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 2009  febbraio 08 Domenica calendario

ECCE HOMO, DISSE CHARLES


Una delle più epiche espressioni di modestia intellettuale è stato certamente il commento di Charles Darwin verso la fine dell’Origine delle specie, il suo capolavoro del 1859, quando scrive che la teoria dell’evoluzione «dovrebbe fare luce sull’origine dell’uomo e sulla sua storia». In effetti, un secolo e mezzo dopo, le sue idee continuano a sorreggere la scienza della paleoantropologia ancora in pieno rigoglio, una vasta impresa multidisciplinare con una potente presa sull’immaginazione del pubblico. Nessun’altra area della scienza risponde in modo così diretto al bisogno viscerale dell’uomo di sapere chi siamo e da dove veniamo, né dipende più direttamente nei suoi fondamenti teorici dalla visione darwiniana del mondo. Per i membri di una specie che ama guardarsi allo specchio, la paleoantropologia – lo studio dell’evidenza fisica dell’evoluzione umana – ha esercitato sin dai suoi primi vagiti un fascino unico e durevole. Eppure, anche se i primi fossili umani erano già conosciuti quando Darwin scrisse L’origine, ed erano ampiamente dibattuti al tempo in cui, una decina di anni dopo, egli pubblicò L’origine dell’uomo – libro di vasta eco – era risaputo quanto lo stesso Darwin fosse restio ad affrontare in prima persona la questione dell’evoluzione umana.
Oggi, i sempre più numerosi reperti documentano ampiamente che, se pure Homo sapiens è insolito e senza precedenti come singola entità, il pattern essenziale dell’evoluzione umana è stato molto simile a quello degli altri gruppi di mammiferi di successo. Invece di essere la lunga marcia a senso unico ed essenzialmente unilineare da uno stato di primitività alla perfezione, come la immaginavano i "neodarwinisti" di metà Novecento, l’evoluzione ominide è stata una questione di sperimentazione evolutiva ripetuta.
In sostanza, il quadro suggerisce che negli ultimi sette milioni di anni circa nuove specie di ominidi sono state incessantemente gettate nell’arena ecologica per sopravvivere e dare origine a specie discendenti, oppure per fallire ed estinguersi senza progenie, come è successo alla maggior parte di esse. Questo pattern è evidentemente valso in tutti i punti della storia evolutiva umana. I primi ominoidi bipedi conosciuti, del periodo compreso tra circa sette milioni e quattro milioni di anni fa, sono un raggruppamento eterogeneo, come lo furono successivamente gli australopitechi, dal cervello di piccole dimensioni e dalle proporzioni arcaiche, nel periodo che va da circa quattro milioni a un milione e mezzo di anni fa. Persino all’interno del nostro genere, il genere Homo, che salì in modo convincente alla ribalta meno di due milioni di anni fa, la diversità è stata il tema dominante. Oggi i paleoantropologi riconoscono comunemente più di mezza dozzina di specie del genere Homo, e altre sono in arrivo.
La nostra linea si è separata da quella che ha portato ai neandertaliani più di mezzo milione di anni fa, e i fossili mostrano un chiaro segnale di varietà persino dopo questa divergenza. Abbiamo evidenze, per esempio, che trentamila anni fa almeno quattro specie di ominidi si spartivano il mondo.
Quasi certamente, il fatto che oggi noi Homo sapiens siamo l’unica specie di ominidi sopravvissuta dice molto riguardo alle nostre peculiari qualità. Come risultato di questa lunga storia di diversità, la filogenesi umana si accorda perfettamente con il diagramma ramificato mostrato dall’unica illustrazione che abbelliva le pagine dell’Origine nel 1859. Lo si vede chiaramente nella mostra Darwin (1809-2009), in cui l’albero della famiglia umana appare sotto forma di un lussureggiante cespuglio ramificato, sul quale Homo sapiens compare come un singolo rametto terminale fra molti altri.
La documentazione paleoantropologica consiste principalmente di denti, ossa e manufatti in pietra. In sé, tali resti sono oggetti statici, fissi, freddi. Eppure, testimoniano una storia straordinariamente dinamica. Questa storia è niente meno che il grande dramma senza fine dell’esistenza umana, che si è sviluppato, e continua a farlo, nel rispetto delle regole che Darwin e il collega Alfred Russel Wallace espressero per primi. Naturalmente, fossili e manufatti possono essere, in quanto oggetti, piacevoli alla vista e alla mente dell’uomo, e meritano di essere inclusi in una mostra per le loro pure qualità estetiche o per il richiamo simbolico che esercitano. Ma rivolgendoci a un pubblico di non esperti, per completare la storia che tali oggetti raccontano è necessario, per così dire, rimpolpare le ossa e rappresentare morfologie da tempo svanite come apparivano quando erano in vita. Nessun processo di ricostruzione è affidabile in ogni singolo dettaglio, ma uno scrupoloso approccio per gradi può produrre notevoli somiglianze con i nostri antenati estinti: immagini che possono riportare all’esistenza questi nostri avi, come fossero creature vive.
