Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2009  febbraio 06 Venerdì calendario

LA DEMOCRAZIA NELL’ERA DEL LIBERO SCAMBIO


«Il mondo rischia il cortocircuito. Il sistema del libero scambio ha minato la partecipazione democratica e seminato il razzismo e la guerra tra poveri e ora, invece di forme ragionate e gestibili di protezionismo che garantiscono solidarietà e diritti ai lavoratori e ai cittadini, ci troviamo di fronte al protezionismo xenofobo degli operai inglesi che non vogliono saperne dei loro colleghi italiani».
Emmanuel Todd è uno dei maggiori demografi europei, storico e antropologo ha raccontato negli ultimi decenni alcune della grandi trasformazioni che hanno attraversato il mondo. Nei suoi saggi ha descritto la fine dei paesi dell’Est, Il crollo finale (Rusconi, 1976), la crisi dell’egemonia americana, Dopo l’impero (Tropea, 2003), ascesa e caduta del neoliberismo, L’illusione economica (Tropea, 2004). Mentre in Francia è uscito da pochi mesi Après la démocratie (Gallimard, pp. 257, euro 18.00), una lettura della società francese nell’era della crisi e della crescita del populismo, Marco Tropea pubblica in questi giorni nel nostro paese L’incontro delle civiltà (pp. 160, euro 14.90), l’indagine sulla modernizzazione in atto nel mondo musulmano realizzata insieme al demografo Youssef Courbage.

Partiamo dal titolo della sua ultima opera pubblicata a Parigi: Professor Todd cosa c’è dopo la democrazia?
L’analisi che ho condotto in questo libro si fonda su una constatazione: la contraddizione che esiste tra la democrazia e il sistema del libero scambio. Il libero scambio è responsabile della crisi mondiale in cui ci troviamo, ha prodotto un gigantesco aumento della disuguaglianza e un meccanismo d’asfissia delle società sviluppate. E perciò possiamo considerarlo responsabile delle difficili condizioni in cui vive tanta gente. Il quesito che mi sono posto riguarda cosa dobbiamo aspettarci per il futuro e si esprime in questa forma: come si può pensare che regga ancora per molto un sistema sociale che combina questo libero scambio, che distrugge la vita delle persone, con il suffragio universale? In altre parole, come si può credere che una popolazione a cui si nega dignità di vita abbia poi ancora voglia di andare a votare? E in effetti sono sempre di meno quelli che partecipano alle consultazioni elettorali. Perciò la risposta che mi sono dato è che o si abolisce il suffragio universale, rinunciando così alla democrazia, o si limita il libero scambio, ad esempio con forme ragionate di protezionismo su scala continentale in Europa, mettendo perciò in discussione il sistema economico oggi vigente. Certo, anche se si salva la democrazia attraverso una qualche forma di protezionismo, è chiaro che non sarà più la vecchia democrazia a base nazionale che abbiamo conosciuto fin qui, ma una democrazia di tipo decisamente nuovo. Per questa ragione mi sono permesso di intitolare questo mio lavoro Après la démocratie? , proprio perché analizzo la crisi democratica di oggi e le possibili evoluzioni e trasformazioni che potrà conoscere la democrazia europea, che si è fin qui identificata con gli stati nazionali.

Uno dei tratti che caratterizza questa fase politica e sociale in Europa, mettendo fortemente in discussione la democrazia del continente, è rappresentato dall’emergere di nuove forme di populismo di destra. "Après la démocratie" si apre con la descrizione dell’ascesa al potere di Nicolas Sarkozy, ma pagine simili si potrebbero scrivere su Silvio Berlusconi. Siamo di fronte a una sorta di "uscita da destra" dalla crisi?
Credo che un lettore italiano potrebbe trovare molti punti di contatto tra quanto racconto della Francia e la situazione che si vive nel vostro paese. Non solo le similitudini tra Sarkozy e Berlusconi, ma anche la sostanziale uniformità tra destra e sinistra sull’adesione a un modello economico e sociale che riduce i diritti e umilia la partecipazione democratica. Quanto al ruolo che giocano oggi questi populismi, non sarei così sicuro del fatto che si tratta di fenomeni destinati a restare per sempre. Penso al caso francese, visto che sull’Italia non ho abbastanza elementi per azzardare un’analisi approfondita: non credo che il sarkozismo rappresenti per così dire "la fine della storia", il suo consenso sociale è in forte crisi e tutte le indagini demoscopiche indicano anche un calo delle intenzioni di voto in favore di Sarkozy. Certo, oggi la situazione è molti difficile, siamo in presenza di una forte spinta autoritaria della destra, di un tentativo di limitare spazio e libertà della tv pubblica, di una crescita del ruolo del Capitale alla stato puro, di un tentativo di mettere le mani sullo Stato. E soprattutto veniamo da un progressivo spostamento verso destra di ampi settore dell’elettorato popolare, in Francia come in Italia. Nel mio libro parlo però di un "periodo Sarkozy" nel senso che credo che questa sia una fase che la Francia, come altri paesi in cui simili fenomeni si stano manifestando, potrà superare. Solo che ci vorrà probilmente molto tempo, visto che la crisi delle società occidentali non è che all’inizio e non sappiamo da quale parte ne usciremo. Personalmente mi sono formato con gli studi di Fernand Braudel, capaci di evocare le dinamiche generali e di lungo periodo e ho capito che cinque o dieci anni della vita di un paese non rappresentano niente. Con la Storia ci vuole pazienza...

