Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2009  febbraio 04 Mercoledì calendario

CAMERETTA DI VERGOGNA


Uno dei meccanismi culturali più sorprendenti per noi europei è il sistema di dicotomie su cui si regge la vita quotidiana dei giapponesi. Nel suo straordinario Il ritratto dell’imperatore (Medusa) dedicato alla storia del ritratto dell’Imperatore del Sol levante, dopo la restaurazione Meiji-, Koji Taki, uno dei più interessanti intellettuali giapponesi, descrive quel sistema elencando le coppie più significative: hare/ke (occasione ufficiale e situazione quotidiana), tatemae/honne (affermazione ufficiale e intenzioni non espresse), omote/hura (facciata e parte segreta). Taki spiega che ogni evento, situazione, parola presenta sempre due risvolti: uno espresso in modo diretto, ufficiale, e uno privato, segreto; meglio: ambiguo.
L’ambiguità sembra essere la forma stessa della vita dei giapponesi, delle loro relazioni, un’ambiguità che noi occidentali non comprendiamo e percepiamo negativamente. C’è una parola concetto in quella lingua che la esprime in modo perfetto: aimai. Significa «indistinto, oscuro, equivoco, incerto, dubbio, ambiguo, poco chiaro, vago, indefinito, duplice, a doppio taglio», e così via, come ha scritto Kenzaburo Oe, Nobel per la Letteratura 1995. L’aimai deriverebbe dal clima e dalla conformazione orografìca del Giappone, paese montuoso, in cui la gente è stata costretta a vivere in strette comunità, e a cercare l’armonia reciproca. Taki sostiene che l’ambiguità è il cemento stesso della struttura gerarchica del Giappone, che si è prolungata sino ad anni recenti, e che si esplica nel militarismo della Seconda guerra mondiale ma anche nello sviluppo economico e tecnologico degli anni cinquanta e sessanta. L’ambiguità spiega persino la ragione per cui i giapponesi riescono a resistere in città sovraffoflate, confuse, caotiche, senza che nessuno, o quasi, esploda. C’è una coppia spaziale, omote/ura che significa facciata e retro, parte visibile e parte privata. Ebbene, secondo Taki, gli elementi della dicotomia si suddividono a loro volta in due, così che c’è una parte omote nell’ura, e una parte ura nell’omote, in una sequenza quasi senza fine. Mentre la logica occidentale si sviluppa in verticale, ad albero, quella giapponese procede invece verso una sorta di profondità, scende verso gradi sempre maggiori d’arnbiguità moltiplicando le sue ramifìcazioni: «In altre parole, la logica giapponese si esprime attraverso una sorta di repressione stratificata e sistematica defl’irrisolto». Questo sino alla fìne degli anni ottanta dei XX secolo, mentre oggi le cose non stanno più esattamente cosi.
Carla Ricci, un’antropologa che lavora da anni al Dipartimento di Psicologia Clinica dell’università di Tokyo, ha pubblicato un libro su un fenomeno inconsueto, Nikikomoti: adolescenti in volontaria redusione (Franco Angeli, pp. 88, £ 13,00). Si tratta ch oltre un milione di ragazzi in prevalenza maschi primogeniti che si richiudono in casa, nella propria camera, per tiri breve periodo iniziale, ma poi prolungano il loro isolamento rispetto al mondo estemo per molti anni: il 2% dei giovarú, l’1,1% dell’intera popolazione giapponese. il tennine Hikikomori significa: isolarsi, chiudersi, ritirarsi. Non è una malattia, almeno hùaalmente, bensì uno stato fisico, spaziale, ma che si trasforma col passare del tempo in una vera e propria patologia mentale. I ragazzi si separano dalla stessa vita famighare, alimentari dalla madre attraverso il cibo posto davanti alle porte chiuse delle loro stanze. Sino agli anni sessanta la maggioranza dei giapponesi viveva in abitazioni in cui leggeri scoitevofi di carta di riso e legno venivano utilizzati la sera per trasformare l’ambiente comune in camera da letto. Genitori e figli dormivano insieme.
Una delle coppie di cui tratta Carla Ricci è composta da soto e uchi. fuori e dentro. Il ragazzo hikikomori si relega nefl’uchi. L’aunice osserva che le parole in Giappone producono atti sociali che modificano l’essere nel mondo degli individui, come ci ricorda tiri libro di Rogerj. Davies e Osamu lkeno (La mente giapponese, Meltenìi), vero e proprio manuale per occidentab che intendono avvicinarsi al paese del Sol Levante. Per capire come sia possibile che un milione di adolescenti rifiuti la vita con i propri coetanei aspirazione foridainentale per rifugiarsi in una stanza; sentendosi nel contempo soto, ftiori, nel centro stesso dell’uchi, dentro, Carla Ricci ci n’manda al concetto di amae, che può essere tradotto cosi: «dipendere dalla benevolenza alniú». Questo è la radice del rapporto che s’instaura quando, nefl’infanzia, il bambino giapponese si separa dalla madre e ne prende coscienza. A quel punto, non essendo più tutt’uno col corpo di chi l’ha generato, H bambino percepisce un legame di dipendenza. Intorno all’anima si articolano altre parole concetto che riguardano il senso dell’obbligo verso gli altri (genitorii in primis), giri, ma anche H riserbo, enryo, e altri ancora, sino al fondamentale sentimento della vergogna: haji.

