Si può curare, Sylvie Menard, (pagg. 76-86, 99-104, 106-108)., 7 febbraio 2009
SI PUO’ CURARE 2
CAPITOLO VII: LA MIA CURA (pagg. 75- 86)
Alla fine dell’estate 2005 mancano pochi giorni al mio primo ricovero terapeutico. Parenti e amici, per farmi sentire la loro partecipazione mi chiedono informazioni sulle cure che mi aspettano. Alcuni, sentendo parlare di tumore del midollo e di trapianto, mi chiedono se i medici andranno a sostituire il mio midollo malato con uno nuovo, sano, proveniente da un donatore. Altri, intuisco che associano il termine cellule staminali a feti e a embrioni. Capisco che per loro - non medici, non ricercatori - è difficile orientarsi in quella selva oscura di termini tecnici complicati e dunque cerco di riassumere loro il mio percorso terapeutico in modo semplice e chiaro.
Il percorso terapeutico che mi aspetta
Prima ancora di cominciare la terapia vera e propria mi sottopongo nell’estate del 2005 a quattro mesi di talidomide e cortisone - quasi il mio pane quotidiano - per ridurre le cellule tumorali nel midollo, e a un ciclo di chemioterapia per preparare il prelievo delle cellule staminali. Durante il prelievo la mia circolazione sanguigna sarà attaccata a una macchina che andrà a selezionare e raccogliere le cellule del sangue, tra cui le cellule staminali sane che le passeranno attraverso. Ma che cosa sono le cellule staminali che si trovano nel sangue? Sono cellule immature, prodotte nel midollo osseo, e capaci di trasformarsi in tutti i tipi di cellule mature del sangue, dai linfociti alle plasmacellule alle piastrine e ai globuli rossi. Non hanno nulla a che fare con le cellule staminali dell’embrione.
A che cosa servirà questo prelievo? Servirà a creare una riserva di cellule sane necessaria a ricostruire tutte le componenti del mio sangue dopo l’azzeramento prodotto dalla chemioterapia ad alte dosi. Le cellule staminali dopo il prelievo saranno prima congelate per conservarle fino al momento del trapianto, poi il giorno del trapianto, dopo la chemioterapia, scongelate e quindi reintrodotte nel circolo sanguigno. Poiché le cellule sono mie, la reintroduzione delle cellule in circolo è chiamata autotrapianto.
La chemioterapia ad alte dosi è un bombardamento di farmaci che dovrebbe uccidere il maggior numero possibile di cellule tumorali. Purtroppo, la chemio non riuscirà a limitare i suoi danni solo alle cellule del mieloma, e anche molte cellule normali del sangue resteranno annichilite dal trattamento. Dopo questa terapia, in cui il sistema immunitario resterà privo di cellule funzionanti, la sopravvivenza sarebbe impossibile, se non ci fosse la possibilità di reimmettere in circolazione la riserva di cellule staminali normali raccolta in congelatori o addirittura in azoto liquido.
Dopo qualche giorno dall’autotrapianto le cellule staminali si riattiveranno e ricominceranno a difendermi da agenti esterni e infettivi. Fino a quel momento dovrò però rimanere isolata per evitare il contatto con ogni sostanza che possa farmi ammalare: sarò senza difese.
L’autotrapianto non è di per sé parte della terapia, ma un antidoto necessario contro un effetto collaterale della chemio altrimenti letale. Infatti, l’immunodepressione totale dovuta all’eliminazione delle cellule buone del midollo non è compatibile con la vita.
Trapianto allogenico: un’altra opzione di cura
Oltre all’autotrapianto esiste anche un’altra possibilità, chiamata trapianto allogenico, in cui le cellule staminali reinfuse nel sangue dopo la chemioterapia derivano da un donatore compatibile con il paziente.
Il nostro sistema immunitario ci difende da organismi estranei potenzialmente aggressivi e dannosi attraverso un sistema di riconoscimento. I globuli bianchi sono le cellule del sistema immunitario che operano tale distinzione attraverso l’individuazione delle molecole che si trovano su una cellula, un tessuto o un organo. Se tali cellule riconoscono le cellule del trapianto, che siano renali o linfoidi, come altro da sé, danno inizio a una reazione a catena, chiamata rigetto, che alla fine porta alla distruzione di quelle cellule, considerate come un corpo estraneo, e non permettono al trapianto di attecchire.
Le cellule staminali ideali da utilizzare in un trapianto allogenico dovrebbero provenire da un donatore del tutto compatibile con le caratteristiche immunologiche del paziente che le riceve. La compatibilità assoluta, tuttavia, è un evento rarissimo, perché richiede che donatore e ricevente siano gemelli identici, omozigoti. Ma i gemelli omozigoti non sono comuni nella popolazione. Quindi le cellule staminali che nella maggior parte dei casi sono donate provengono dal midollo o dal sangue periferico di persone - di solito parenti stretti - che hanno la migliore compatibilità immunologica possibile con il paziente. Esistono anche banche di midollo, ma date la diversità enorme fra le caratteristiche immunitarie degli individui e la bassissima partecipazione di popolazione che pratica la donazione del midollo osseo, la probabilità di trovare un donatore adeguato al momento in cui le cellule staminali servono è piuttosto scarsa.