Lei parla di "forme ragionate di protezionismo". Ma è possibile di fronte alla mobilitazione xenofoba degli operai inglesi contro quelli italiani?
Il protezionismo viene spesso associato alla nozione di xenofobia, all’idea di una chiusura rispetto all’"altro". Credo si tratti in larga misura di uno stereotipo. Mi spiego. E’ evidente come vi siano in alcuni tipi di protezionismo motivazioni del genere, idee e posizioni regressive o identitarie. Ne La paura e la speranza (Mondadori), il libro di Giulio Tremonti di cui molto si è discusso, c’è ad esempio la nozione di "identità cristiana dell’Europa" e altre tesi del genere. Il protezionismo di cui parlo io, che identifico come una delle possibilità per uscire dalla crisi, è ovviemente tutt’altra cosa. Immagino infatti una dimensione plurinazionale, ragionevole e razionale per il protezionismo. Del resto ne L’incontro delle civiltà (Marco Tropea) credo di aver chiarito fino a che punto mi oppongo alle idee di politici come Tremonti. Capisco l’inquietudine che nasce in molti quando si parla di protezionismo, ma credo si debba esaminare la cosa con attenzione e vedere dove nascono i veri problemi e le vere sfide con cui ci dobbiamo misurare oggi. Credo infatti che sia il sistema del libero scambio che contribuisce ad alimentare la xenofobia. "Libero" è una bella parola, gentile, evoca la libertà e tanti altri bei concetti, ma in realtà stiamo parlando di un sistema basato sulla guerra di tutti contro tutti, sulla concorrenza tra tutti i popoli della terra. Per questo si può dire senza alcuna esitazione che il libero scambio conduce al razzismo e alla xenofobia. E questa è la situazione drammatica nella quale ci troviamo attualmente. Inoltre veniamo da più di un decennio durante il quale "l’ideologia del libero scambio" non ha fatto che trovare nuovi adepti: gli ultimi paesi che come l’India resistevano ancora, sono capitolati. E nel momento in cui tutto il pianeta è dominato dal libero scambio e dall’ideologia ultraliberale il mondo rischia davvero di crollare in assenza della "domanda". E’ una vecchia contraddizione insita nel capitalismo che oggi diventa realtà. Le imprese globali non considerano più il salario come uno strumento per favorire il consumo ma solo un elemento su cui risparmiare inseguendo i lavoratori "meno cari" in giro per il mondo, così, diminuendo gli stipendi, la "domanda" crolla e l’intero sistema rischia il cortocircuito. E’ in questo contesto che si rischiano di veder emergere forme idiote e xenofobe di protezionismo, invece di forme ragionate e gestibili che garantiscono solidarietà e diritti ai lavoratori e ai cittadini.

