Alberto Mattioli, La Stampa 13/2/2009, 13 febbraio 2009
PER CHI MACINA IL MULINO
Il palazzo patrizio di Strada Maggiore che ospita la sede del Mulino è come Bologna: bello, ma bisognoso di manutenzione. anche quel che pensano dell’Associazione diversi suoi soci. Il Mulino, come accade spesso, è sui giornali ma, come non accade quasi mai, perché sono venute a galla con inusitata franchezza tensioni interne, divergenze politiche e antipatie personali. La bomba è esplosa all’ultima assemblea per rinnovare il Direttivo, il 31 gennaio. Detonatore, la notizia che la Laterza avrebbe organizzato proprio a Bologna, in novembre, il suo Festival della politica. Le reazioni dei soci hanno oscillato dalla critica («Dovevamo farlo noi») all’ironia («E allora andiamo a Bari a fare un Festival della sociologia»). In realtà, la sagra della politica doveva tenersi a Reggio Emilia, ma la Laterza ha giocato di sponda con Fabio Roversi-Monaco, potentissimo ex rettore dell’Università e presidente della Fondazione Cassa di Risparmio che, dicono i boatos cittadini, non vedeva l’ora di fare il Festival per fare la festa ai mulinanti, colpevoli di averlo sempre snobbato. Sarà. Però il colpo per l’immagine del Mulino, ammette qualcuno, «è doloroso».
Non sono solo diatribe di intellettuali sofisticati con la cattedra all’Università e la firma sotto i fondi dei maggiori quotidiani. Il Mulino è una potenza. L’Associazione, un sinedrio di 78 soci cooptati, governa un impero economico e culturale: la maggior casa editrice universitaria del Paese, una rivista, l’Istituto Cattaneo, la Biblioteca. E mai come nel caso di questa rivista le copie vendute non si contano ma si pesano. Perché il Mulino non si rivolge al pubblico, ma alle élite. Tanto che fra i soci ci sono due ex presidenti del Consiglio (Prodi e Amato) e un po’ di ex ministri. Tutti ex perché l’Associazione è da sempre su posizioni riformiste e Berlusconi sta al Mulino come i tortellini alla panna ai bolognesi: si sa che esistono, ma è sconveniente anche solo parlarne, figuriamoci assaggiarli.
Sulla rissa, nelle austere stanze tappezzate di libri si tende a troncare e sopire: «Fronda? Aventino? Non esageriamo - sospira Bruno Simili, segretario dell’Associazione e caporedattore della rivista, dall’inizio di quest’anno diretta da Piero Ignazi -. Non è la prima volta che al Mulino ci si confronta». Ma, dicono, raramente con una foga che ha sconcertato i soci più agé, preoccupatissimi perché alle due del pomeriggio si litigava ancora e la colazione si allontanava... «Diciamo - spiega gentilissimo Simili - che si confrontano due squadre: una favorevole allo status quo, l’altra che chiede maggior vivacità. Ma il restyling della rivista è già fatto. Uscirà il 26, non diventerà certo Chi, però avrà articoli più brevi, una grafica più accattivante, nuove rubriche. E rivitalizzeremo il sito Internet». «Il Festival? Nessun problema - chiosa Ugo Berti -. Ne avevamo parlato, poi si è deciso di non farlo. Come non facciamo i cd-rom o un quotidiano. Per carità: massimo rispetto per chi sceglie queste forme, chiamiamole così, d’intrattenimento colto. Ma non è lo stile Mulino. Né ci disturba che tra gli organizzatori del Festival ci siano due nostri soci come Giuliano Amato e Paolo Pombeni». Ma, causa Festival, la tradizionale lecture mulinesca dovrà essere anticipata a ottobre.
Resta da capire cosa contestino i contestatori. Capofila, con Gianfranco Pasquino e Angelo Panebianco, è lo storico Ernesto Galli della Loggia: «La distinzione non è fra destra e sinistra. Il punto è che il Mulino deve tornare a discutere, prendendo atto delle divisioni, visto che ci sono. Ma la discussione è sacrificata alla compattezza. Prendiamo la rivista: oggi è pallida, convenzionale, non ha smalto né visibilità». Già: come in passato, attaccano Galli e Panebianco, il «duo fulgens» secondo l’acida definizione di chi dentro non li ama perché non ostili o meno ostili degli altri al centrodestra. E, anche se Ricardo Levi, portavoce ed esegeta del Professore, spiega che «il prodismo non l’ha certo inventato il Mulino», resta il sospetto che la fine del prodismo abbia trascinato con sé anche il suo pensatoio. Galli non ci sta: «Fosse stata almeno la voce del prodismo, la rivista avrebbe avuto più visibilità. Invece non è che nelle redazioni dei giornali la si aspettasse con ansia per capire cosa avrebbe fatto il governo. Ci sono degli argomenti che non vengono affrontati semplicemente perché si ha paura che spacchino il gruppo. Pensi all’affare Eluana. Sono temi decisivi, sui quali si appassiona il Paese. E il Mulino tace. Pensiamo ai temi, centrali, del Mezzogiorno o dell’uso politico della storia. Noi non ci siamo mai. Così finisce l’influenza del Mulino». Ma il rinnovamento, dicono, è in atto: «Sì, con il vecchio gruppo dirigente. Tipicamente italiano: si cambia rotta, ma con gli stessi piloti. Grazie, ma non ci credo».
La parola alla difesa. Edmondo Berselli, direttore uscente della rivista, la prende larga: «Prima il maggioritario e poi la discesa in campo di Prodi hanno esasperato la spaccatura fra una maggioranza tutta orientata verso il centro-sinistra, benché espressione di storie diverse (liberali non laicisti, socialisti non marxisti, cattolici non integralisti, ma tutti riformisti) e una minoranza pencolante dall’altra parte». Rancori e dissapori «che, intendiamoci, non sono solo personalismi, ma divergenze culturali e politiche» sono esplosi quando è morto Giovanni Evangelisti, per quarant’anni anima del Mulino, «un grande - racconta Berselli -, che sapeva comandare facendo finta che comandassero gli altri, uno degli uomini più importanti e meno conosciuti nella cultura italiana del Dopoguerra», insomma un Cuccia del pensiero che nei rari casi in cui concedeva interviste rifiutava di farsi fotografare. Però, Berselli, se la rivista non piace più, sotto accusa è lei... «Ognuno ha la sua sensibilità. Io ho fatto una rivista che parlava di politica, perché sei anni fa la bioetica era al massimo un argomento utile per conquistare una cattedra. E poi per scrivere di Mezzogiorno o dell’uso politico della storia bastava alzare un dito e proporlo. L’influenza del Mulino è diminuita? Vero. Ma perché sono aumentati i ritmi della politica, che oggi brucia gli argomenti in maniera sempre più rapida. E poi questa politica non sa che farsene, della cultura...».
Insomma, fra le due tesi che squassano il Mulino la sintesi è ancora lontana. Adesso il Direttivo (Panebianco è rimasto fuori per un voto) eleggerà il nuovo presidente. Profetizza Berselli: «Lo dico da semplice socio: il Mulino deve avere un orientamento che non gli daranno le liturgie aziendali, ma una forte leadership culturale. O viene fuori un leader, o il Mulino continuerà a lavorare bene come ha sempre fatto. Ma conterà di meno».