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 2009  febbraio 18 Mercoledì calendario

MAMMA MIA

«Lo scorso marzo, due settimane dopo che mia madre era morta, Luca - il direttore -mi chiese un articolo sul dolore dell’orfano adulto. lo, che in quel non riuscivo a pensare ad altro. L’articolo uscì, mi scrissero molti lettori. Uno di loro, anonimo, lì: "Scrivi un libro, Daria"».

Un anno dopo, il libro esiste;e ha, come primo capitolo, proprio quell’articolo uscito su Vanity Fair. Si intitola Non vi lascerò orfani, in copertina ha tre mele messe in fila - mele imperfette, di campagna - ed è il primo che scrive Daria Bignardi, sebbene «scrivere» sia da sempre il suo mestiere.
Il merito è un po’ di questo giornale, ma soprattutto di sua mamma Giannarosa, che l’ha ispirato. Un’emiliana tanto sanguigna quanto ansiosa, che con la figlia ha sempre avuto un rapporto conflittuale, difficile. Quando improvvisamente muore, a 85 anni, per Daria è uno shock. Non riesce a pensare ad altro («Come quando sei innamorato di fresco») e sente il bisogno urgente di ritrovare le sue radici, dì ricostruire ruolì e rapporti all’interno della famiglia.
Il risultato è un libro autobiografico che, nonostante i capitoli di cronaca molto lucida del giorno della morte della madre, del funerale, del lutto, fa spesso sorridere per il registro ironico e lieve. Soprattutto nella parte «storica», quella dove la Bignardi racconta i primi vent’anni della sua vita, tra Ferrara e la casa di campagna a Castel San Pietro, nel Bolognese, dove si erano conoscìutì i suoi genitori; nella ricostruzione delle famiglie allargate e un po’ strambe dei nonni, Dante Bignardi, veterinario, e Oliviero Bianchi, direttore di banca; negli episodi che riguardano i gatti di casa (Mícíone e Alonzo), e nel lessico famìlìare. Perché, per l’orfano adulto, vivere il lutto può significare riappacificarsi con il proprio passato.

In copertina hai messo tre mele.
«Tre è un bel numero, verticale. Le mele potrebbero essere i miei genitori e mia sorella Donatella. O Luca (Sofri, il marito, ndr) e i bambini. Siamo ed eravamo in quattro: ci sono sempre altri tre in famiglia, oltre a me. Questo lìbro, anche se racconta una scomparsa, parla della vìta. Scrivendolo, ho capìto più che mai quanto il rapporto coi miei, benché faticoso e difficile, fosse di grande amore. E quanto nella vita, anche quando sì sbaglìa, sia sempre meglio dare che non dare, fare che non fare. Mia madre sbagliava molto ma, a modo suo, c’era sempre».

Avresti voluto capirlo prìma?
«L’ho sempre saputo. Dal conflitto, per me è sempre nato qualcosa di buono. L’importante è litigare con rispetto: io alla mamma sono sempre stata "devota". Non mi ha tanto aiutato, casomai contrastato, ma il suo contínuo tentare di opporsi alle mie scelte mi ha resa reattiva. Non voleva che vìaggiassi perché stava in ansia? E io giravo il mondo. Oggi che potrei partìre senza stress, non mi muovo più dì casa».

Non tutti reggono bene i conflitti: bísogna avere il carattere per sostenerli.
«Il carattere un po’ c’è, un po’ si costruisce. lo sembro una persona distaccata, ma mi emoziono moltissimo. E nelle relazioni con gli altri, semisconosciuti compresi, soffro e mi metto in gioco. Sono infantile, vorrei che tutti mi volessero bene. Soprattutto, che mi dessero sempre ragione. Anche per questo, dopo l’esame di maturìtà, avrei voluto andare a studiare lontano dai miei. Poi mio padre si ammalò e cominciò un periodo difficile».

A causa dei rapporto con tua madre?
«Sono figlia di anziani: mio padre era del ’14, mia madre del ’23. Quando ero adolescente, a causa della menopausa, l’ansia ossessiva della mamma si aggravò. La sua prìma vittima era papà, poi è toccato a me, in quanto figlia più piccola, avuta tardi, un "íncidente". Mi diceva sempre che aveva pianto tantissimo quando aveva scoperto di aspettarmí».

