Si può curare, Sylvie Ménard (pagg. 5-6, 7-14, 69- 74), 7 febbraio 2009
SI PUO’ CURARE 1
- INTRODUZIONE (pagg. 5-6)
Sono nata il primo luglio 1947 sotto il segno del Cancro e sono «morta» il 26 aprile 2005, di cancro.
Quello che state per leggere non è però un libro postumo, pubblicato dopo la mia scomparsa. L’ho scritto proprio io, nel 2008, ancora viva e vegeta, a tre anni di distanza dall’annuncio di una malattia inguaribile, un trauma terribile che ha mutato in maniera irreversibile e profondissima la persona che ero.
Sono malata di un tumore del midollo osseo, di quelli che non ti ammazzano subito, ma che ti lasciano tutto il tempo per pensare alla morte e che ti obbligano a farla tua. In questi tre anni ho dovuto rinascere e imparare di nuovo a vivere insieme al cancro: un tentativo non sempre facile, ma molto sorprendente.
Scrivo questo libro per raccontare la mia storia anzitutto ai pazienti che, come me, hanno ricevuto l’annuncio traumatico di una malattia incurabile e che mi auguro possano trovare coraggio, speranza e ispirazione dalla mia vicenda.
Sono una ricercatrice che studia il cancro da quasi quarant’annì, una «bestia» che pensavo di conoscere molto bene. Ogni giorno, negli ultimi quattro decenni, ho incrociato, nei corridoi e nelle corsie del mio Istituto, migliaia di ammalati, a volte soli, a volte accompagnati da parenti o amici. Una barriera invisibile separa il mondo dei «sani», che studiano e offrono cure, da quello dei malati che le ricevono. Quella barriera, che divideva anche la mia esistenza si è rotta tre anni fa.
Con la consapevolezza che soltanto il trovarsi «dall’altra parte» può dare, dedico una parte di questo libro a tutti i medici e sanitari, miei colleghi che, leggendomi, potranno forse capire meglio che cosa vogliono i tanti altri pazienti che sono nella mia stessa condizione. Guarire è il primo desiderio di qualunque ammalato. Ma anche quando guarire non rientra nella sfera del possibile, un paziente vuole comunque ricevere conforto e comprensione, e non soltanto cure. Una medicina che non considera la persona, ma solo la malattia come un’entità a sé, è una medicina fallimentare.
Nel corso della mia carriera di ricercatrice e poi da paziente ho avuto modo di visitare molti ospedali e centri di cura in diverse regioni d’Italia. In più di un’occasione mi sono trovata di fronte a situazioni paradossali: nella stessa clinica può esserci un reparto che offre terapie proiettate nel 2100 e il reparto al piano di sotto che utilizza protocolli di cura fermi a metà del Novecento. Si tratta di differenze inspiegabili e insensate, discriminanti per la vita dei pazienti e inaccettabili per un paese civile. Garantire ai cittadini un servizio sanitario di qualità, uguale per tutti, è un dovere assoluto di chi amministra la sanità ìn Italia, perché la -vita non ha prezzo, né colore politico. Invito tutti gli amministratori della sanità, dal ministro in giù, a leggere queste pagine e soprattutto a riformare o a chiudere le strutture che non rispondono a imprescindibili criteri di qualità.
Scrivo infine questo libro per la mia famiglia e per i miei amici. Se parlare della mia condizione mi aiuta molto a esorcizzare paura e angoscia, so che le mie parole non hanno sempre trovato il momento o il modo giusto per comunicare con chi mi sta vicino. A volte mi sono trattenuta per pudore o perché ho creduto che, per chi mi ascoltava, sarebbe stato troppo doloroso sentire ciò che avrei detto. Spero che, leggendomi, comprenderete quello che mi è stato troppo difficile dirvi.
CAPITOLO I: IL CIELO MI CADE SULLA TESTA (pagg. 7-14)
Avete in mente Asterix, un mio antenato gallico che ha sempre paura che il cielo gli cada sulla testa? Be’, a me il cielo è caduto davvero sulla testa, il 26 aprile 2005.
