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 2009  febbraio 09 Lunedì calendario

LA TENTAZIONE DI UNA TERAPIA EURO PER LA GRAN BRETAGNA AMMALATA

Una decina d’anni fa, ai tempi di Tony Blair, del boom economico, della "Cool Britannia", ossia della Gran Bretagna trendy e vincente, qualcuno l’aveva ribattezzata "ManhattansulTamigi": e in effetti a un certo punto, quando la City aveva superato Wall Street come volume d’affari, era sembrato che Londra fosse in grado di surclassare perfino New York come capitale mondiale della finanza e di tutto quanto gira attorno ai soldi, dunque l’arte, lo show business, la moda.
Ma adesso, ai tempi di Gordon Brown e della recessione globale, l’Economist la chiama Reykiavik sul Tamigi, allusione che suscita brividi di paura tra banchieri e broker della sua Borsa: perché in essa è implicita la previsione, o perlomeno il timore, che Londra e il Regno Unito siano destinati alla bancarotta, come è capitato all’Islanda. E’ stato proprio il paragone con la gelida isola un po’ più a nord a far circolare a Whitehall, il quartiere della politica tra Westminster e Downing street, un’ipotesi che nessuno prima aveva preso seriamente in considerazione.
L’ipotesi è la seguente. Se a Reykiavik, meditata la lezione della spaventosa crisi economica, hanno pensato di rinunciare alla propria diversità e accelerare la richiesta di adesione all’eurozona, comprendendo che con lo scudo della moneta comune europea la recessione avrebbe fatto meno male e meno paura, non è forse auspicabile che lo stesso ragionamento venga considerato nell’altra ReykiaviK, appunto quella che si trova sulle rive del Tamigi?
All’inizio questo ragionamento ha fatto capolino in qualche editoriale sulle pagine del Financial Times e del Times; poi è rimbalzato in parlamento e nei dibattiti di un paio di think tank.
Finchè, a darvi sostegno e credibilità, sono intervenute due dichiarazioni ad altissimo livello nel breve spazio di due mesi.
Prima Juan Manuel Barroso, presidente della Commissione Europea, si è lasciato scappar detto che "la gente che conta", a Londra, è ora più favorevole all’adozione dell’euro. Dopodiché, nei giorni scorsi, Joaquin Almunia, commissario Ue per gli Affari economici, ha ripetuto che "c’è una forte possibilità" che la Gran Bretagna entri nella moneta unica. Successivamente, il commissario europeo ha un po’ moderato e precisato le sue parole, riconoscendo che tale ipotesi è più realistica nel "lungo termine che nel medio periodo".
E quanto alla frase di Barroso, era arrivata anche qui una correzione, precisamente una cortese smentita dal primo ministro britannico in persona: «Potete continuare a fare i vostri investimenti in sterline quest’anno, l’anno prossimo, e in quelli a venire», ha detto Gordon Brown.
Il suo ministro per le Attività Produttive, Peter Mandelson, ex commissario europeo al Commercio ed ex braccio destro di Blair, aveva però nel frattempo ammesso, in un’intervista televisiva, che l’ingresso della Gran Bretagna nell’eurozona era un’ipotesi fondata, quando farlo sarà nell’interesse della Gran Bretagna. Che per certi versi è la posizione adottata da sempre da questo paese; ma che, ripetuto all’indomani delle dichiarazioni di Barroso (il quale, secondo le indiscrezioni, si sarebbe riferito proprio a Mandelson, parlando di "gente che conta"), assume perlomeno il tono di una mezza conferma.
Ciò nonostante, basta un breve giro di orizzonte per comprendere che un eventuale passaggio del Regno Unito all’euro resta lontano: anzi, è possibile che entro poco più di un anno si allontani ancora di più. Prima di tutto conviene ricordare che poco dopo l’avvento al potere dei laburisti, nel 1997, quando Tony Blair prometteva di "portare la Gran Bretagna in Europa" e non faceva mistero delle sue simpatie eurofile, Brown, nel ruolo di numero due del governo e del partito, con l’incarico di cancelliere dello Scacchiere ovvero ministro del Tesoro, era decisamente meno entusiasta del progetto.
Fu proprio Brown, secondo le ricostruzioni dell’epoca, a scribacchiare sui sedili di un taxi a Washington, insieme al suo consigliere Ed Ball (oggi ministro dell’Istruzione e chiacchierato come un possibile futuro leader del Labour), i cinque criteri che la Gran Bretagna doveva valutare per decidere se in futuro aderire all’euro oppure no.
Riassunti in breve, Londra poneva una serie di condizioni: avrebbe detto sì all’euro solo se le strutture economiche e finanziarie della Ue fossero state "compatibili" con le proprie, se ci fosse stato sufficiente "flessibilità", se l’adesione avesse creato migliori prospettive per gli investimenti nel Regno Unito, e se avesse promosso una maggiore crescita economica, stabilità e aumento dell’occupazione. Nel ’97, il ministero del Tesoro, solo giudice titolato a decidere se i cinque test erano stati superati dall’euro, decise per il no.