Sono cose che si possono dire a un figlio?
«A casa nostra era normale dire le cose schiettamente, belle o brutte che fossero, specialmente le brutte perché eravamo tutti ípercritici e verbalmente incontinentì. Però eravamo anche autoironicì, e ci prendevamo continuamente in giro. Mia madre con le sue ansie mi ha massacrata, ma credo di essere cresciuta con un po’ di senso dell’umorísmo. Per esempio, è un dato di fatto che ì nostri genitori fossero molto più bellì di me e mia sorella: alti, longilineí, lui con gli occhi azzurri, lei con un gran seno e le gambe lunghe. La mamma ci ha sempre detto simpaticamente, con il suo accento emìliano: "Proprio non capisco come da due come noi possiate essere venute fuori voi due". Eravamo píccoline, minute, neanche l’ombra delle sue forme o del suo portamento».

Scrivi anche che ti chiamava besctia. Ed egoiscta.
«Tutti i Bignardi lo erano, per lei. I Bianchi invece - ovvero la sua famiglia, dalla quale secondo lei mia sorella Donatella aveva "preso di più" erano i buoni d’animo; divideva le persone in queste due categorie. La mamma era molto umana, troppo umana, viscerale, irruente, eccessiva. Pretendeva il mio amore, e pretendeva di rovesciarmi addosso il suo, anche quando il solo modo di esprimerlo era lo "stare in pensiero". Tutta la vita, ogni mia scelta, quelle più importanti - vivere a Milano, fare la giornalista free lance, sposarmi due volte - ma anche le più piccole decisioni, che lei giudicava sempre incoscienti, la gettavano nell’ansia più nera».

Eppure sarà stata fiera dei tuoi successi.
«Lo era, ma quello è venuto molto più tardi. E comunque criticava sempre, per esempio non le piaceva mai come mi vestivo, diceva che non mi davo mai un po’ di tono, che dovevo smettere di mettermi "la divisa", e aveva anche ragione. Deprecava il fatto che alle Invasioni discutessi animatamente coi miei ospiti, diceva: "Non sta bene". Avrebbe preferito, e si può capire, che fossi rimasta a Ferrara e avessi fatto la professoressa, come mia sorella. Per reazione, ho passato buona parte della vita senza più pensare ai miei primi 20 anni, e senza tornare quasi mai nei luoghi d’infanzia. Scrivere il libro ha avuto anche l’effetto positivo di farmi ricordare l’allegria che ci circondava, l’allegria di una famiglia emiliana con pochi mezzi e grandi tradizioni, che si voleva bene e si godeva le piccole cose della vita. Da quando sono andata via di casa, la mia vita è stata più complicata, sempre di corsa, e finisce che tendi ad avere una visione del tuo passato più malinconica di quello che è stato realmente».

Da donna di sinistra, ti ha mai pesato il fatto di avere genitori monarchici, di destra?
«No, perché erano simpatici, aperti, per niente bigotti. E poi credo fossero diventati monarchici soprattutto per reazione ai loro padri, entrambi accaniti repubblicani. Mio nonno Oliviero scriveva sulla Voce Repubblicana, e mio nonno Dante ha vo;uto l’edera sulla sua tomba».

Hai capito, ricostruendo la sua vita, che cosa potrebbe aver originato l’ansia patologica di tua madre?
«Mi ha colpito scoprire che, da ragazza, era stata una persona diversa. Ho trovato lettere di sue compagne del liceo che la descrivono, oltre che mol-to bella, solare e simpaticissima. Poi, a 19 anni, aveva perso sua madre. E dopo aver sposato mio padre - Ludovico Bignardi, il figlio del veterìnario di Castel San Pietro - sì era trasferita da Bologna a Ferrara. Da studentessa di Lingue, insuperabile latinista, aveva rinunciato a laurearsi per incomprensioni con Carlo Bo, il professore che la doveva seguire nella tesi. Con la nascita di mìa sorella, il lavoro da maestra elementare a Ferrara dove non aveva arenti, la sua vita aveva finito per essere soffocata dalle incombenze domesti che, per le quali non era affatto portata, come non lo sono io: diceva sempre di essere "schíava della famiglia", la mia nascita dev’essere stata il colpo grazia per lei. Da solare era diventata ansiosa, pessimista, sempre nervosa».