A differenza del trapianto autologo, che può solo ripristinare le cellule del sistema immunitario che si trovano nel sangue, il trapianto allogenico può anche avere una funzione terapeutica. Infatti, le cellule del donatore possono esercitare un’attività antitumorale, arrivando a volte a uccidere le cellule del mieloma. Questa possibilità terapeutica si scontra però con la tossicità di questo tipo di trapianto per l’organismo, che fino a qualche anno fa era molto elevata. I primi casi di trapianto allogenico registravano una mortalità di circa un paziente su tre, un rischio alto che poteva valere la pena di correre quando i malati di mieloma avevano comunque una probabilità elevata di morire in brevissimo tempo.
Da allora molte cose sono cambiate: con le nuove terapie la sopravvivenza è via via aumentata e dunque l’alto rischio di morire a causa del trapianto è diventato inaccettabile. Per questo motivo sono stati messi a punto nuovi metodi di trapianto allogenico meno tossici, ma anche meno efficaci dal punto di vista dell’attività antitumorale. Sebbene siano meno rischiosi che in passato, questi trapianti possono indurre effetti collaterali gravi, come una malattia da trapianto che in inglese si chiama «Graft versus host disease» (Gvhd) che può condizionare in maniera rilevante la qualità di vita del paziente.
Due ruote di scorta
Al momento della diagnosi voglio verificare se il trapianto allogenico è un’opzione terapeutica possibile per me. Chiedo così alle mie tre sorelle di sottoporsi a un prelievo da cui si possa valutare la loro compatibilità immunitaria con le mie cellule. Il primo ostacolo da superare è la burocrazia del sistema sanitario italiano a colloquio con quella francese. Per avere in maniera informale i risultati ci vorranno due mesi buoni, e chissà quanto occorrerà aspettare per la comunicazione ufficiale.
Due sorelle su tre risultano compatibili, un esito per nulla scontato, che ha del miracoloso. Infatti, per le leggi della genetica, avremmo potuto sperare al massimo nel venticinque per cento di compatibilità, cioè in una sola o nessuna sorella compatibile e non due!.
Mia sorella più piccola è compatibile al cinquanta per cento, un risultato che la mette a disagio e la fa sentire esclusa in un momento importante della solidarietà familiare.
Cerco di consolarla, spiegandole che le leggi della genetica non sono assolute, ma esprimono una probabilità che risulta precisa sui grandi numeri, non certo fra pochi individui come siamo noi quattro. Basta vedere come su quattro figli, i miei genitori avrebbero dovuto avere - per le leggi della genetica e per la gioia di mio padre - due maschi e due femmine, e invece è venuto fuori un bel gineceo senza cromosomi Y. Come struttura fisica ci conformiamo abbastanza bene alle norme dell’ereditarietà: siamo due bionde e due brune, due con occhi blu e due con occhi scuri. Sulla compatibilità da trapianto il caso ha invece voluto minori diversità.
Una delle due sorelle compatibili è invece molto felice di potermi eventualmente aiutare, non solo per l’ulteriore opzione terapeutica che ho guadagnato, ma anche per il mantenimento della sua buona salute, che d’ora in poi sarà oggetto di «tifo» da parte mia e di altre persone della famiglia.
Mentre scrivo questo libro non ho ancora deciso se mi sottoporrò al trapianto allogenico. So che è l’unica terapia che in alcuni casi può portare alla guarigione del paziente. I rischi che comporta non sono però trascurabili. Rimando la decisione - difficile da prendere - a quando avrò esaurito tutte le altre opzioni terapeutiche meno impegnative. Mi è comunque di grande sollievo sapere che in caso scelga questa opzione, avrò la possibilità di farla grazie alle mie sorelle «ruote di scorta».
La risonanza magnetica
Arriva il momento di verificare lo stato delle mie ossa. Il mieloma cresce infatti nelle cavità delle ossa lunghe, dove tende a produrre anche dei buchi quando deve farsi spazio. L’analisi dello stato del tessuto osseo tramite risonanza magnetica è perciò uno degli esami fondamentali per capire a che punto è cresciuto il tumore. Questa risonanza è il primo esame di questo tipo cui mi sottopongo nella mia vita. Ne sento parlare come dell’esame della «bara» e non mi entusiasma. Appuntamento alle 17 in punto, al terzo piano nel sottosuolo, dove è nascosto il reparto di medicina nucleare. Firmo le solite, infinite carte su tutti i disastri che mi potranno accadere poi, finalmente, verso le 18.30, tocca a me. Una gentile infermiera mi fa accomodare nello spogliatoio, dal quale devo uscire con addosso soltanto il camicino dell’ospedale e le mutande. Il camicino potrebbe coprirmi in maniera decorosa fino alle ginocchia se si potessero chiudere i lacci dietro alla schiena, ma al mio ne mancano diversi. Così esco dallo spogliatoio non proprio vestita e attraverso un intero reparto in mutande, in mezzo a pazienti, parenti di pazienti, colleghi e amici.