Cominciamo la storia dall’inizio. E il 21 aprile e, a giudicare da come inizia la giornata, siamo di fronte a un giovedì qualunque della mia vita di ricercatrice. Lavoro all’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano da trentasette anni e, come tutti i giorni, sono in laboratorio a programmare esperimenti, a controllare dati e fare elaborazioni e ipotesi. Trascorro tutta la mattina in riunione con un collaboratore venuto da Napoli per discutere di un progetto di ricerca in comune fra i nostri due istituti. La concentrazione è intensa e quando alziamo la testa da carte e computer ci accorliamo che sono già passate le due del pomeriggio. Fa molto caldo, il primo della stagione, e abbiamo fame. Facciamo una corsa in mensa per mangiare un boccone. Appena seduta a tavola, bevo un grande bicchiere di acqua frizzante ghiacciata e all’istante sento che qualcosa non va, sto per , svenire. Il solito riflesso vagale, una sciocchezza di cui soffro da sempre (per uno stimolo banale, come quello procurato dall’acqua molto fredda, il nervo vago si eccita, determinando un forte abbassamento di pressione e quindi uno svenimento). Sapendo quello che mi sta per accadere, mi sdraio per terra e pochi secondi dopo svengo. Arriva la squadra di pronto soccorso dell’Istituto, appena formata.
Rinvengo e mi piazzano subito su una sedia a rotelle perché rifiuto la barella. In ambulatorio, il medico di guardia vuole farmi la lavanda gastrica. Rifiuto in maniera categorica. Nel pomeriggio devo partire per Atene, dove dovrò tenere una relazione a un congresso internazionale. Firmo i documenti che scaricano l’Istituto e chi mi ha soccorso da ogni responsabilità e prometto di fare degli esami di controllo al mio ritorno.
Ormai del tutto ristabilita dallo svenimento, corro a casa a preparare la valigia. Lucio, mio marito, è in Cina fino alla settimana prossima. Ad Atene trovo un caldo torrido, che però non mi scoraggia dal fare una corsa al Partenone sotto il sole: rivedere l’Acropoli è un’emozione che non mi voglio negare. Sono in compagnia di Frederique, una mia collega anatomopatologa francese molto più giovane di me, ma sulla lunga scalinata la distanzio senza problemi, malgrado la differenza d’età. Sono proprio in ottima forma.
Di ritorno a Milano, il sabato mattina, proseguo subito per il mare, dove trascorro il lungo fine settimana del 25 aprile: il tempo è magnifico, le piante del mio giardino sono nel pieno della fioritura primaverile, vedo Luisa e Roberto, amici piacevolissimi, insomma, tutto va a gonfie vele. Non so ancora che quello sarà il mio «ultimo» weekend.
Martedì mattina torno al lavoro. Per prima cosa mi aspetta il prelievo, cui mi sottopongo con la solita malavoglia, ma sto bene e non svengo. Passo poi una mattinata tranquilla. Nel pomeriggio ho una riunione in direzione scientifica, al termine della quale mi fermo a bere un caffè al distributore automatico. Andrea, un mio stretto collaboratore che mi fa spesso da medico personale, è anche lui lì, ma non vuole un caffè, mi sta solo aspettando. Mi dice che c’è un problema con i miei esami. «Ma io ho sempre avuto esami perfetti, da manuale» penso, mentre andiamo insieme nel laboratorio di analisi cliniche. Lì ci aspetta Antonio, un giovane che ha lavorato nel mio laboratorio. L’esame che non va è una banalissima elettroforesi (un test molto semplice che permette di separare le proteine in base al loro peso) e il risultato è anche questa volta da manuale... di oncologia, però.
In un secondo la mia vita è sconvolta. Ho lavorato abbastanza sul mieloma, un turnore delle plasmacellule che abitano nel midollo osseo, per riconoscerlo a prima vista, senza ombra di dubbio.
Il risultato è chiaro, lampante, inequivocabile e non ammette altre possibilità. Sono annientata. I miei due colleghi provano a formulare un’ipotesi meno devastante: potrebbe essere una forma precoce, addirittura preneoplastica, di quelle che possono trasformarsi in un mieloma ma non lo sono ancora. Aderisco anch’io a quest’ipotesi perché così mi è più facile sopportare l’insopportabile, ma dentro di me so con certezza che la diagnosi è una sola. Decidiamo per un esame delle urine da fare l’indomani. Il mieloma è caratterizzato dalla presenza di una proteina specifica nell’urina e io so già che il risultato sarà positivo.