Qui sta il punto. Tutta la cultura giapponese si fonda sul senso di vergogna, mentre quella occidentale s’articola invece su quello di colpa. La differenza sinteduo ovvixnente consiste nel fatto che mentre la colpa si può anche espiare, la vergogna invece no. L’occidente cristiano è fondato su un sistema culturale hi cui la vergogna non costituisce causa di malessere sociale dffuso, mentre la situazione hikikomori nasce proprio dalla vergogna: 9 ragazzo segregato ha sperimentato la vergogna in qualche situazione, per lo più scolastica. Inoltre H senso di colpa ha a che fare con la coscienza, mentre in Giappone l’individualità è molto debole: prevale il gruppo, la comurútà. La vergogna è diretta verso il proprio sé, e nei giapponesi questo fa nascere un senso d’incompletezza e d’inadeguatezza della propria esistenza. Le istituzioni giapponesi fanno leva sulla vergogna stessa: è compresa, approvata e addirittura usata per rafforzare i legami del gruppo.

Carla Ricci s’inoltra a spiegare la famiglia giapponese e i suoi carnbiamenti, per dare una ragione al conflitto degli adolescenti autosegregati. In questo modo, per antitesi, H suo studio ci fa capire la trasformazione in corso nella struttura mentale della nostra società. Così, come i giapponesi si sono progressi vamente occidentalizzab, anche noi europei, noi italiani in pardeolare, stiamo probabilmente diventando un po’ giapponesi. Non si tratta di un problema d’ambiguità - amai -, anche se con l’ambiguità gli italiani hanno molto a che fare, quanto piuttosto della scomparsa, o almeno defl’attenuazione, del senso di colpa a vantaggio della vergogna. Lo ha spiegato Gustavo Pietropolu Charinet, psichiatra e studioso del mondo degli adolescenti, in un libro molto acuto, Fragile e spavaldo (Laterza, pp. 125, euro 10,00): viviamo la fine del modello educativo fondato sulla colpa e sul castigo, di cui Edipo era il personaggio più emblematico, vittima e carnefice della colpa. Ora il posto di Edipo è tenuto da Narciso, «personaggio saturo di futuro», ma sempre a rischio di sbriciolarsi. L’adolescente odierno, italiano come giapponese, è a rischio della vergogna dal momento che aspira au’«esibizione sociale accompagnata dal successo molto più di Edipo che, sentendosi inconsciamente in colpa, non aveva alcun interesse a mettersi troppo in mostra, e preferiva agire sottobanco sperando di farla franca».
La vergogna è il sentimento del XX secolo, ci suggeriscono Ricci e Pietropolli Charmet. S’insinua pericolosarnente nello scarto tra come si vorrebbe e come si riesce ad apparire, ed è un sentimento molto più distruttivo defl’antico senso di colpa, come sperimenta il protagonista di Vergogna, H romanzo di Coetzee. Dovremo rimpiangere Edipo?