Al controllo successivo decido di non farmi più fregare dal camicino aperto e porto con me uno dei miei camici da lavoro puliti. Almeno posso chiuderlo sul davanti, evitando un secondo, indesiderato spogliarello. Anche il malato ha diritto al pudore! L’infermiera però non è d’accordo, non si può proprio derogare alla regola del camicino, ma io insisto talmente che alla fine acconsente.
Appena entro nel tubo avviene una specie di esplosione e sento una serie di rumori forti, come di un metallo che si spezza. L’infermiera mi fa uscire precipitosamente dal tubo. Il rumore tremendo è finito, ma cos’è successo? Una minuscola penna a sfera rimasta incastrata nella cucitura del taschino del camice è stata attratta dal potentissimo magnete della macchina. Se la mia gola o la mia faccia fossero state sulla traiettoria fra penna e magnete, che cosa sarebbe accaduto? Meglio non pensarci! Da quel giorno comprendo a pieno l’utilità della regola del camicino e sono disposta ad attraversare anche tutto l’Istituto mezza nuda piuttosto che rischiare un altro incidente simile (se però aggiustassero i lacci a nessuno verrebbe la tentazione di sostituire il camicino con abiti più pudichi, ma inadeguati all’esame).
Anche all’ingresso nella «bara» e agli strani rumori della macchina mi abituo con rapidità. E vivo ogni nuova risonanza come un momento di completa rilassatezza. Basta chiudere gli occhi e sognare. Con la copertina calda sulle gambe, si può perfino pensare di essere sdraiati su un lettino al sole.
Comincia la terapia
A settembre mi ricoverano due giorni per sottopormi a una prima chemioterapia, che prepara il mio midollo alla raccolta delle cellule staminali per l’autotrapianto. Passo tre giorni con la nausea, ma perdo solo 48 ore di lavoro perché faccio tutto a cavallo del fine settimana.
Secondo le previsioni dovrei perdere tutti i capelli in quindici giorni. Dopo quattordici non ne è caduto nemmeno mezzo, ma il quindicesimo giorno, quando mi passo le dita fra i capelli, la chioma mi rimane in mano. impressionante quanti capelli abbiamo, anche se corti. In quattro giorni cadono quasi tutti e posso inaugurare la parrucca che mi aspetta ormai da due mesi.
Il prelievo delle cellule staminali
Dopo dieci giorni di chemioterapia inizia il prelievo delle cellule staminali. Per tre giorni il mio sistema circolatorio è collegato a un circuito esterno, attaccato a una macchina speciale che seleziona le cellule del sangue utili al trapianto dal resto del sangue, che viene reinfuso. La macchina è in azione circa sei ore ogni giorno, per tre giorni, e io mi annoio parecchio, essendo completamente immobilizzata, con tubicini dappertutto. Io che svenivo solo all’idea di un ago! Mi sembra che il tempo non passi mai. Per fortuna i miei collaboratori - con la scusa di distrarmi - vengono a trovarmi in continuazione e ne approfittano per farmi lavorare un po’. Meglio così, li ringrazio per farmi sembrare queste ore un po’ meno vuote. Sono al telefono con Cicci quando vedo uno dei tubi in cui circola il mio sangue pieno di bolle di aria. Chiamo aiuto, urlando, e poi metto giù la cornetta. «I1 tubo pieno d’aria è quello in uscita - mi rassicura subito un’infermiera - non c’è pericolo, ma una verifica non è mai di troppo». Il tempo di risistemare il tubo che perde, e richiamo Cicci, che trovo un po’ arrabbiata con me per lo spavento che le ho fatto prendere. Non sto a dirle che anch’io mi sono spaventata un bel po’.
L’autotrapianto
A ottobre sono pronta per il primo trattamento choc: ricovero in camera sterile, chemio, trapianto e poi quattordici giorni in attesa che il trapianto attecchisca, prima di poter uscire dall’isolamento.
La chemioterapia deve eliminare il massimo delle cellule tumorali presenti nel midollo. Ma non essendo selettiva, elimina anche molte cellule normali, comprese le staminali. Dopo la chemio non produco più cellule che fanno anticorpi: la mia immunità è di fatto annullata, e per questo devo stare in una camera sterile, al riparo da ogni germe innocuo per chi ha un sistema immunitario integro, ma in potenza fatale per chi - come me - ha azzerato le proprie difese. Le cellule distrutte dalla chemio saranno sostituite dalle cellule staminali non tumorali che la macchina speciale a cui sono stata attaccata qualche giorno fa mi ha prelevato per il trapianto.
