Baenjamin Barthe, la Stampa 11/02/2009, 11 febbraio 2009
Benvenuti a Lieberman City. Per la terza volta in tre scrutini, Nazareth-Illit, nel nord di Israele, ha plebiscitato il capo del partito Israel Beitenu (Israele, la nostra casa), il populista Avigdor Lieberman
Benvenuti a Lieberman City. Per la terza volta in tre scrutini, Nazareth-Illit, nel nord di Israele, ha plebiscitato il capo del partito Israel Beitenu (Israele, la nostra casa), il populista Avigdor Lieberman. Dopo le legislative del 2006 (34% dei voti), dopo le municipali del 2008, questo politico celebre per la sua retorica anti-araba, nato nel 1958 in una famiglia ebrea russofona della Moldavia, è dato in testa negli exit poll. Costruita a strapiombo sulla Nazareth araba, cinquantamila abitanti, di cui la metà emigrati dall’ex Unione Sovietica, la città è diventata la vetrina del fenomeno Lieberman. La sede della campagna elettorale del partito, al primo piano di un piccolo centro commerciale, è tappezzata di foto del candidato. Alex Gadalkin, il portavoce locale, sventola un manifestino con lo slogan «Niente cittadinanza senza lealtà», il più controverso della campagna elettorale. «Non è normale che gli arabi si permettano di sostenere i nemici di Israele, come Hamas - dice -, e intanto continuano a prendere i sussidi dallo Stato». Israel Beitenu ha proposto di creare un giuramento di lealtà a Israele e imporre un servizio nazionale obbligatorio, specie per gli arabi, che sono esentati dal servizio militare. Una misura razzista, come accusa la sinistra israeliana? «No. La lealtà è un valore che non dovrebbe essere discusso - replica Gadalkin -. Non vogliamo finire come la Francia, dove l’inno nazionale viene fischiato negli stadi. Lieberman fa paura agli arabi. Per questo ci piace». Fondata negli Anni Cinquanta da Ben Gurion, il padre della patria, Nazareth-Illit aveva come scopo frenare lo sviluppo di Nazareth e rubarle il ruolo di capitale della Galilea. L’ironia della storia ha voluto che la nuova città finisse assorbita dai vicini arabi. Non potendo costruire nella città vecchia, si trasferiscono nei quartieri ebrei, tanto che ormai sono il 20% della popolazione. «I giovani arabi di Nazareth arrivano qui in macchina per tampinare le nostre ragazze», si lamenta Thomas, 16 anni, nella caffetteria del centro commerciale. «Gli arabi ci spolpano - continua -, non smettono di sfidarci. Un giorno, se non facciamo niente, verranno a picchiarci. Non ci sentiamo più a casa nostra. Per fortuna c’è Lieberman». Qualche metro più in là, c’è Mikhail, parrucchiere. Arrivato dalla Bielorussia nel 1995, è uno di questi ebrei russofoni che venerano Lieberman, ex buttafuori con le spalle larghe e le idee semplici. Ma non solo per quello. Al contrario degli accesi esponenti della destra classica, il cui odio per gli arabi nasce dal fanatismo religioso, il capo di Israel Beitenu è un laico militante. Propone per esempio di autorizzare i matrimoni civili, che non esistono in Israele. Un’idea molto popolare tra la popolazione slava, che in gran parte non è ebrea. «Molti nostri amici sono dovuti andare a Cipro - spiega Mikhail -. Io sono ebreo, ma non voglio un matrimonio religioso e mi rifiuto di prendere l’aereo per poter sposare la mia ragazza. E così, praticamente, non posso sposarmi». La paura degli arabi, e l’ossessione per il nemico interno, sono il cemento del successo elettorale di Lieberman a Nazareth-Illit. E lui l’ha capito bene. Durante la campagna, ha messo la sordina i temi più scomodi, come la creazione di uno Stato palestinese. «Abbiamo bisogno di Lieberman per finire il lavoro a Gaza - conferma Yaffa, 52 anni, che gestisce un negozio di abbigliamento per bambini -. Milletrecento morti non bastano. Devono uscire tutti con la bandiera bianca». Durante l’offensiva nella Striscia, senza i poliziotti che sorvegliavano ogni angolo, Yaffa non sarebbe uscita la sera. Da 25 anni non mette piede a Nazareth. «Troppo pericoloso - spiega -. Le uniche ci vanno sono le russe che vogliono sposarsi un arabo. Ma questo non lo scriva. Se no non verranno più ebrei dall’Europa a stabilirsi qui». Benjamin Barthe