lettera a Sergio Romano, Corriere della Sera 12/02/2009, 12 febbraio 2009
CONGEDO DI UN AMBASCIATORE SENZA PELI SULLA LINGUA
Non posso fare a meno di chiederle che cosa pensa delle dichiarazioni dell’ambasciatore degli Stati Uniti riportate sul Corriere negli scorsi giorni. proprio sicuro che in occasione del commiato dal Paese che lo ha ospitato, un diplomatico debba formulare critiche così severe, ancorché le stesse siano parzialmente fondate? Se l’Italia è in declino, gli Usa, che hanno messo nei guai l’economia mondiale e che hanno sconquassato gli equilibri del mondo arabo, in che stato sono? Eppure l’Italia ha condiviso negli ultimi anni alcune iniziative statunitensi tutt’altro che brillanti. possibile che Spogli sia così tanto indispettito dai nostri buoni rapporti con la Russia?
Salvatore Panarese
salvatore.panarese@ gmail.com
Caro Panarese,
non credo che i nostri rapporti con la Russia abbiano avuto qualche influenza nel discorso di commiato dell’ambasciatore degli Stati Uniti. Ronald Spogli non appartiene alla carriera diplomatica del Dipartimento di Stato. un finanziere di successo, creatore d’una società d’investimenti che dall’anno della fondazione (1983) ha collocato il suo denaro in più di trenta aziende per una somma superiore ai dodici miliardi di dollari. Ma è anche una personalità del mondo accademico americano. Si è diplomato in storia all’Università di Stanford, ha ricevuto un master in amministrazione aziendale a Harvard, ha studiato a Firenze e a Perugia, ha lavorato a Milano nell’ambito d’una ricerca sugli effetti dell’immigrazione meridionale nelle province dell’Italia settentrionale. Ancora oggi è consulente dell’Università di Stanford e membro del consiglio direttivo dell’istituzione che assegna le borse di studio Fulbright, dal nome del senatore americano che favorì lo scambio, dopo la guerra, di parecchie migliaia di studenti europei e americani.
Fra i molti ambasciatori di origine italiana inviati a Roma dagli Stati Uniti negli ultimi decenni, Spogli è probabilmente quello che aveva, ancora prima del suo arrivo, una migliore conoscenza della società e dell’economia del Paese in cui avrebbe svolto le sue funzioni. possibile che questa familiarità e la fine del mandato gli abbiano dato la sensazione di potere parlare con la franchezza con cui si parla agli amici nel momento del congedo. Ma si era già espresso negli stessi termini in altre occasioni.
Il problema, caro Panarese, è che gli ambasciatori degli Stati Uniti non si sentono legati dalle norme che regolano abitualmente lo stile dei diplomatici di carriera. Sono scelti dal loro presidente, che spesso ricompensa in tal modo l’appoggio, anche finanziario, ricevuto durante la campagna elettorale. Hanno un filo diretto con la Casa Bianca. Si sentono investiti di una dignità e di un potere superiori a quelli dei colleghi di altri Paesi. E sono convinti di potersi permettere licenze che ad altri sarebbero negate. Molto dipende naturalmente dalla classe politica del Paese che li accoglie. Se l’ambasciatore si accorge che le sue dichiarazioni possono infastidire e irritare, si controlla e dà prova di maggiore discrezione. Se constata invece che quasi tutto gli è consentito e perdonato, si sente autorizzato a perseverare. In Italia le cattive abitudini sono cominciate con la signora Clare Boothe Luce, ambasciatore degli Stati Uniti a Roma dal 1953 al 1956. Teneva corte a Villa Taverna e a Palazzo Margherita, impartiva consigli che suonavano come ordini, soprattutto in materia di rapporti con il partito comunista, ammoniva, minacciava, strigliava. Vi furono uomini politici italiani (Gaetano Martino, Mario Scelba, Ezio Vanoni) che cercarono di frenare le sue intemperanze. Ma molti altri la corteggiarono, la lusingarono, ne sollecitavano i favori e cercarono di servirsi della sua influenza per i loro disegni. Non tutti gli ambasciatori americani in Italia hanno adottato i metodi e lo stile di Clare Boothe Luce. Ma quasi tutti hanno avuto la sensazione di poter fare da noi ciò che in altri Paesi sarebbe stato inopportuno e sconsigliabile.