Torniamo in reparto, la notizia si diffonde tra i miei collaboratori; la loro reazione di silenzio e stupore, gli sguardi scioccati sono già di per sé una dimostrazione del disastro che mi è appena capitato. Mi chiudo nel mio studio e prendo subito tutti i libri di oncologia che ho sottomano. Le informazioni che trovo sono ancora peggiori di quelle che conservavo nella mia memoria: tumore incurabile, sopravvivenza media di tre anni, effetti devastanti sia delle terapie sia della malattia.
Arrivo a casa che sono uno zombie. Sono sola, Lucio torna giovedì, fra due giorni. Non riesco a fare altro che ripetermi: «Ho il cancro, ho il cancro». Chissà perché mi consideravo immune al cancro, che per me è sempre stato una malattia degli altri. Adesso invece sono io ad avere il cancro, e non dì quelli oggi curabili ma uno dei peggiori a giudicare dai libri che ho appena sfogliato. Mi sembra proprio una cosa impossibile. Mi guardo allo specchio e non vedo niente di cambiato. Ma ho il cancro, un cancro cattivo e quindi il primo pensiero è che sto morendo, entro tre anni sarò morta. Ho 57 anni, chissà se festeggerò i 60.
La notte è ancora più dura. Non riesco a dormire e la mia vita mi ripassa davanti come un film. Se ho soltanto tre anni di vita davanti a me, che cosa posso o devo ancora fare? Per i tanti progetti che ho in testa, mi accorgo che il tempo a disposizione è troppo breve. Mia nonna materna mi diceva sempre che non poter fare piani per il futuro è la cosa che più rovina la vecchiaia. Aveva ragione. La riduzione di tempo la percepisco come una valanga che mi toglie ogni voglia e ogni desiderio. Eppure, solo fino a qualche ora fa, avevo tante idee per gli anni a venire. In tutti quegli istanti interminabili di quella terribile prima notte con il cancro, l’unica volontà che ho è di morire subito.
Solo verso l’alba riesco a riposare un po’, quando mi convinco che ci dev’essere un errore negli esami, perché io sto benissimo. Ho superato l’inverno senza prendermi neppure un raffreddore. Se avessi il mieloma, vista l’immunodepressione che causa, avrei dovuto beccarmi ogni genere di infezione.
Al risveglio l’ipotesi dell’errore svanisce e la realtà mi si para davanti. mercoledì, arrivo in Istituto con il mio campione di urina e ha inizio la mia odissea diagnostica. Dopo poche ore arriva il risultato dell’esame, che come sapevo è positivo. Chiedo un appuntamento a Paolo, l’ematologo responsabile del mieloma dell’Istituto, e alle 14 sono nel suo studio con i miei esami. Lui li legge, mi guarda e mi chiede a chi appartengono quegli esami: il nome è scritto sopra, ma la domanda - assurda - forse gli permette di prendere fiato. Anche se io so già tutto, il verdetto suona ancora più duro nelle sue parole. Non c’è alcun dubbio possibile, l’illusione, ultima a morire, muore perché con esami di quel tipo la diagnosi è una sola: mieloma multiplo. Chissà perché dev’essere pure multiplo, sarebbe già abbastanza se fosse singolo.
Paolo mi prescrive una lista di ulteriori esami da fare, per valutare a che punto è progredita la malattia: biopsia del midollo osseo, analisi genetica delle cellule tumorali, radiografia, risonanza magnetica. Mi dà anche qualche informazione in più sulla «non guaribilità». Anche questo lo sapevo già, ma sentirlo ripetere dall’esperto mi crea un vuoto dentro, un senso di nausea e di malessere.
Esco da questo primo colloquio con la morte nel cuore. Si chiude un’altra giornata non vissuta, o meglio, vissuta in un altro mondo. Mi sembra di essere già fuori dalla vita di tutti i giorni, in un’altra dimensione, un altro pianeta, quello dei morti. Per il mondo esterno cerco di mantenere un comportamento freddo, è la mia unica possibilità per non mettermi a urlare. Ci vorranno diciotto lunghi giorni per fare tutti gli esami, diciotto giorni di vita sospesa, di attesa, con una vocina notturna che continua a prevedere il peggio. E io sono privilegiata, gioco in casa: se per me ci sono voluti diciotto giorni per la diagnosi completa, chissà quanto ci può mettere un paziente qualsiasi, in un qualsiasi ospedale italiano. Ministro della Salute, prenda nota per favore: faccia calcolare il tempo medio che occorre in Italia per ottenere una diagnosi completa di tumore.