Tuo padre non era presente in casa?
«Mio padre era buono, ma la sua priorità non era certo la famiglia. Era un uomo di inizio secolo, e si era fatto dieci anni di guerre. Galante con le signore, viaggiatore, edonista, era sempre in giro per lavoro con la sua Millecinque carica dì mangimi puzzolenti e lo stesso vestito un po’ stazzonato - "Devo star commodo, devo andare nelle stalle", diceva, mentre mia madre rivendicava orgogliosamente: "Ho un quarto di sangue nobile, io". Nel tempo libero il babbo si dedicava ai suoi mille svaghi: la caccia in Iugoslavia, le Terme di Montecatini, le cene del mercoledì sera con gli amici. Alla famìglia, anche economicamente, pensava mia madre, col suo modesto stipendio di maestra. La vita di una donna è sempre più difficile di quella di un uomo. Lo è ancora oggi, figuriamoci negli anni Sessanta».

Tu però sei una donna in carriera, oltre che madre di famiglia.
«In carriera, non direi. E comunque faccio una fatica bestiale. Non so, magari ci sono donne più brave a educare i mariti, i figli, loro stesse: io non lo sono. Non so rinunciare al rapporto fisico con i bambinì - accompagnarli a scuola, metterli a letto -, prendo tutto di petto, cerco di fare tutto, e se una sera a cena non c’è la verdura, per dire, non riesco a fregarmene. Il senso di colpa incombe. Il risultato è che arranco sempre. Però non mi annoio. E qualche volta sono felice».

Adesso, poi, ti sei messa anche a scrivere líbrí.
Non l’ho programmato, è successo.In questi anni me lo avevano chisto, come capita a chi lavora in televisione ma avevo sempre evitato. Un po’ per insicurezza e un po’ per umiltà visto che ho il mito della letteratura. Sotto sotto ambivo a scrivere un libro vero, non un libro "da celebrìty". Storie da raccontare ne avevo, e anche uno sguardo ìnteriore piuttosto allenato alla scrittura. Quando mi sono lasciata andare ho capìto che l’avevo sempre desiderato, e mi sono ricordata del romanzo che avevo scritto a otto anni, l’avevo intitolato Le illusioni perdute: la storia di due fidanzati che si incontravano a Londra per lasciarsi, Per anni è rimasto nel cassetto di mia madre, poi per fortuna è scomparso, Doveva essere straziante».

Dopo Non vi lascerò orfani, ce ne saranno altri?
«Mi piacerebbe. i dieci mesi che ho passato a scriverlo sono stati un’esperienza esaltante, oltre che catartica. Ora capisco gli scrittori quando dicono che: "Una volta che racconti una storia, poi non è più tua ma di tutti". Per me è stato così. Qualcuno mi ha detto che è stato un atto d’amore verso mia madre. Vero, ma la sua vita è anche la vita dì tante donne della provincia italiana degli anni Sessanta. E mi fanno piacere quelli che mi dicono di essersi divertiti, oltre che rìconosciuti e magari commossi».

Potresti lasciare la televisione e fare solo la scrittrìce?
«Chi lo sa. La televisione mi piace anche se, invecchiando, faccio sempre più fatica. Proprio fatica fisica».

Da La7 sei passata su Raidue, dove il 20 marzo debutta il tuo nuovo programma, L’Era Glaciale. In che cosa sarà diverso dalle Invasioni Barbariche?
«Sarà simile, ma più corto e asciutto: invece di tre ore, non più di un’ora e mezzo. Il linguaggio sarà quello, quelle le interviste, diversi i filmati. Inízialmente volevo chiamarlo La Bestia, perché mia madre aveva ragione. in fondo quello mi sento: nei faccia a faccia, bene o male, che io voglia o no, la zampata prima o poi salta fuori. Non posso farei niente: è la mia natura».

Pensi che in Rai ti consentiranno di fare liberamente la besctia o ci saranno pressioni politiche?
«I1 dìrettore, Antonio Marano, ha giurato che mi difenderà con la spada celtica sguainata, ma non penso ce ne sarà bisogno. Non credo di essere un ultras».

Raidue è il canale della Lega e del centrodestra. Date le tue idee politiche, non avresti preferito Raitre?
«Raitre mi piace, ma trovo Raidue più "barbaramente" adatta a me e al mio gruppo. E poi queste distinzioni politiche mi sembrano anacronistiche».

Non si direbbe: Maurizio Gasparri ha accusato Marano di àver íngaggiato troppi volti di sinistra’. E, oltre a quello di Santoro, faceva proprio il tuo nome.
«Non commento le affermazioni di Gasparri: non tutti si meritano il conflitto. Lo vedi anche nelle mie interviste: se sorrido troppo, se sono troppo gentile, vuol dire che chi ho davanti non mi sta interessando veramente».