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 2009  febbraio 08 Domenica calendario

TONY CURTIS L’INCONTRO


A ottantatré anni, appena trenta di meno della storia del cinema, è una matassa di flashback, soprattutto d´area proibita, dietro le quinte. I primi che sbroglia sono due aneddoti da leggenda, entrambi su Marilyn Monroe, di cui non è stato solo l´invidiato partner in A qualcuno piace caldo nel ”59, ma, dieci anni prima, l´ancor più invidiato compagno, lui ventiquattro anni, lei ventuno, lui agli inizi di carriera, lei ancora sconosciuta, ma già unica, generosa Marilyn. «Siamo stati insieme sei-sette mesi, poi ciascuno è andato per la sua strada», ricorda Tony Curtis: «Era una ragazza stupenda, ne ero innamorato. Un momento magico della mia vita. È stato bellissimo anche rivederci, dieci anni dopo, e recitare insieme. Ma Marilyn era già diventata un´altra, piena di difficoltà nel suo lavoro, priva di autocontrollo. Anche in A qualcuno piace caldo, tendeva ormai a portare sé stessa nei suoi personaggi. E nella vita privata aveva la rara capacità di circondarsi di persone sbagliate, dall´influenza nefasta. Ero lontano da lei quando è morta. Sono sicuro che è stato un suicidio, non un omicidio: l´ultimo gesto del suo malessere, del suo mal di vivere. Nessuno ha ucciso Marilyn, è stata lei a farla finita».
Con la malinconia e la pena per un periodo in cui la Monroe era quotidianamente a rischio licenziamento per le costanti amnesie e i cosmici ritardi, riemergono gli aneddoti, entrambi gioiosi, legati al set del film di Billy Wilder. Il primo riguarda la celebre sequenza del divano, in cui Curtis, in abiti femminili nel ruolo di Josephine, deve abbracciare con innocenza la prorompente Zucchero Kandiski. È vero che Marilyn ricorse a ogni malizia per eccitarla e far così spuntare sotto la gonna un´erezione? «Verissimo! Era il suo modo di riaversi dalle frustrazioni. E, forse, di mettere alla prova quelle degli altri». L´altra voce che reclama conferma è la "sfida del centimetro" tra Curtis e Marilyn, al momento della confezione degli abiti: «Tutto vero. Dopo aver inutilmente tentato di adattarmi abiti "d´archivio", di Debbie Reynolds o Loretta Young, il sarto della Monroe si rassegnò al vestito su misura, prendendomi ascelle, fianchi, gambe. Passando subito dopo nel camerino di Marilyn, alla verifica del lato B sbottò: "Ehi, ma qui Tony ti batte!". E lei, aprendosi di colpo la camicetta: "Vediamo se mi batte anche qui!"». L´attore ride di gusto, mimando la scena: ritrova di colpo il volto birbone dei film della giovinezza, ora schiacciato sotto un cappellone texano che cela la calvizie, spesso immusonito, quasi sprezzante dei clic a mitraglia, che spiano l´icona invecchiata.
Anche le differenze tra i suoi più illustri colleghi d´epoca si riducono, nei ricordi dell´attore, a una questione di centimetri. Nel documentario Jill & Tony Curtis Story sull´"ospizio equino" da lui creato e gestito con la moglie a Las Vegas, presentato a Montreal al Festival des Films du Monde dove ha ricevuto il Grand Prix des Amériques alla carriera, Curtis si fa riprendere mentre striglia un cavallo. Non proprio in modo ineccepibile (viene in mente l´improbabile pizza manipolata da Sophia Loren in L´oro di Napoli), tanto che lui stesso ammette: «La mia spazzola funzionerebbe meglio nel lavaggio automatico delle automobili». Ma una volta finito il lavoro («ognuno ha bisogno d´un cavallo», sentenzia con ammicco shakespeariano), si fa inquadrare accanto al muso del quadrupede e comincia a elencare: «John Wayne gli arrivava qui, Errol Flynn fin qui, come me, Jack Lemmon più sotto», abbassando di colpo la mano con malcelata soddisfazione. Il pragmatismo della misura - gerarchia del centimetro o record di durata - è il suo criterio di valutazione anche nell´altra principale occupazione della sua vita, insieme al cinema: le donne. «Dopo quattro giorni passati con una nuova compagna, mi sento ingabbiato in anni di matrimonio. Se si arriva a una settimana, mi vien da correre da un avvocato a chiedere il divorzio».
Tanti film, altrettante donne. Cento-duecento, i film, in oltre mezzo secolo, non ricorda nemmeno lui (ma «almeno cinquanta son da dimenticare»). Le donne? Molte di più. Nessuna dimenticata. Di cui cinque divenute sue mogli e a lunga tenuta, dati i presupposti. L´ultima è Jill Vandenberg, trentasette anni, virago extra-blonde che l´accompagna, un po´ crocerossina, un po´ devota, ovunque. Si son conosciuti sedici anni fa, lei aveva ventuno anni e lui sessantasette: lei l´ha convinto a mettere in piedi in Nevada un "pensionato" per cavalli, strappati al mattatoio (cui son destinati negli Usa, ogni anno, centomila esemplari). Insieme, oggi, sono una coppia di passerottini, tutta bacetti e complimenti a specchio, con quarantasei anni - di nuovo il centimetro - di differenza. «Jill mi ha tratto in salvo dal vortice delle droghe e dell´alcol, cui mi ero da tempo abbandonato. L´ho incontrata quando ne stavo uscendo, nel momento più difficile, in cui dovevo ritrovare l´equilibrio. Jill mi ha salvato la vita, più di una volta. E continua a prendersi cura di me - sottolinea l´attore con sorriso malandrino - come lo fa con i suoi cavalli... Con tutto il rispetto per le altre che mi sono state accanto, devo dire che con Jill tutto mi appare differente e divertente. bella, perspicace: Marilyn era così. Poi, purtroppo, è cambiata».