Seconda notte da sola. Ancora più brutta della prima, ma mi dovrò abituare all’insonnia. All’inizio è lo stress a non lasciarmi dormire, poi saranno medicinali come il cortisone. Domani tornerà Lucio, sarà più facile affrontare l’odissea della malattia in due, anche se sono terrorizzata all’idea di come raccontargli la storia. Mia suocera è morta l’anno prima che ci sposassimo di pleurite metastatica da carcinoma della mammella ed è stata accudita per gli ultimi mesi della sua vita da Lucio e dal marito, che le davano anche l’ossigeno dalle bombole per farla respirare. Il cancro per Lucio è senza dubbio un bruttissimo ricordo e mi fa male il pensiero di procurargli questo dispiacere. Non potevo avere un’altra malattia?
Passo un’altra giornata su libri e articoli scientifici riguardanti il mielorna, con intervalli di scarsissima concentrazione sul carcinoma della mammella - il tumore che studio nel mio lavoro di ricerca. In un giorno di letture mi rendo conto, con molto piacere, che la sopravvivenza dei malati di mieloma negli ultimissimi anni è molto migliorata grazie alle nuove terapie. Detto ciò, non c’è articolo scientifico che non inizi con la solita frase sull’inguaribilità, malgrado i nuovi trattamenti. un difetto tipico di tutti noi ricercatori, che cerchiamo sempre di dare importanza ai nostri studi mettendo in evidenza quanto sia aggressivo o diffuso il tumore che studiamo. Si tratta però di affermazioni un po’ gratuite, che gli addetti ai lavori conoscono già e che invece possono lasciare il segno quando gli articoli scientifici che le contengono cadono per caso nelle mani del malato.
Per parecchie mattine dopo il giorno della diagnosi, mi sveglio ancora con la speranza che tutto sia stato un brutto sogno. Negli istanti del risveglio c’è una fase breve, di ripresa di contatto con il mondo reale. In pochi istanti l’illusione che si possa tornare indietro scompare. Il fatto che la mia vita non sarà mai più come prima mi angoscia perché della mia esistenza precedente sapevo tutto e mi piaceva, mentre questa nuova fase è un’incognita e non so ancora se ho davvero voglia di starci, di ricominciare con questa spada di Damocle che mi pende sopra la testa. Allora parto con una specie di litania che recito a me stessa per farmi forza: «Coraggio Sylvie, non ti piangere addosso, perché non serve a nulla». Il problema è che provo anche un po’ di vergogna a reagire così male, proprio io che ho sempre cercato di fare forza alle persone cui era appena arrivata una diagnosi di cancro.
Pensando alla mia situazione mi vengono in mente quelle mele o quelle pere che, viste da fuori, sembrano normali e poi, quando le tagli in due, al centro sono tutte marce.
La malattia mi obbliga a pensare alla morte. Non l’ho mai fatto prima, quanto meno in relazione a me stessa. Fino all’incontro con il cancro mi considero immortale. Mi sento - come tutte le persone sane - l’avvenire davanti. Faccio progetti per il futuro senza preoccuparmi degli anni che passano. Ho presente - come tutti - l’età media di sopravvivenza dell’uomo e della donna, eppure considero sempre - come tutti - la morte di una persona cara come troppo precoce. Mio padre è morto a 79 anni, un’età che coincide grosso modo con l’età di vita media per il sesso maschile, ma per me, la sua, è una morte prematura perché, non essendo mai stato malato, ci coglie tutti di sorpresa.
La malattia mi obbliga a rivedere il concetto di immortalità. All’inizio è un grosso trauma, ma poi diventa un elemento fondante per vivere meglio la vita che mi rimane. Un filosofo di cui non ricordo il nome, perché la chemio mi ha di sicuro danneggiato anche qualche neurone della memoria, ha detto che si comincia a vivere solo quando si accetta la morte. Oggi sottoscrivo pienamente, ieri avrei urlato contro quest’affermazione.