La camera - al sesto piano - è piccola ma piacevole, e c’è anche un bagnetto. Il dispositivo per la flebo è lungo circa tre metri e mi fa da cordone ombelicale: con quello attaccato posso andare dal letto alla poltrona e al bagno, ma non posso uscire dalla stanza. Una delle quattro pareti è di vetro. Per tutto il periodo del ricovero chi mi farà visita starà al di là di questo vetro e ci parleremo con l’interfono, come fanno i galeotti. Se saranno più di uno, potrò parlare solo con uno alla volta. La tecnologia che passa il convento prevede solo il téte-à-téte. Oltre il corridoio dove stanno i visitatori c’è una grande finestra e nei quindici giorni di ricovero avrò la fortuna di vedere tanti tramonti meravigliosi.urante la chemio mi suggeriscono di succhiare un ghiacciolo. Il freddo in bocca crea infatti una vasocostrizione dei vasi sanguigni, che limita la penetrazione del farmaco nelle mucose della bocca e può prevenire la conseguente mucosite, un’infiammazione acuta e dolorosissima che impedisce a molti malati di riprendere a mangiare dopo la chemioterapia. In effetti, la mucosite non mi viene. Devo ringraziare il ghiacciolo? Forse. Quel che so per certo è che di ghiaccioli nella mia vita non ne succhierò più, perché il solo pensiero di quel gusto freddo e zuccheroso mi fa venire il voltastomaco. un condizionamento del subconscio, e il mio adesso tende a essere un po’ invadente e prepotente.
Il giorno dopo la chemio mi sveglio abbastanza bene. Ho solo un poco di nausea e nient’altro. Due infermieri vengono a rifare il letto mentre io sto seduta nella poltroncina. Raccontano di un nuovo negozio in centro dove vendono cioccolatini buonissimi. Al pensiero del cioccolato mi viene un conato di vomito: mi precipito in bagno dove sento solo i primi sintomi dello svenimento, poi tutto buio. Mi risveglio sdraiata per terra con la fronte che perde sangue. Cinque o sei persone attorno a me spiegano che nell’uscire in maniera precipitosa dal bagno ho centrato in pieno l’apparecchio della flebo con la testa. Si chiedono se lo svenimento sia dovuto al colpo che ho preso o viceversa, se ho battuto la testa perché sono svenuta.
Per quindici giorni non riesco a mettere nulla in bocca per la nausea. La flebo con la soluzione glucosata sarà il mio unico nutrimento. Forse è per tale motivo che mi sento molto debole, ma al di là di questo sto bene. Oltre allo stomaco, l’organo più colpito è senz’altro il cervello. Per passare il tempo, durante l’isolamento mi sono portata di tutto: computer, lettore di cd, libri e perfino il Sudoku elettronico. In realtà non faccio assolutamente nulla - niente lettura, niente televisione (che comunque mi annoia), niente musica - perché non riesco a mantenere la concentrazione. Due settimane passano così, senza soffrire, ma anche senza fare nulla, in uno stato di sospensione al di fuori del mondo reale. Mi sento come dentro un acquario, i rumori del mondo esterno arrivano in maniera attutita e tutto è ovattato e lento.
Di chemioterapie ad alte dosi seguite da autotrapianto ne farò due, a distanza di tre mesi. Dei due ricoveri serbo un ricordo nel complesso molto positivo. vero, se ci ripenso mi rivedo imprigionata a subire dei trattamenti pesanti, ma sono talmente bene accudita da una squadra di infermieri meravigliosi e disponibili, che quasi quasi ho voglia di rimanere lì per sempre, senza pensare, come fossi rientrata per un po’ nell’utero materno. stata un pezzo di vita a parte che per me è valsa la pena vivere.
L’unica esperienza davvero negativa è il giro dei medici al gran completo, direttore in testa, seguito da tutti i clinici, inclusi i giovani specializzandi. Per la prima volta mi sento un ibrido fra la cavia e l’animale da circo, da analizzare per farei la lezione del giorno. Il mio caso suscita poi più di altri una buona dose di curiosità, che non è certo piacevole. Per fortuna la parata in pompa magna mi tocca una volta sola. Aspetto invece con ansia e con piacere la visita quotidiana del medico che mi segue. Quel momento lo attendo ogni giorno con un cumulo di domande che mi si affollano in testa e che mi sarebbe difficile porre davanti a una squadra di dieci persone. Perché io possa ricevere risposte adeguate servono infatti tranquillità e un rapporto più personale, quasi intimo, con un medico che deve anche dare la sensazione di avere il tempo di ascoltarti. Le domande sono in fondo sempre le stesse e costituiscono una verifica che quello che sta accadendo - i risultati degli esami del sangue, gli effetti collaterali, la debolezza - sia nella norma, come ci si aspetta, e che quindi tutto prosegua bene.