Di donne firmate Tony Curtis, la più ammirata, oggi, è la figlia Jamie Lee, cinquant´anni il 22 novembre scorso, suo clone al femminile nella bellezza (The Body era il suo nomignolo vent´anni fa, ai tempi di Un pesce di nome Wanda) e nella predisposizione comica: « nata da me e Janet Leigh. Oggi vive a Santa Monica col marito, l´attore-regista Christopher Guest, e i due figli. Quando ho divorziato, Jamie era molto giovane. Fin da piccola, ne avevo avvertito le capacità: era attentissima a tutto, anche se aveva un´espressione assente. Già da bambina le piaceva scherzare, raccontare barzellette. Ma non ho mai pensato, e non ne sarei stato contento, che prima o poi diventasse attrice. successo quando aveva sedici anni. Era una ragazza bellissima. Mi sono affrettato a metterla in guardia dalle trappole, non volevo che passasse attraverso gli innumerevoli "rischi del mestiere". Parlo per esperienza...». Ma non tutti gli attori sono pericolosi come lei. «Io non sono mai stato un pericolo per le donne. Diciamo che siamo sempre stati di reciproca utilità. Tutte le volte in cui ero disilluso, frustrato, amareggiato, le donne mi tenevano lontano dallo sconforto, mi aiutavano a non cadere nella disperazione. Le donne son sempre state i miei più efficaci antidepressivi».
Nella sua vita declinata al femminile, non c´è mai stata una complicità maschile? «Forse Stanley Kubrick, di cui son diventato grande amico sul set di Spartacus. Ero stato chiamato per un paio di pose, vi sono rimasto nove mesi, divertendomi come un matto con Laurence Olivier: bagni in vasche regali, insaponandoci a vicenda la schiena». E Kubrick? «Siamo tutti e due cresciuti a New York. Una volta che sei vissuto a New York, puoi affrontare il mondo come vuoi tu. il caso di Kubrick. Aveva uno sguardo determinato, volitivo. Se la realtà non era come lui se l´aspettava, la cambiava per renderla come l´aveva pensata. L´ho conosciuto giovane, quand´era fotoreporter e se ne andava in giro con una piccola macchina fotografica: in ciascuno dei suoi scatti c´era già il suo cinema», s´entusiasma Curtis evocando il pungente reportage d´esordio sullo zoo, dove sono gli animali a guardare noi, esposto per la prima volta in Italia una quindicina d´anni fa al Festival di Taormina.
Anche la New York di Curtis è stata, quand´era bambino, la gabbia d´uno zoo, dov´era lui a guardare noi, dal ghetto del Bronx, alle soglie della Grande Depressione: prima, la miseria in una famiglia d´immigrati ungheresi, poi l´orfanotrofio, infine la fuga, nella marina e poi in teatro, il ciuffo spavaldo e conquistatore alla Elvis Presley. Dopo, siamo stati noi a guardare lui. In un saliscendi di film, alcuni da cancellare subito, altri indimenticabili, come A qualcuno piace caldo, La parete di fango, 1958, di Stanley Kramer, sua unica nomination all´Oscar, o Lo strangolatore di Boston, 1968, di Richard Fleischer: «Qui mi aspettavo la statuetta. E invece, niente. l´unica ombra della mia vita», confessa con smorfia amara. Gli alti e bassi della sua carriera saranno presto in vetrina, nell´autobiografia American Prince, in uscita negli Usa: «C´è dentro tutto, anche quel che non si sapeva. La mia infanzia, quando a otto anni i genitori mi hanno messo in orfanotrofio col mio fratellino Julius, finito sotto un camion quattro anni dopo. Fin da piccolo mi son preparato al peggio. Non sono mai stato capace di affrontare il meglio, i successi, la fortuna. Ogni volta che sono arrivato al top, invariabilmente ho trovato il modo di riprecipitare in basso: anche con l´alcol e la droga. Mi sono sottoposto a una dolorosa terapia per rivivere le ore terribili dell´infanzia, scoprendo quanto detestassi mia madre, perché mi picchiava, perché non mi amava, perché ci aveva buttati in orfanotrofio. Lo psicoanalista mi ha strizzato ben bene, mettendo in relazione carenze affettive e inguaribile dipendenza dall´universo femminile». L´uomo che amava le donne, come Truffaut (uscito lui pure da un´infanzia "senza" madre).
Oggi assicura di aver trovato l´equilibrio: oltre al rapporto stabile con Jill, la pratica costante di un hobby, la pittura. Nel suo atelier, la mano sicura, dipinge ogni giorno elementari teste di cavallo e volti d´attori (tante Marilyn, riprese, alla Andy Warhol, da fotografie: «Lei sì, era un´opera d´arte»). Quadri sempliciotti, in mostra a dieci-ventimila dollari alla Galérie MX di Montréal. La pittura è il surrogato d´un cinema che non la chiama più? «Mi chiamano, ma per parti di vecchietto. E io non mi sento vecchio. Mi proponessero un ruolo di vecchietta, allora sì!».