Caroline Stevan (Le temps)Internazionale 3/2/2009, 3 febbraio 2009
EMILOU MACLEAN VIA DA GUANTANAMO
Lean si svegliava tutti i giorni alle quattro del mattino per sapere cosera successo nel mondo. Ancora mezza addormentata, si precipitava a prendere il giornale per leggere di torti subiti e malefatte, immaginando di vestire un giorno i panni della giustiziera.
Oggi Emilou, trent’anni, è avvocato presso il Center for constitutional rights (Centro per i diritti costituzionali, Cer), un’organizzazione newyorchese che si occupa del rispetto della costituzione degli Stati Uniti, della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e delle norme a tutela della libertà personale previste dall’habeas corpus.
Guantanamo è il suo cavallo di battaglia. Il carcere statunitense a Cuba è il simbolo delle derive dell’amministrazione Bush dopo l’inizio della guerra al terrorismo. Dal gennaio del 2002 la prigione ha ospitato 775 detenuti, di cui 255 sonoancorain attesadel riconoscimento del loro status giuridico e del processo. Pochissimi sono stati giudicati colpevoli. "Il governo ha fatto molta propaganda per convincere i cittadini che queste persone erano feccia", dice Emilou. "In realtà, molti di loro sono stati arrestati perché si trovavano nel posto sbagliato al momento sbagliato. E molti sono stati venduti". Mi mostra un volantino che, alla fine del 2001, i soldati statunitensi distribuivano nei villaggi afgani e pachistani per invitare la popolazione a denunciare eventuali sospetti (il disegno raffigura un uomo con la barba). In cambio venivano offerti "milioni di dollari" e la promessa di una vita migliore. "Potrete provvedere alla vostra famiglia, al vostro villaggio, allavostra tribù pertutta la vita", si legge nel foglio."Potrete comprare bestiame e libri di scuola, pagare i medici e dare un tetto a tutti i vostri parenti".
Da quasi sette anni il Cer si batte per definire chiaramente lo status giuridico dei detenuti di Guantanamo e per assicurargli un avvocato che li difenda al processo. La corte suprema degli Stati Uniti ha già pronunciato diverse sentenze favorevoli alle istanze avanzate dall’organizzazione: per esempio, ha dichiarato illegittime le commissioni militari speciali create dall’amministrazione Bush per giudicare i detenuti di Guantanamo, e ha riconosciuto il diritto dei prigionieri ad appellarsi alla giustizia ordinaria. Ma il governo statunitense le ha sempre aggirate facendo approvare nuove leggi.
"L’unico criterio usato per liberare i prigionieri di Guantanamo è la nazionalità", spiega Emilou. "Per primi sono stati rilasciati gli occidentali, poi i cittadini di paesi alleati degli Stati Uniti come l’Arabia Saudita. Restano in carcere solo i detenuti originari di paesi poveri e privi d’importanza strategica, per esempio lo Yemen, e quelli che non possono tornare in patria perché rischiano di essere messi a morte o torturati: siriani, libici, tunisini, cinesi, tagichi e anche russi".
Un problema internazionale
Emilou si occupa proprio di questi prigionieri: cerca di impedirne il rimpatrio, convincendo gli Stati Uniti o un altro paese a concedergli l’asilo politico. Nel novembre del 2008 è stata in Svizzera per risolvere i casi di un algerino, di un libico e di un uiguro a cui l’Ufficio federale della migrazione aveva rifiutato l’accoglienza. "Il mio compito è trovare dei paesi dotati di strutture d’accoglienza adeguate, dove siano già presenti delle comunità che parlano la stessa lingua dei detenuti che stanno per essere liberati. Un quinto dei prigionieri di Guantanamo sta aspettando il visto che gli consentirebbe di abbandonare la base. Quella prigione è un disastro per gli innocenti, per gli Stati Uniti, per gli altri paesi occidentali e per i diritti umani in generale. E’ un problema internazionale che dobbiamo risolvere insieme".
Alcuni pensano che il governo statunitense debba trovare da solo le soluzioni ai danni causati dalla sua politica, ma la giovane donna è più realista: "Anche i paesi europei hanno mandato i loro poliziotti a Guantanamo, non possono dire che il problema non li riguarda. Obama, che è stato eletto presidente nonostante fosse accusato di essere una spia musulmana e un amico dei terroristi, non può permettersi di liberare in una volta sola tutti questi uomini e accoglierli negli Stati Uniti. Dal punto di vista politico sarebbe una mossa troppo rischiosa".
Il 22 gennaio Emilou è tornata a New York dopo aver visitato per la prima volta Guantanamo. Per ottenere l’autorizzazione a entrare nella base cubana i suoi familiari, amici e colleghi hanno accettato di farsi interrogare dalle autorità. Emilou lavora al Cer dal 2006, dopo aver trascorso un periodo in Sudafrica lavorando per Medici senza frontiere. "Sono andata in Africa mentre studiavo ancora scienze politiche, perché volevo fare qualcosa di concreto nel campo dei diritti umani. Ero affascinata dalla costituzione sudafricana, un esempio di progressismo, e mi sembrava che quel paese potesse fare degli enormi passi avanti". Con i suoi colleghi si occupava di garantire l’assistenza sanitaria agli abitanti delle bidonville. Emilou racconta che sono stati i suoi genitori a trasmetterle la voglia di rendersi utile e l’avversione per le ingiustizie. Il padre lavora in un’autoscuola e la madre ha ricominciato da poco gli studi per diventare infermiera. Entrambi seguono la politica e sono attivi a livello locale.
In Sudafrica Emilou ha conosciuto degli "avvocati attivisti" "Mi hanno fatto capire che usando la legge nel modo giusto si può migliorare la vita della gente", racconta. Di ritorno a Boston ha deciso di riprendere gli studi, concentrandosi sulla giurisprudenza. Dopo aver ottenuto la laurea si è trasferita a New York per lavorare al Cer, che è stata fondata nel 1966 sull’onda dei movimenti per i diritti civili. Spesso Emilou deve affrontare difficoltà simili a quelle che ha incontrato in Sudafrica. "In questo periodo lavoriamo molto su questioni legate alla guerra al terrorismo, come le torture o i voli segreti della Cia. Ma i vecchi problemi sono ancora all’ordine del giorno. I neri sono ancora discriminati: rispetto ai bianchi hanno meno possibilità di accedere alla giustizia e i loro diritti economici e sociali sono meno tutelati. Spesso subiscono maltrattamenti da parte della polizia". E’ un lavoro da matti", dice Emilou, ammettendo che la famiglia e gli amici sono indispensabili per mantenere l’equilibrio. "Chi si occupa di problemi così gravi ha spesso bisogno di prendere una boccata d’aria".