In Darwin 1809-2009 abbiamo mostrato come si fa presentando quattro stadi del processo di ricostruzione del torace di Lucy, forse il più celebre ominide fossile. Com’è prevedibile in un essere vissuto circa 3,2 milioni di anni fa, la minuscola Lucy, con il suo modesto metro di statura, aveva proporzioni arcaiche. Eppure, in quanto bipede che deambulava in posizione eretta, Lucy si era già avventurata lungo il sentiero che avrebbe condotto al genere Homo. Ma, oggi, non ci rimangono che le sue ossa. Qual era il suo aspetto reale, là nel mondo? La mostra illustra come una manciata di frammenti ossei è assemblata in un cranio completo, al quale il tecnico applica prima i muscoli profondi e poi quelli superficiali, guidato da una profonda conoscenza dell’anatomia comparata. Le strutture cartilaginee del naso sono ricostruite sulla base della struttura ossea sottostante, dopodiché sono applicati il grasso sottocutaneo e la pelle. Lo stadio finale prevede l’aggiunta delle orecchie, degli occhi e dei capelli, e l’applicazione del colore alla pelle. Molti di questi ultimi passi prevedono un istruito lavoro di approssimazioni. Ma, lungi da essere la parola definitiva, il risultato finale è compatibile con l’informazione ossea da cui siamo partiti. E lo spettatore si trova faccia a faccia con un essere tangibile!
Uno degli aspetti più notevoli della nozione fondamentale di Darwin, la «discendenza con modificazioni», come spiegazione delle ragioni per cui la Natura è organizzata così come la troviamo, è il suo essere sopravvissuta intatta a un secolo e mezzo di verifiche rigorose attraverso nuove osservazioni.
Quando espresse inizialmente le sue idee radicali, Darwin sapeva che l’ereditarietà era il segreto per farle funzionare, ma non aveva idea di come funzionasse l’eredità biologica. Non importa: ciò non influenzò l’accuratezza delle sue osservazioni. Qui l’aspetto significativo è che più sono aumentate le conoscenze sul Dna – la molecola dell’ereditarietà – più abbiamo trovato evidenze a sostegno della conclusione originaria di Darwin. Egli comprese che la natura era organizzata in gruppi all’interno di altri gruppi, una geometria spiegabile solamente dalla discendenza con modificazioni. Ma, poiché in alcuni casi la modificazione a livello anatomico è stata estrema, si è spesso rivelato difficile identificare gli esatti schemi di ascendenza e discendenza implicati. stato perciò gratificante scoprire che, sotto alcuni aspetti, il genoma, ovvero l’intero corredo di Dna e di molecole assortite, è molto più conservatore di quanto lo siano le morfologie, fornendoci una fonte complementare e, in qualche caso, più facilmente interpretabile di evidenze per sistemare la struttura dell’albero della vita rispetto alla tradizionale anatomia comparata. E, a distanza di un secolo e mezzo dalla pubblicazione dell’Origine, stiamo scoprendo che le evidenze del genoma confermano le assunzioni di Darwin!
In nessun campo ciò è più vero che nella paleoantropologia. Non solo le evidenze del Dna hanno pienamente confermato che Homo sapiens trova una sua sicura collocazione all’interno della radiazione delle grandi scimmie, ma il recente isolamento di piccoli segmenti di Dna dai fossili neandertaliani in Italia e in altri Paesi ha dimostrato che, se pure i neandertaliani sono molto più vicini a Homo sapiens nella struttura del Dna di quanto entrambi lo siamo alle scimmie antropomorfe, essi sono pur tuttavia distinti da noi e dobbiamo riconoscerli come appartenenti alla specie separata Homo neanderthalensis. In più, quando si è trattato di ricostruire la complessa storia della diffusione di Homo sapiens in tutto il mondo seguendo l’origine della nostra specie circa 150-200mila anni fa in Africa, le evidenze del Dna si sono rivelate vitali. In questo breve intervallo, la documentazione fossile si è dimostrata sporadica e di scarso aiuto nella ricostruzione della storia delle popolazioni. La comparazione dei genomi tra le popolazioni moderne ci fornisce in assoluto il migliore percorso di avvicinamento per mettere ordine in queste storie. La storia di come la nostra specie ha assunto il controllo del mondo è letteralmente scritta nei nostri geni, ed è interamente darwiniana.