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 2009  febbraio 08 Domenica calendario

LA SETTIMANA CORTISSIMA ANTIDOTO AI LICENZIAMENTI


Lord John Maynard Keynes, con le sue ricette dal sapore socialdemocratico, è diventato l´unico ispiratore dei governi che, a corto di idee, cercano una via d´uscita dalla Nuova Depressione. Karl Marx, con la sua apocalittica visione del capitalismo, si è conquistato, all´alba del 2009, la copertina di Time, come fosse Barack Obama. E allora è tempo di revival anche per un vecchio slogan di successo, seducente quanto poco praticato: "Lavorare meno, lavorare tutti". Che questa volta, però, potrebbe anche andare a segno. Cambiando il nostro modo di lavorare, riequilibrando i tempi delle nostre giornate, rimescolando i ruoli familiari. In un corpo a corpo soft con la recessione. Quasi una rivincita dei paradigmi mancati dal Novecento.
La Germania di Angela Merkel ha scelto la strada della settimana corta, incentivando con aiuti statali le riduzioni d´orario. La Bmw e la Daimler le hanno già applicate. Presto seguirà l´Opel. Anche a Londra si ragiona sulla settimana cortissima: solo tre giorni di lavoro. E il precedente, nella Gran Bretagna oggi praticamente deindustrializzata, non è dei più felici: a imporre il taglio dell´orario nelle fabbriche a corto di rifornimenti energetici fu all´inizio del 1973 il primo ministro Edward Health in una situazione di emergenza per lo sciopero e i picchetti dei minatori. La Francia fa discorso a sé. La stagione delle trentacinque ore è tramontata con i governi socialisti. Nicolas Sarkozy è stato sprezzante durante l´ultima campagna elettorale: «Quella delle trentacinque ore è stata l´unica invenzione francese per la quale non serve il brevetto perché finora nessuno l´ha imitata». Però doveva ancora arrivare il grande crollo di Wall Street e di quel che fu il turbocapitalismo finanziario.
In Italia l´orario si riduce, ma non si dice. Lo fanno decine di aziende tessili del Nord, nelle quali la presenza massiccia delle donne favorisce gli accordi per i contratti di solidarietà, con il taglio degli orari e dei salari in cambio del mantenimento del posto. «Perché le donne - spiega Aris Accornero, professore emerito di sociologia industriale alla Sapienza - sono più sensibili a questo scambio». Una questione di genere che - vedremo - ritornerà.
Il ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, ha parlato di «lavorare meno per lavorare tutti», aggiungendo una preposizione che, però, non ha modificato nella sostanza la proposta. Quella che sul finire degli anni Settanta lanciò il leader cislino Pierre Carniti. Fu infatti lui a inventarsi lo slogan "lavorare meno, lavorare tutti". Era anche quella epoca di austerità. Dice Carniti: «Già allora l´Italia aveva un tasso di attività scandalosamente più basso degli altri paesi. In particolare tra le donne. Quello slogan nacque proprio con l´obiettivo di allargare il numero degli occupati e per combattere la disoccupazione». Nella logica di ripartire il lavoro disponibile. Ma quella di Carniti non si trasformò nella strategia del sindacato allora unitario, per quanto non venne contrastata. Piuttosto fu risucchiata dal tran tran contrattuale e poi travolta dalla grande "depressione" sindacale successiva alla sconfitta subita nell´80 ad opera della Fiat di Cesare Romiti.
L´occasione, dunque, all´epoca fu persa. «Eppure ora potrebbe riproporsi», sostiene Chiara Saraceno, sociologa della famiglia. La chance della crisi, allora. «Per cambiare il nostro modello». Per distribuire diversamente il tempo quotidiano, senza essere più stretti tra il lavoro e il consumo, o il consumismo. «Facendo - dice ancora Saraceno - quel che si fa in tutte le famiglie in tempo di crisi: si va meno in tintoria e si lava più in casa, si ricorre meno alla baby sitter, si fa, insomma, economia di manutenzione». Vero. Però l´esperienza empirica francese non va proprio, o esclusivamente, in quella direzione. Non solo perché - come dimostra Francis Kramaz nel libro Working hours and job sharing in the Eu e Usa, scritto insieme a Tito Boeri e Michael Burda - con la riduzione dell´orario di lavoro in Francia si sono persi posti di lavoro anziché aumentarli, ma anche perché ha accentuato le differenze di ruolo tra uomini e donne. Queste ultime si raccontavano «stressate e affaticate» in un´inchiesta del sindacato pubblicata da Le Parisien. In sostanza, nonostante il meno tempo perso sul traffico e un´inferiore permanenza al lavoro, sulle donne ricadeva ancora di più il peso delle faccende domestiche.
