Marie-Claude Decamps, la Stampa 11/02/2009, 11 febbraio 2009
Di lei non si scorge che un piccolo triangolo del viso, che emerge dallo spesso chador nero. Al suo fianco, dentro una cornice posizionata su un tavolino, l’ayatollah Khomeini, sembra sorridere
Di lei non si scorge che un piccolo triangolo del viso, che emerge dallo spesso chador nero. Al suo fianco, dentro una cornice posizionata su un tavolino, l’ayatollah Khomeini, sembra sorridere. La somiglianza è impressionante. «Sarebbe ancora maggiore - dice lei, con evidente piacere - se mi levassi gli occhiali». Zarah, figlia del fondatore della Repubblica islamica dell’Iran, 64 anni, dottoressa in filosofia e presidente di una moltitudine di fondazioni, ha accettato di riceverci a Teheran. Un tale legame di parentela, a dire il vero, comporta un certo «dovere della memoria», soprattutto nei giorni in cui si celebra il trentesimo anniversario della rivoluzione. In alcune parole, pronunciate con commozione, emerge il lutto provato per suo padre, che lei chiama con rispetto «l’imam»: «Lui ha avuto un’illuminazione: e ha sentito il bisogno di comunicarla al popolo iraniano. Riza Khan, il fondatore della dinastia Pahlavi, aveva per modello la laicità di Ataturk. Faceva maltrattare i mullah, impediva i canti di lutto del Moharram e toglieva i vestiti alle donne! Suo figlio, Muhammad Riza Pahlavi voleva corrompere i giovani con gli alcolici e le case di piacere. Per questo, dopo l’esilio, l’imam registrò delle audiocassette e diffuse il suo messaggio. Quando capì che gli iraniani erano pronti ad accoglierlo, ritornò. Il regime dello scià è crollato dopo soli dieci giorni. E l’imam ha instaurato il governo islamico». L’«imam»: una parola tabù in Iran. Il suo immenso mausoleo, a Teheran, è diventato meta di pellegrinaggi. Ma la sua memoria? Che fine ha fatto la «giusta via dell’Imam», questa eredità che a pochi mesi dalle elezioni presidenziali di giugno le fazioni politiche si contendono alla luce del sole come un «marchio di garanzia» nel bel mezzo dei disastri economici e del malcontento? Malcontento? A Zarah la parola non piace. Indicando la piccola ombra velata, una cameriera, che serve il tè, dice: «Lei è la più umile della casa. Io sono la figlia dell’imam. Guardi, mangiamo tutte due la stessa cosa, siamo vestite allo stesso modo. Non ci più poveri come un tempo». Tuttavia, riconosce che le donne non hanno ancora il posto che dovrebbero avere nella società: «L’uguaglianza dovrebbe essere basata sulla meritocrazia - dice -. Non ci sono abbastanza donne in Parlamento, ma le cose cambieranno. Oggi, in Iran, il 64% degli studenti sono di sesso femminile». Ma i politici non sfruttano il nome della sua famiglia? «Cosa ci possiamo fare noi? Non abbiamo il potere di intervenire» ammette con aria rassegnata. Voglia di evitare le polemiche? La figlia dell’imam è prudente. La famiglia del fondatore e i suoi amici sono molto critici sull’evoluzione della rivoluzione. Alcuni militano addirittura nel campo riformatore. Zarah preferisce evocare un aspetto meno conosciuto, e soprattutto meno politico di suo padre: un ayatollah Khomeini intimo, in famiglia, che faceva il tè scherzando con i suoi figlioletti «che ci lasciava letteralmente salire su di lui». A Nowrouz, il Capodanno iraniano, si ricorda «riceveva una moltitudine di bottigliette di profumi. Li metteva su un tavolo, coperto da una tovaglia. Poi domandava a ciascun bambino quale voleva. ”Non vogliamo niente’, dicevamo. E lui rispondeva: ”Bravi, così non ci sono invidie’». «Un altro giorno - continua Zarah - l’imam stava giocando con la sua nipotina di tre anni, facendo finta di avere una moneta nella sua grande mano chiusa. La piccola chiedeva: per che cosa è? E lui rispose: ”Per comprarti un marito, corri!’». L’altro aspetto che sua figlia ama ricordare è la curiosità dell’imam. «Si fidava soprattutto di noi: eravamo i suoi occhi, le sue orecchie. Ci mandava in città e chiedeva: "Che dicono nelle strade?’». Copyright Le Monde