Alla seconda terapia ho più consapevolezze maturate con la prima cura e quindi faccio meno domande. Quando però alcuni parametri del sangue risalgono con un po’ di ritardo rispetto al primo’trattamento, mi metto subito in allarme.
Capisco che il giro con tutto il codazzo di medici sia necessario a formare buoni dottori, ma il paziente che presta se stesso alla lezione offerta al pubblico andrebbe ripagato con una visita individuale e personalizzata lo stesso giorno.
La morte in faccia
Siamo a maggio 2007, due anni dopo la diagnosi. Sono nel mio studio e durante una riunione di lavoro con alcuni collaboratori avverto un malessere che preannuncia uno svenimento. Chiamo subito Matteo, il medico che mi segue in quei mesi, che a sua volta avverte il medico di guardia, che dà uno squillo al cardiologo, che chiama il rianimatore, e così via nella catena del soccorso istantaneo. Io nel frattempo sto sempre peggio. Mi sdraiano su otto seggiole allineate nel mio studio perché non c’è posto in tutto l’Istituto dove mettermi su una barella. Malgrado la posizione, continuo a svenire e rinvenire, senza però riprendermi fra un episodio e l’altro. Ogni volta che riapro gli occhi vedo nuovi volti che mi guardano, ma nessuno sembra capire che cosa mi sta succedendo. Poi il mio corpo comincia a tremare con forza in ogni sua parte, comprese le mascelle che fanno un rumore insopportabile. La crisi dura pochi secondi, ma lo sforzo mi fa svenire di nuovo. Quando mi riprendo, capisco che si tratta di una crisi tetanica, una serie di contrazioni muscolari involontarie in tutto il corpo che si susseguono una dietro l’altra. Infatti comincia subito una seconda crisi, più lunga della prima, con sempre più contrazioni. Ballo sulle sedie allineate e ho una paura folle che si possano spostare lasciandomi cadere.
A ogni nuova crisi, più lunga della precedente, continuo a vedere le facce dei colleghi sempre più perplesse. Realizzo che durante le crisi, sempre più lunghe, a parte le terribili contrazioni, tutto il mio corpo è paralizzato, quindi non sto respirando. Sono così debole che non riesco a parlare e faccio fatica anche a tenere gli occhi aperti. Forse nessuno si sta accorgendo che non respiro: se nessuno fa niente fra quattro o cinque crisi rischio di morire asfissiata. Sento proprio che le forze stanno svanendo e che sto morendo. Infine, durante una crisi lunga e dolorosissima, sento pronunciare tre parole magiche: «carenza di calcio». Avverto un dolore alla mano, mi devono aver inserito in malo modo una flebo di calcio. Alla seconda bottiglia le crisi tetaniche diventano più brevi e piano piano si arrestano.
Mi risveglio in terapia intensiva, dove passerò tutta la notte. Mi sento stanca come dopo una corsa di cento chilometri. In effetti i miei muscoli hanno fatto un bell’esercizio fisico! La terapia intensiva non è proprio il posto migliore dove trascorrere una notte. Con me ci sono altri quattro o cinque pazienti, tutti appena operati, in una stanza unica con divisori, tranne uno, collocato in una stanza separata perché ha fatto un trapianto di fegato. Molti pazienti si lamentano, mentre io che ho dormito quasi tutto il pomeriggio faccio un po’ fatica ad addormentarmi. Devo chiedere un sonnifero per non stare sveglia tutta la notte.
Mi è andata bene un’altra volta, non sono morta. Da luglio 2005 sono passati due anni. Allora ho avuto paura di morire, questa volta no. Alla prossima.
CAPITOLO IX. LA RINASCITA (pagg. 99- 104)
Dalla sensazione di morte che provo al momento della diagnosi del mio tumore piano piano mi riprendo. un processo di lenta rinascita che si compie lungo tutta la prima fase della malattia e che mi obbliga a rivedere in profondità la percezione che ho di me stessa, della vita che ho vissuto fino a oggi e del futuro che mi aspetta. La morte, che fino a pochi giorni fa consideravo una tragedia da temere e rimuovere, si trasforma lentamente in un evento naturale ineluttabile, per il quale sento di dovermi preparare. Infatti è la morte degli altri, delle persone care che è una tragedia per chi rimane, per chi dovrà affrontare una vita senza la persona amata, per chi dovrà affrontare la solitudine che dà questa perdita. Nella propria morte, questa tragedia non c’è. solo la fine della vita e non origina sofferenza in chi muore. Ad accettare la mia morte come un evento naturale probabilmente mi aiuta il bilancio della mia vita, che stilo durante le lunghe notti d’insonnia e che mi pare, tutto sommato, molto positivo: rifarei tutte le scelte che ho fatto. Forse l’unico rimpianto che ho è di non avere avuto il coraggio di fare un secondo figlio, ma anche di questo non sono poi tanto sicura: Laurent è una persona meravigliosa, chissà se sarei stata altrettanto fortunata una seconda volta. Per dirla con Edith Piaf, Non, je ne regrette rien! Sento di poter affrontare con serenità il tempo che mi rimane e l’idea della mia morte.
