banche diventasse generalizzata, mentre, oggi, sempre secondo Roubini, riguarda solo alcuni istituti. Ma se la situazione peggiorasse e le insolvenze si allargassero, conclude, Geithner avrebbe la strada spianata per una nazionalizzazione temporanea. Andrà così? Nessuno lo sa e, probabilmente, non lo saprà in tempo per il vertice di aprile. L´incertezza è destinata a continuare.