Corriere della sera 7/2/2009, 7 febbraio 2009
USA, LA SALVEZZA NEL DEBITO PUBBLICO
Il 28 gennaio 2009 è scivolato via nelle cronache finanziarie. Eppure potrebbe acquisire una rilevanza particolare nella storia delle Depressionomics. E’ stato infatti in quel martedì di ordinaria tensione a Wall Street che la Federal Reserve ha annunciato di essere pronta a sottoscrivere i titoli del debito pubblico degli Stati Uniti in emissione nei prossimi mesi per finanziare gli stimoli all’economia lanciati dal presidente Obama e la serie, non si sa quanto lunga, dei salvataggi aperta dal suo predecessore Bush.
Il governatore della Federal Reserve di Richmond, l’economista Jeffrey Lacker, avrebbe voluto l’inizio immediato degli acquisti e perciò ha votato contro la più cauta decisione del Federal Open Market Committee che passerà all’azione quando se ne ravviserà l’utilità per la salute del mercato. Ma già l’annuncio di una tale disponibilità non ha precedenti nei 95 anni di storia delle 12 banche centrali nazionali che formano il sistema della Federal Reserve.
I titoli di Stato sono sempre figurati nell’attivo di queste istituzioni quale contropartita di quella speciale posta passiva che è costituita dalla base monetaria, ovvero dai dollari in circolazione. In questi 18 turbolentissimi mesi, la Fed ha scambiato una parte degli 800 miliardi di Treasury Bills e affini che aveva all’attivo, merce buona e sicura, con anticipazioni alle banche e titoli tossici di varia natura da queste rilevati, merce rischiosa o addirittura scadente. Una decisione sostanzialmente obbligata per evitare il collasso irrimediabile del sistema bancario e però insufficiente allo scopo. Adesso, il presidente della Fed, Ben Bernanke, si dice pronto a ben altro, e cioè a «investire» in nuovi titoli pubblici.
A questo punto, la prima domanda è: perché la svolta? La risposta – ovvia e, al tempo stesso, molto seria – può essere così riassunta: l’emittente, e cioè il Tesoro, si assicura la promessa di soccorso da parte della banca centrale perché non è più certo che quanti finora son corsi a sottoscrivere le sue obbligazioni lo facciano ancora nella misura necessaria. L’America è sempre meno creditrice di se stessa. Ormai il 44% del debito pubblico costituito da titoli negoziabili è in mani estere e due terzi di questa cifra fa capo alle banche centrali di Giappone e Cina. E nessun investitore internazionale è tranquillo sulla tenuta del cambio del dollaro. Si potrebbe dunque indagare sui legami personali tra il nuovo segretario al Tesoro, Tim Geithner, che prima governava la Federal Reserve di New York, e i suoi ex colleghi per capire se e come quelle relazioni abbiano favorito la svolta che mette definitivamente la Fed al servizio del Tesoro. Il tema sarebbe interessante anche per un Paese come l’Italia che a suo tempo presentò il divorzio della sua banca centrale dal Tesoro una scelta di virtuoso rigore. Ma ci disperderemmo. Meglio porci la seconda domanda: quanti soldi servono al Tesoro Usa?
Al netto delle obbligazioni in scadenza da rifinanziare, Geithner dovrà raccogliere 2.000-2.500 miliardi di dollari per coprire la coda del piano Paulson, i sostegni a Fannie Mae e Freddie Mac e al sistema dei mutui immobiliari e delle carte di credito, ora in fase di attuazione, nonché lo stimolo obamiano all’economia per 825 miliardi. E’ una massa imponente di denaro, un terzo di quella parte del debito pubblico federale, 6.300 miliardi, detenuta dagli investitori nazionali e internazionali (poi, come spieghiamo nell’altro articolo, ci sono le altre componenti, palesi e opache, del debito pubblico). E’ vero che la fuga dalla Borsa e dal mattone non è ancora finita. Ma è anche vero che questo processo di disinvestimento è in atto da tempo e tende ormai a ricostituire sempre meno liquidità. Lo scoppio della bolla non è senza conseguenze e diminuisce drasticamente la ricchezza finanziaria trasferibile da un impiego all’altro. Ed è ancor più vero che il Tesoro americano avrà concorrenti agguerriti nei Tesori di Eurolandia, anch’essi impegnati in imponenti emissioni aggiuntive, mentre i Paesi con le maggiori riserve valutarie, a cominciare dalla Cina, dovranno riorientare una parte dei flussi monetari verso il mercato interno. Una spia delle nuove incertezze si è già accesa con l’incremento dei tassi sui titoli decennali dal 2% al 2,95%.
Se dunque un pronto intervento della Federal Reserve entra nel novero delle probabilità, la terza domanda che viene spontanea è: con quali soldi Bernanke pagherà i titoli del suo ex collega Geithner?
Poiché la Fed ha già impegnato tutte le sue risorse, sarebbe molto rischioso, ammesso che sia possibile, raccogliere depositi a breve dalle banche per comprare obbligazioni a medio termine del Tesoro. Con ogni probabilità, la Fed stamperà nuova moneta, e lo farà in grande copia. Il rischio di inflazione è immanente in un rapido incremento della quantità di moneta, ma la scarsità della domanda ne rinvia la manifestazione all’avvio della ripresa. E siccome ogni giorno ha la sua pena, se ne riparlerà più avanti. L’emergenza, adesso, è il contrasto della recessione. Ma l’impennata debito pubblico nel Paese più importante del mondo che l’aveva fin qui considerato il peggiore dei debiti, segno inequivocabile di inefficienza terzomondista, cambia comunque il paesaggio dell’economia.