Ma di notte è un po’ diverso, affiorano tante angosce e tante paure. Come venire a patti con questi mostri? Mi aiuto con il metodo che ho imparato più di quarant’anni fa da una professoressa di filosofia del liceo e che fin da allora mi aiuta a gestire le difficoltà e lo stress. Il trucco è semplice e non molto originale: nel momento in cui mi prende l’angoscia scrivo sempre tutto quello che non va, comprese le cose più banali o superficiali. Poi ordino i problemi per importanza, da quelli più gravi, per cui magari occorre prendere decisioni drastiche, a quelli più facili da risolvere. Grazie a questo metodo riesco quasi sempre a identificare con facilità il fulcro dei problemi, quello che condiziona forse una buona parte degli altri e che quindi dev’essere risolto per primo.
Nel momento in cui mi ammalo la lista che compilo comincia con la paura della morte, seguita da altre paure: del dolore della solitudine, di dovere cambiare vita, di diventare dipendente da altri. Il fulcro di tutti i problemi è però la paura di morire: risolta questa ossessione dominante, tutti gli altri ritrovano la loro giusta dimensione. Da questioni assillanti tornano a essere aspetti della mia esistenza da affrontare man mano che si presenteranno, se si presenteranno.
Diversi valori, priorità inedite
La mia vita non è più infinita. strano scrivere questa frase, perché tutti dobbiamo morire prima o poi, e lo sappiamo fin dai primi anni di vita. Oggi però la mia consapevolezza di questo fatto ineluttabile è divenuta concreta, materiale, mentre prima era un sapere solo razionale, astratto e distante da ogni forma di immedesimazione personale.
Forte di questa nuova consapevolezza, rivedo tutta la mia scala di valori e di priorità. Non posso più perdere tempo in cose che ritengo poco irnportanti o addirittura inutili, devo concentrarmi sui fondamentali. Quante volte mi sono lasciata vincere dalla pigrizia di fronte al viaggio lungo da affrontare e non ho visto mia mamma o le mie sorelle in occasione di feste, compleanni e altre ricorrenze? Quante volte, presa da scadenze o da impegni che mi sembravano inderogabili, ho trascurato mio suocero, vedovo, che viveva solo da anni e aveva solo noi tre, Lucio, Laurent e me come punti di riferimento? Quanti amici ho trascurato perché non avevo tempo?
Malgrado il grande amore e il rispetto che ho sempre nutrito per i miei genitori, ho capito di essere stata una figlia assente quando mia madre, annunciandomi la morte di mio padre, mi ha chiesto se sarei potuta andare al suo funerale. Lo avrei fatto, anche se nessuno me lo avesse chiesto e se avessi dovuto attraversare l’oceano a nuoto, ma per mia madre la mia presenza in quell’occasione non era un fatto scontato.
Mario Melazzini scrive nel suo libro Un medico, un malato, un uomo: «La malattia non porta via le emozioni, i sentimenti, e fa anzi che l’"essere" conti più del "fare"». vero, la malattia e la consapevolezza della morte producono emozioni nuove, non solo nella relazione con altre persone, ma anche nel contatto con la musica, un bel film o un bel quadro. Forse è l’idea di dover perdere tutto questo che fa apprezzare di più le cose belle, l’amicizia e l’amore per le persone care.
Cambiare idee e convincimenti
Proprio come quando uno si accorge di un bene prezioso nel momento in cui rischia di perderlo, in me nasce un intenso attaccamento alla vita che non ho mai sperimentato prima, che mi spinge a fare di tutto per tenermela stretta e che mi porta anche a cambiare prospettiva su alcuni forti convincimenti, politici e filosofici, che avevo prima di ammalarmi.
Le mie prime convinzioni esistenziali si plasmano dapprima in famiglia, dove sono educata a pensare che il principio fondamentale della vita è la libertà. Durante il Maggio francese faccio mio il motto « proibito proibire» quando da studentessa partecipo alla contestazione.
Non oserei mai negare la libertà agli altri, a condizione che la libertà altrui non vada a ledere la mia. Questo principio guida la posizione che prendo quando si scatena la battaglia per le leggi sull’aborto e sul divorzio che marca gli anni Settanta del secolo scorso. Penso che l’esistenza di queste leggi non obbligherà nessuno a divorziare o ad abortire, ma permetterà a chi ne avrà bisogno di agire e scegliere senza condizionamenti.