La Storia, lo ha appena ribadito, si deve leggere sul lungo periodo. E’ in questa prospettiva che si muove il suo "L’incontro tra civiltà" che sembra smontare alla radice le tesi che hanno fatto la fortuna di Samuel Huntinghton, scomparso di recente?
Io sono un demografo e nel mio lavoro pensare che esistano delle entità immobili, omogenee, è quasi una contraddizione in termini. Perciò la rappresentazione in questo modo del mondo musulmano non mi ha mai convinto. Il mio modo di procedere nell’esame di una situazione parte dai dati di natalità e prosegue con quelli di alfabetizzazione e di scolarizzazione. In questa prospettiva tutte le considerazioni fatte su un Islam bloccato, fermo a un passato medievale e via dicendo, non hanno alcun senso. Il mondo musulmano è in ritardo ma procede su una traiettoria di modernizzazione assolutamente classica, come quella che ha rigurdato tutte le altre culture o civiltà. Certo, in questo percorso di modernizzazione si registrano delle crisi di transizione - un fenomeno per altro già osservato dai sociologi europei del XIX secolo, come Emile Durkheim -, la modernità mostra in questo caso il suo volto in ombra - Durkheim parlava della crescita del tasso di suicidi, dell’alcolismo, della schizofrenia fino alla carneficina rappresentata dalla Prima guerra mondiale. Paragonata, ad esempio in numero di morti - sempre per restare al mio lavoro di demografo -, alla recente storia europea, la crisi attuale che attraversa il mondo dell’Islam è certo drammatica ma meno violenta rispetto a quanto accaduto da noi. Ciò detto, questa crisi esiste e ce ne dobbiamo occupare. Solo che il modo in cui il fondamentalismo islamico, una delle caratteristiche con cui si esprime questo cortocircuito nel processo di modernizzazione, è abitualmente letto in Occidente, non aiuta a capire cosa stia accadendo davvero. D’abitudine si parla infatti di ritorno "indietro" del riemergere di una cultura premoderna che cerca di risucchiare interi popoli e paesi. C’è addirittura chi va a cercare nel Corano le basi di questo arcaismo. In Francia però gli islamogi più attenti, come GIlles Kepel o Olivier Roy, non cadono nell’errore, ma molti altri, e soprattutto i media e chi partecipa alla creazione del discorso pubblico sull’Islam, non hanno esitazioni nel definire l’islamismo come una spinta verso il passato. Mentre invece è chiaro che si tratta di un fenomeno che accompagna la modernizzazione e che replica alla secolarizzazione e all’individualismo che avanzano anche nelle società musulmane. Dico questo perché volendo guardare oltre il contingente, in queste società cresce il tappo di alfabetizzazione e diminuisce quello di fecondità, condizioni che in prospettiva ci parlano più della de-islamizzazione e della laicizzazione che non della crescita dell’Islam. Questo è almeno ciò che è accaduto in Europa in tutte le società, quale che fosse la religione che vi si professava maggioritariamente.

Non le sembra però che il fondamentalismo islamico, come i populismi di destra in Europa, punti proprio a gestire in senso autoritario e razzista questo processo di modernizzazione?
L’Europa e il mondo musulmano non sono nella stessa fase della Storia. Si pensa al mondo musulmano come a uno spazio attraversato da inquietudini e conflitti, un mondo esitante di fronte alla democrazia, ma è comunque un mondo che progredisce anche se a un livello diverso dal nostro. Ho sempre pensato che un passo decisivo verso la democratizzazione di una società è rappresentato dal tasso di alfabetizzazione dei suoi cittadini, quanti sanno leggere e scrivere, e i paesi musulmani sono avviati su questo percorso, tappa dopo tappa. E’ attraverso questo indicatore che si possono leggere le trasformazioni di un paese o di un’area del pianeta. Così, ad esempio, dietro la Rivoluzione iraniana del 1979 c’è la crescente scolarizzazione degli iraniani e la diminuzione dell’analfabetismo. Si tratta di un processo che in Europa era iniziato tra le due guerre mondiali e divenuto di massa dopo il 1945. Certo che il nostro livello di alfabetizzazione e di scolarizzazione è molto più elevato, ma paesi come la Francia o gli Stati Uniti sono ormai in una fase di "stagnazione" sul piano educativo. Ci sono fenomeni crescenti di disciminazione e di diseguaglianza nell’istruzione e nella formazione che credo si possano considerare alla base delle nuove discriminazioni sociali che caratterizzano le nostre società e dove nascono i nuovi populismi. Assistiamo a una nuova stratificazione della società che costruisce frustrazione e marginalità: il clima propizio allo sviluppo del populismo di destra e della xenofobia. Mentre invece l’islamismo si muove in uno spazio "in crescita", dove la modenizzazione fa ancora delle promesse. In qualche modo non c’è traccia dell’idea di un "futuro nero", magari incerto, questo sì, ma pur sempre un futuro da cui attendersi qualcosa. Con una formula arriverei a dire che il populismo europeo ha un carattere "depressivo", mentre quello del mondo islamico ha un aspetto "ottimista".