La mia prima reazione all’idea concreta della mia morte, a caldo, è un’immensa paura. L’eventualità di questo evento tragico è intollerabile, e diventa sopportabile solo se si produce subito, all’istante.
Si consuma un periodo di profonda confusione e incapacità di accettare quel che mi riserva il destino. Poi, piano piano, comprendo che la fine della vita è un evento naturale e inevitabile per ciascuno di noi. Come ha osservato con ironia il grande economista inglese John Maynard Keynes: «Nel lungo periodo saremo tutti morti». Accanirsi contro il pensiero di questo evento che accomuna tutti gli esseri viventi non ne può cambiare la sostanza. In fondo, pensare alla morte non è così male, ed è soprattutto un segno di vita perché finché posso pensarci significa che esisto.
A stipulare questo patto di non belligeranza con il pensiero della mia morte mi aiuta il bilancio nel complesso positivo che faccio della mia vita. E il nuovo equilibrio che riesco a creare in me stessa mi permette anche di superare una situazione critica in cui penso che il momento della morte sia davvero giunto.
L’episodio risale a luglio 2005. Sono al mare, durante un fine settimana, e mi trovo al secondo mese di terapia con cortisone e talidomide, che per ora sopporto abbastanza bene. Dopo una bella serata fresca in giardino, durante la notte mi sveglio di soprassalto con un forte dolore al torace. Mi devo alzare perché da sdraiata non riesco a respirare. Dopo cinque minuti, anche in piedi, provo un dolore tale per cui, appena si allarga la cassa toracica, il respiro si blocca. Divento cianotica.
Lucio chiama il 118. Quando lo sento dichiarare al telefono: «Mia moglie, malata di cancro, non riesce a respirare», fatico a realizzare che sta parlando di me. C’è di buono che, dopo una frase così, l’équipe del pronto soccorso arriva nel giro di pochi minuti. Cinque sanitari, con zaini carichi di materiale di ogni tipo, mi danno subito l’ossigeno, mi fanno un prelievo di sangue e mi provano la pressione. Cercano di farmi sdraiare sulla barella per portarmi giù dalla lunghissima scala di casa nostra, ma quella posizione per me è impossibile, urlo dal dolore. Una volta di più non posso fare a meno di farmi l’autodiagnosi: durante il sonno mi si è fratturata una costola che mi ha perforato il polmone, quindi sto morendo.
La radiografia che mi fanno all’ospedale di Lavagna mi dà torto, ma il dolore persiste fino al mattino. Passo una notte seduta, in preda a dolori atroci, malgrado le tonnellate di analgesici. Rimango rintronata per i due giorni successivi e i medici non riescono a formulare una diagnosi. L’anno successivo, nello stesso punto, riproverò un dolore simile, a causa di un’eruzione cutanea che farà pensare all’Herpes zoster, il virus che provoca il fuoco di Sant’Antonio. Ricostruisco che anche il primo episodio doloroso, forse, è stato provocato da un’infezione virale acuta ai muscoli intercostali.
CAPITOLO VI: NON SONO GUARIBILE, MA SONO CURABILE (pagg. 69- 74)
La mia diagnosi di mieloma è certa, anche se manca ancora qualche dettaglio che può essere importante per le decisioni sulla terapia. Fra le comunicazioni ai parenti e agli amici, e gli esami ancora da completare, comincio a riflettere su dove sia meglio farmi curare. Chiedo consiglio a mezzo mondo, mentre l’altro mezzo mi dà consigli non richiesti. I suggerimenti sono, com’è ovvio, tutti divergenti e mi creano una grande confusione in testa. Mio marito Lucio parla subito di andare negli Stati Uniti, non si fida del sistema sanitario italiano. Prendo anch’io in considerazione la possibilità di andare in America, il centro di ricerca sul mieloma di Little Rock tratta seimila casi all’anno, è lì che sono messe a punto tutte le nuove terapie. La mia confusione è al massimo, complicata dal fatto che mancano ancora elementi diagnostici fondamentali. L’esame forse più importante consiste nella biopsia ossea che permette non solo di contare quante cellule tumorali sono presenti nel midollo, ma anche di analizzarle per capire che cosa c’è di sbagliato. I risultati mostrano che le mutazioni nelle cellule non