Prima di ammalarmi ho un convincimento simile anche sull’eutanasia: mi sembra da sottoscrivere l’idea che si possa provocare una morte indolore per porre fine alle sofferenze di un malato inguaribile. Quando Umberto Veronesi che è stato mio maestro e una persona cui devo buona parte della mia formazione e maturazione scientifica - lancia una campagna perché lo Stato italiano si doti di una legge sull’eutanasia e il testamento biologico, sono in completo accordo con lui: ogni persona dev’essere libera di scegliere come terminare la propria vita. Penso addirittura che, in caso il cervello funzioni male, sia meglio morire, e mi convinco che è esattamente ciò che voglio che accada se succedesse a me. Abbozzo anche la prima stesura di un possibile testamento biologico, senza riflettere un granché sulle possibili conseguenze di questo documento.
Quando mi sono ammalata tutto è cambiato. Di colpo la morte è diventata per me un fatto concreto, quasi tangibile, e la mia vita ha assunto un valore del tutto diverso. Ho iniziato a rielaborare il concetto di eutanasia. Perché un paziente dovrebbe voler abbreviare la proprio vita? Perché sta per morire? Voler accelerare un processo perché fa paura mi sembra proprio un’incongruenza.
Penso che ci siano tre motivi fondamentali per i quali un malato terminale può desiderare di accelerare la propria morte. Il primo è la paura del dolore. La sofferenza fisica, quando diventa insopportabile, da sola può costituire una motivazione forte per chiedere di morire. Oggi però il dolore si può controllare con i farmaci. Purtroppo l’Italia non è all’avanguardia sull’impiego della terapia del dolore, che è poco conosciuta e ancor meno praticata, e troppi pazienti sono lasciati in preda alle loro sofferenze.
Sandro Bartoccioni, un medico e un malato, ha scritto: «La medicina oggi può e deve togliermi il dolore; se non lo fa io mi ucciderò, ma non sarà un suicidio, sarà un’omissione di soccorso».
In Italia ci sono pochissimi centri di cure palliative e ancor meno hospice. Gli hospice sono strutture sanitarie, diffuse in altri paesi, dove i pazienti terminali vengono ricoverati per ricevere trattamenti che non possono essere somministrati a domicilio o in centri di cure palliative. Le cure date in questi centri, insieme alle cure domiciliari, devono assicurare una vita dignitosa alle persone giunte all’ultima fase della loro esistenza. Purtroppo i pochi hospice esistenti sono quasi tutti concentrati al Nord. Per un paziente e la sua famiglia è già molto difficile doversi muovere dalla regione di residenza per seguire terapie che non sono disponibili vicino a casa. Nella fase terminale della malattia questa migrazione diventa impossibile. Se il diritto alla salute è uguale per tutti, anche vivere in maniera degna, senza sofferenza, gli ultimi mesi di vita lo deve essere forse più di qualsiasi altra prestazione medica. Per questo è fondamentale che il sistema sanitario sviluppi e diffonda i centri di cure palliative in modo capillare su tutto il territorio nazionale. La senatrice Paola Binetti mi ha chiesto un parere nell’autunno 2007 su un progetto di legge per regolamentare e implementare queste strutture: mi auguro che il progetto, che non ha colore politico, non resti solo sulla carta, ma diventi una legge dello Stato attuata con finanze adeguate.
Accanto agli hospice occorre potenziare i servizi di assistenza al domicilio del malato. Per un malato terminale essere curato in casa è più piacevole e rassicurante che stare in una struttura ospedaliera, e per la collettività è più conveniente. L’importante è però che il servizio domiciliare sia assiduo e di qualità, altrimenti equivale all’abbandono del paziente alla sua famiglia.
Cesare è un malato di sclerosi laterale amiotrofica (Sla), una grave malattia degenerativa del sistema nervoso. Sua moglie Stefania descrive nel libro L’inguaribile voglia di vivere, la storia di alcuni malati e il suo progetto per gli individui affetti da Sla o da altre patologie invalidanti. Il nocciolo del ragionamento dietro la proposta si può riassumere così: il costo per l’assistenza domiciliare necessaria a consentire a questi pazienti una vita «dignitosa» è molto elevato, dato che richiede una presenza di personale specializzato 24 ore su 24. Tuttavia, costa ancora di più ricoverare un malato di questo tipo in un istituto piuttosto che assisterlo a casa. Considerando che tenere il malato a casa comporta notevoli benefici fisici e psicologici sia per il malato sia per la sua famiglia, la scelta più naturale per il sistema sanitario dovrebbe essere quella di finanziare l’assistenza domiciliare piuttosto che il ricovero. Invece non è così: se vuole essere accudito a casa, il malato riceve un minuscolo, insufficiente contributo dallo Stato.
