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 2009  febbraio 13 Venerdì calendario

E SE PROVASSIMO CON LA «GOOD BANK»


Dopo essere stata suggerita da alcune banche d’investimento, che, pur fallite o quasi, restano un buon giacimento di sapienza tecnica, la bad bank viene rilanciata nel piano Geithner per salvare il sistema finanziario americano. Con questa espressione gergale si designa la società-discarica dove vengono concentrati titoli, crediti e partecipazioni di cattiva qualità così da alleggerire la banca madre. L’idea è cara anche al ministro dell’Economia, Giulio Tremonti. Del resto, l’Italia ha una precisa esperienza in materia: il Banco di Napoli degli anni Novanta.
Ricordate? Il Banco non poteva portare i libri in tribunale, perché da noi, al massimo, le banche vengono messe in liquidazione coatta amministrativa.
Ma il Banco era un Istituto di diritto pubblico, e il Tesoro non poteva spingersi a tanto su una sua azienda. I malanni del Banco vennero così scaricati su una bad bank, la Sga, che funzionò, ma con la Banca d’Italia a coprirne via via le perdite per 4 miliardi di euro.
L’idea della «banca cattiva» non è nuova nemmeno negli Usa. Compare già nella prima versione del piano Paulson, secondo la quale un soggetto pubblico, con una dote di 700 miliardi di dollari, avrebbe acquistato titoli tossici allo scopo di restituire credibilità al sistema bancario. Ma la cosa non è decollata per ragioni politiche (non si usano i soldi dei contribuenti per salvare le banche e i loro soci) e per ragioni tecniche (non si capisce come selezionare i titoli tossici e fissarne il prezzo e a quali condizioni generali subordinare l’aiuto). La Federal Reserve si è così presa sui suoi libri qualche centinaio di miliardi di titoli illiquidi, ma come contropartita di prestiti a breve alle banche. Bad bank di sistema sì, ma limitata, casuale e provvisoria. Dunque insufficiente.
L’alternativa adottata negli Usa e nel Regno Unito, ovvero l’intervento dello Stato nel capitale delle banche con alta remunerazione ma senza pieni diritti di voto, non ha risolto il problema.
Esemplare il caso della Royal Bank of Scotland dove il Tesoro si è infine rassegnato a convertire le sue azioni privilegiate ad alto (e impossibile) reddito in azioni ordinarie a reddito incerto e minore elevando la sua partecipazione al 70 per cento.
Senonché nemmeno la nazionalizzazione dichiarata ha fatto rifiorire la fiducia a Londra così come, al momento, il piano Geithner non sta avendo esiti migliori a New York.
Certo, l’ambizione di convogliare il capitale privato nella nuova bad bank
di sistema affascina, perché punta ad aumentarne le risorse fino a 2 mila miliardi. Ma chi pagherà il saldo finale e chi, nel frattempo, fornirà le garanzie ai privati finanziatori? La risposta è sempre la stessa: il contribuente. E allora è giunto il momento di chiedersi se, al fine di ricostruire la fiducia, il pubblico denaro non possa essere speso in modo più efficiente: se, invece di ricapitalizzare le banche in dissesto a o di espungerne i titoli tossici in una opaca discarica di sistema, non si debbano costruire good bank
lasciando a procedure liquidatorie le case madri senza virtù.
In fondo, questo fece l’Italia nel 1982 con il Banco Ambrosiano. Il banchiere Roberto Calvi era stato trovato appeso a un ponte sul Tamigi. Il Banco era saltato. Ma accanto al marcio non mancava il buono. Si costituì perciò il Nuovo Banco Ambrosiano che, con azionisti diversi e amministratori e manager non compromessi con il passato, rilevò dal vecchio in liquidazione il marchio, gli sportelli e tutti i rapporti bancari italiani. Quella soluzione, fortemente voluta dal governatore Carlo Azeglio Ciampi e dal ministro del Tesoro, Nino Andreatta, diede inizio a una storia che ha portato all’attuale Intesa Sanpaolo. Gli azionisti del vecchio Banco non ebbero nulla. Il salvataggio venne effettuato da soggetti di diritto privato. Alto fu il grado di trasparenza. Ora in Italia nessuna banca è nelle condizioni del Banco Ambrosiano o del Banco di Napoli. Questo afferma la Vigilanza. E, non avendo nessuno portato elementi contrari in linea di fatto, ipotizzare da parte della politica situazioni peggiori sarebbe irresponsabile. In Italia, si potrebbero forse immaginare alcune bad bank,
ma a carico delle banche medesime, visto che nessuno invoca nazionalizzazioni. Ragionando invece su quanto accade all’estero, si può osservare come perfino le nazionalizzazioni finora eseguite abbiano tentato di salvare il salvabile dell’azionariato privato con i soldi dei contribuenti. Ne valeva la pena?
In effetti, la procedura della good bank segnerebbe una rottura radicale. Identificare il buono e dargli un prezzo di mercato per venderlo, a questo punto, allo Stato sarebbe assai meno arduo che fissare un prezzo di mercato per i titoli tossici.
Probabilmente l’incasso della banca madre, che resta con il peggio, non compenserà le perdite future sulla graduale liquidazione dei titoli che l’hanno resa insolvente. Volendo, lo Stato potrebbe restituire al soggetto in liquidazione il guadagno che gli verrà, al netto del costo del capitale, dalla privatizzazione della good bank, se e quando fosse possibile. Naturalmente, un conto è un’operazione singola come fu il Nuovo Banco Ambrosiano e un altro, ben più complicato conto sarebbe una serie di interventi come quella che oggi si richiederebbe. E però le soluzioni, tentate nei Paesi a maggior rischio bancario dall’agosto 2007 in qua, non hanno funzionato.
Dopo tanta inconcludenza, meglio tornare al piano Paulson prima maniera sia pur gonfiato o imparare qualcosa da un antico successo italiano?