"Lavorare meno" significherebbe - banalmente - andare meno volte al lavoro. «E la questione trasporti è notevolissima», osserva Accornero. « la prima ragione per cui i lavoratori accettano una concentrazione del lavoro in alcuni giorni soltanto anziché ridurre le ore giornaliere. evidente come sia poco pratico andare al lavoro tutti i giorni rimanendoci sempre meno». Poi cresce il tempo libero. «Perché, nel caso di una settimana lavorativa di quattro giorni, nei restanti tre si possono fare ben più cose che in un weekend». Scriveva, e non senza qualche azzardo, più di dieci anni fa, il sociologo Domenico De Masi: «La società post-industriale concede una nuova libertà: dopo il corpo, libera l´anima».
Il tempo libero, quindi, o quello - se si vuole - liberato dal lavoro, da un overtime in ufficio non sempre produttivo. Per ritrovare - secondo Saraceno - anche un rinnovato senso della comunità impegnandosi nel volontariato scolastico, nella tutela dell´ambiente urbano, nella manutenzione di base delle strade cittadine. Lontani - forse - da quell´idea di "ozio creativo" teorizzato qualche tempo fa, e più orientati verso una forma inedita di sussidiarietà su vasta scala.
L´idea di ridurre l´orario per aumentare il numero degli occupati ha sempre fatto storcere il naso agli economisti. L´errore, per i cultori della scienza triste, sta nell´assunto che il lavoro sia quantitativamente dato una volta per tutte e quindi possa poi essere distribuito. E invece nella dinamica dei mercati giocano anche altri fattori, tra tutti quello dell´innovazione tecnologica che restringe gli spazi per la manodopera ma finisce anche per creare nuove opportunità di impiego. « ampiamente dimostrato nella letteratura - sostiene Tito Boeri, professore alla Bocconi - che lavorare meno non vuole dire lavorare tutti. Ogni volta che si è stabilito per legge una riduzione obbligatoria dell´orario di lavoro, non solo si sono distrutte le ore, ma anche i posti di lavoro. L´unica strada che si può percorrere è quella della contrattazione aziendale, caso per caso, in base alle esigenze specifiche di datori di lavoro e lavoratori».
In un fitto carteggio del gennaio 1933 ne parlano ampiamente Giovanni Agnelli e Luigi Einaudi, allora entrambi senatori. Il primo - sorprendentemente per un industriale - si domanda se per affrontare la disoccupazione di massa di quegli anni arrivata al picco di 25 milioni di senza lavoro, anche per la progressiva meccanizzazione dei processi produttivi, non possa essere efficace una «riduzione generale uniforme delle ore di lavoro». Einaudi, futuro Governatore della Banca d´Italia e poi Capo dello Stato, replica che no, quel dubbio non ha fondamento. E spiega: «La disoccupazione tecnica non è una malattia; è una febbre di crescenza, un frutto di vigoria e di sanità. una malattia, della quale non occorre che i medici si preoccupino gran fatto, ché essa si cura da sé». Perché, appunto, nella concezione liberale è il mercato che ha in sé la terapia per riequilibrare il lavoro.
Eppure dagli anni Trenta a oggi la questione, anche in Italia, è rimasta sostanzialmente la stessa. Certo nel nuovo Millennio appare difficile trovare un imprenditore che possa ragionare nei termini del senatore Agnelli, ma è invece interessante notare che il tabù dell´orario sia stato timidamente rotto nella comunità degli economisti. Fiorella Kostoris è la studiosa che involontariamente suggerì nel 2004 all´allora premier Silvio Berlusconi di abolire un po´ di ferie per far lavorare di più gli italiani e accrescere la produttività. Ma ora il protagonista è le tempesta perfetta della crisi finanziaria. Così in un articolo sul Sole 24 Ore ha scritto a fine gennaio che sì, l´orario di lavoro è una delle leve su cui agire per difendere il lavoro. Ragiona sul caso tedesco ma per analogia la sua analisi sembra estensibile all´Italia. «Si è di fronte - sostiene Kostoris - ad uno shock negativo reale, sistemico, da domanda, che fa emergere un eccesso di offerta nelle aziende, non compensabile con vendite all´estero a causa della generalità della crisi; in passato invece la domanda interna e internazionale tiravano e la minaccia per l´occupazione tedesca veniva dalla eventuale sua sostituzione con lavoratori meno pagati. Di fronte all´eccesso attuale di offerta, la soluzione migliore sarebbe espandere con larghe detassazioni e con spese sociali i redditi dei lavoratori, dei consumatori e dei risparmiatori, nonché procedere a maggiori acquisti pubblici di prodotti privati. Poiché i limiti e i vincoli di finanza pubblica non lo consentono - conclude Kostoris -, al fine di colmare il divario fra offerta e domanda, si permette alle imprese di contrarre la produzione, diminuendo l´impiego di personale e contemporaneamente si riduce il consumo meno che proporzionalmente, in quanto il reddito dei parzialmente occupati è sostenuto dai sussidi pubblici».
Insomma si riduca l´orario per garantire ai lavoratori il lavoro e un reddito che possa sostenere un po´ la domanda. In attesa di tempi migliori, però. Sia chiaro.