Nel 2003 riesaminò il problema, e rispose di nuovo di no. In seguito, man mano che Blair si indeboliva politicamente e Brown premeva per prenderne il posto, l’ipotesi di un’adesione è stata praticamente abbandonata.
Un altro fattore di cui bisogna tener conto è che oggi, come ha notato di recente Lorenzo Bini Smaghi, il membro del direttivo della Banca Centrale Europea incaricato degli affari internazionali, ci sarebbe un "blocco" di fatto.
La Gran Bretagna non supererebbe nemmeno i criteri stabiliti dalla Ue per aderire all’euro e contenuti nel trattato di Maastricht: «Il deficit pubblico crescerà al 6 per cento del pil nel 2009 e ancora di più nel 2010 e il cambio della sterlina non è sufficientemente stabile», ha detto senza mezzi termini Bini Smaghi.
Vari osservatori ritengono che Bini Smaghi sia stato anche troppo ottimista, perché il Tesoro britannico si aspetta ora che il deficit raggiunga quest’anno i 118 miliardi di sterline, l’8 per cento del pil, e alcuni analisti intravedono addirittura il rischio che arriva al 10 per cento, il tipo di livello catastrofico visto in America Latina negli anni ’80.
Quando alla sterlina, il suo calo del 30 per cento in pochi mesi equivale alla maggiore svalutazione sofferta da qualsiasi paese del mercato comune europeo da quando fu creato nel 1957. Le regole per entrare nell’eurozona, come è noto, impongono viceversa un tetto del 3 per cento del pil per il deficit pubblico e due anni di stabilità monetaria: è vero che furono aggirate per permettere l’ingresso di Italia, Belgio e Grecia, ma ora vengono fatte osservare più severamente per escludere l’accesso agli stati dell’Europa orientale prima che essi siano effettivamente pronti per un simile passo.
E’ vero che proprio il declino della sterlina ha privato i sudditi di Sua Maestà di una delle basi psicologiche più forti del proprio euroscetticismo: quando la loro moneta era più forte, sembrava insensato rinunciarvi per avventurarsi in una divisa dal futuro apparentemente incerto come l’euro; mentre adesso le parti si sono sostanzialmente rovesciate.
Ma c’è un’altra ragione di fondo che per il momento ostacola qualsiasi serio discorso di avvicinamento di Londra all’euro, ed è la netta differenza strutturale tra il mercato immobiliare britannico e quello dell’Europa continentale. Storicamente, il cittadino medio del Regno Unito ha sulle spalle un sostanziale volume di debito a tasso variabile, contratto nell’acquisto della casa, in un paese in cui molta più gente compra la casa (e comprava come investimento, almeno fino a prima della crisi) rispetto a quanto accade in Europa.
Ciò rende i britannici più sensibili ai tassi d’interesse che alle quotazioni della sterlina, il contrario di quanto accade nel resto d’Europa, dove la gente ha generalmente risparmi più alti e debiti più bassi, sicchè il taglio dei tassi è un’arma a doppio taglio.
La Banca d’Inghilterra, invece, lo sta adoperando spregiudicamente, avendo fatto calare il tasso di sconto dal 5 all’1 per cento in poco meno di sei mesi (l’ultimo ritocco al ribasso è della settimana scorsa) con la possibilità di farlo scendere ulteriormente, sul modello americano, per evitare un totale collasso del settore immobiliare e facilitare il credito a privati ed aziende nella speranza di rimettere in moto l’economia.
A queste esigenze "tecniche" si somma poi una ritrosia politica e culturale a consegnarsi all’Europa e a quella alleanza francotedesca che viene ancora percepita a Londra come un avversario, se non un nemico, appesantito da una concezione burocratica dell’economia e dello stato. Dice a "Repubblica" un senior partner (italiano) di una delle più importanti banche della City: «Non uno dei banchieri inglesi che conosco nella City, espressione dell’establishment, è favorevole all’euro».
Conferma un’alta fonte diplomatica: «Se i conservatori, come al momento pare probabile, vinceranno le elezioni legislative dell’anno prossimo e andranno al governo, l’euro si allontanerà ulteriormente, perché i loro leader, David Cameron e George Osborne, sono profondamente euroscettici».
E un recente sondaggio della Bbc rivela che anche il 70 per cento della popolazione condivide simili sentimenti.
Morale: è più probabile che all’euro aderiscano prima l’Islanda e magari la Danimarca e la Svezia, piuttosto che la Gran Bretagna.
Nel "lungo termine", certo, anche Londra potrebbe farsi convincere, come ipotizza il commissario europeo Almunia; ma nel lungo termine, come diceva Keynes, saremo tutti morti.