Il fatto di non poter ricevere un aiuto adeguato per tenere il malato a casa spinge molte famiglie a chiedere il ricovero. Il ricovero, però, non piace a nessuno: non piace al paziente, che si sente isolato dalla sua famiglia, non piace ai familiari, che hanno l’impressione di abbandonare il loro caro, e non piace alla collettività, che ne paga il conto salato.
Forse, in Italia, se ci fossero contributi adeguati per l’assistenza domiciliare, alle Asl si presenterebbero subito frotte di falsi malati, chiedendo di ricevere qualcosa che loro non spetta. Purtroppo lo Stato spesso non è in grado di controllare la veridicità delle dichiarazioni sullo stato di salute dei malati, e il senso civico e l’onestà non sono sempre valori in auge in questo paese.
Le difficoltà, è chiaro, sono molte, ma non possono diventare un alibi per non fare nulla, lasciando i malati terminali, i pazienti che hanno bisogno vitale di assistenza specializzata e le loro famiglie in preda al dolore, alla depressione e all’abbandono.
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La mia vita oggi
In aprile ho festeggiato il terzo anniversario della mia nuova vita con il cancro: una prova che i tre anni di sopravvivenza stimati in genere per la mia malattia rappresentano un dato obsoleto. Forse anche il dato sull’inguaribilità di questo tumore è sorpassato. La medicina moderna progredisce in maniera talmente veloce che facciamo fatica anche noi del mestiere a seguire tutte le novità. Credo di inguaribile oggi mi sia rimasto in realtà solo l’ottimismo.
La malattia mi ha obbligato a riorganizzare la mia vita e a rivedere molti dei miei impegni. Sono in pensione da pochi mesi, dopo quasi quarant’anni di ricerca svolta all’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano. La posizione di direttore del dipartimento era troppo impegnativa e non mi lasciava tempo sufficiente per i nuovi progetti che mi sono proposta di seguire. Oggi mi dedico a pochi programmi di ricerca che mi stanno particolarmente a cuore, perché trattano dei nuovi farmaci che tanto possono fare se usati bene per i pazienti. Quelli che studio sono diretti contro il carcinoma della mammella, ma di sicuro ci sono altri laboratori nel mondo impegnati a studiare farmaci contro il mieloma.
Ho anche un impegno di collaborazione con la direzione scientifica dell’Associazione italiana per la ricerca sul cancro (Airc). Il direttore scientifico è Maria Ines Colnaghi (Cicci), con la quale ho lavorato in Istituto per trent’anni. Scopo della direzione è assicurare il finanziamento ai progetti di ricerca più meritevoli. L’Airc ha fatto e continua a fare molto per la ricerca sul cancro e l’eccellenza di questa ricerca è la garanzia che tutti i pazienti siano curati al meglio.
Continuo la mia attività sul progetto di umanizzazione della medicina, soprattutto con conferenze in tutta Italia da cui emerge sempre più una sanità a tecnologia avanzata e a umanità ridotta. Mi auguro di passare presto a una fase più operativa, in cui alcuni di questi problemi si possano risolvere per davvero.
Cerco, anche se non ci riesco sempre, di ritagliarmi pure un po’ di spazio per me, per essere più vicina alla famiglia, a mia madre e alle mie sorelle, senza dimenticare i fiori, la lettura, la musica e i viaggetti in Italia e Francia.
Continuo la terapia mensile per tenere a bada il tumore: un ciclo farmacologico di ventotto giorni, quindi esami e impostazione del cielo successivo. Da parte mia c’è qualche promessa non mantenuta: non mi sono sottoposta di nuovo alla biopsia ossea. A parte i soliti effetti collaterali del cortisone, che riesco a controllare abbastanza bene (negli ultimi mesi il mio peso è stabile) sono in piena forma. Meno male, perché con tutto quello che ho da fare guai se non lo fossi! Anche l’aspetto, con i chili in più che il cortisone mi ha fatto prendere nei mesi scorsi, è ottimo e abbondante! Controllo bene anche il sonno con un po’ di aiuto di medicinali e quindi le notti bianche di qualche mese fa sono finite o perlomeno sono una scelta consapevole perché so di poterle evitare. Quanto alla depressione sempre in agguato, ho imparato a rispettare quei due o tre giorni postcortisone in cui non sono mai al meglio dell’ottimismo: ormai ne conosco la ragione e cerco in quei momenti di non prendere decisioni delle quali potrei rammaricarmi subito dopo.
Il cancro non mi fa più paura perché non ho più paura della morte. Certo però che ogni controllo porta la sua parte di tensione: potrebbe essere l’annuncio della ripresa della malattia, e quindi l’obbligo di rivedere per l’ultima volta l’organizzazione della mia vita.