sono le peggiori, ma neppure le migliori. Insomma, il quadro è intermedio. La sensazione che tutta la mia vita si gioca sulla decisione di dove farmi curare si fa via via più concreta. Su che base un paziente che non conoscenze ha approfondite sulle opzioni di cura fa questo tipo di scelta, io che ci lavoro da sempre faccio fatica a ragionare in modo costruttivo? Non posso infatti seguire i consigli che mi vengono dati perché sono tutti diversi. A chi credere di più? Quali criteri devo usare? Purtroppo non mi posso affidare neppure a dati concreti, come il numerodi pazienti sopravvissuti in un istituto piuttosto che in un altro, perché non sono disponibili. Sul sito Internet dallaa clinica del mieloma di Little Rock in Arkansas, il paese di Bill Clinton, una delle prime pagine informa che la sopravvivenza a cinque anni nel mondo per mieloma è del trenta per cento mentre nel loro Istituto raggiunge il cinquanta. La differenza del venti per cento mi fa gola, ma ragionandoci più a fondo trovo il dato fuorviante. L’Italia per la cura del cancro non è paragonabile a tutto il resto del mondo. Il nostro sistema sanitario è buono e le terapie più all’avanguardia, comprese quelle messe a punto a Little Rock, sono tutte già disponibili. Siamo lontani anni luce Cina, dall’Africa o dalla Russia.
Alla fine di questo ragionamento, lungo e sofferto, scelgo il mio Istituto. Il nostro ematologo, Paolo, è giovane e pieno di entusiasmo. Ha molte collaborazioni internazionali e lavora a stretto contatto con il gruppo di Little Rock, un particolare che mi dà sicurezza. Il reparto, rinnovato qualche anno fa, è ancora molto bello e in ordine, con camerette sterili molto piacevoli e una squadra di medici tutti giovanissimi, ottimisti e pieni di fiducia. Potrebbero esse tutti miei figli, speriamo bene.
Arrivo a questa decisione dopo molte considerazioni contrastanti, e parecchia sofferenza. Eppure io ho un ottimo bagaglio di competenze scientifiche, conosco gran parte dei medici che lavorano sulla malattia, e mi so orientare meglio di altri nel groviglio di ospedali e reparti sparsi in Italia e nel mondo. Un paziente meno attrezzato di me come fa a scegliere un medico, un reparto, un ospedale?
In queste circostanze di solito uno chiede consiglio ad amici e conoscenti, a parenti, a medici. Un caro suggerisce: «Vai da Tizio che è amico di Caio, lavora all’ospedale tal dei tali ed è bravissimo, ha salvato la vita a Sempronio, è un luminare!». Un cugino medico raccomanda: «Fatti visitare dal mio collega Verdini: lo conosco bene, lavora nel reparto accanto al mio e gioco con lui ogni giorno a tennis». Chi ci assicura che quel medico amico dell’amico sia davvero bravo? E che il collega di nostro cugino sia un luminare, oltre che un simpatico collega e un buon compagno di partite di tennis? Quali criteri oggettivi abbiamo a disposizione per valutare se colui a cui affidiamo la nostra vita è competente, aggiornato, capace? Di fatto, non li abbiamo.
Quali informazioni bisogna conoscere per scegliere un centro di cura? Innanzitutto sarebbe molto importante sapere la casistica, cioè il numero di casi trattati per una determinata patologia: più sono i casi e maggiore è l’esperienza accumulata da un medico, da un’équipe, da un reparto. Poi sarebbe necessario conoscere i tassi di sopravvivenza e guarigione: se per una malattia curabile o guaribile gran parte dei pazienti sopravvive meno della media attesa, forse non è quello il posto in cui andarsi a curare. Sarebbe inoltre utile valutare le strumentazioni e i protocolli utilizzati, gli articoli scientifici pubblicati su riviste di livello internazionale e le collaborazioni con centri esteri. Questi elementi, se fossero per esempio pubblicati sul sito del ministero della Salute, e aggiornati con frequenza annuale, potrebbero aiutare il paziente a scegliere a chi affidare la propria vita secondo criteri razionali e non attraverso il sentito dire o il passaparola.
Certo, tanta trasparenza fa paura. Interi reparti senza una sufficiente esperienza e casistica, in cui si utilizzano terapie obsolete, potrebbero scomparire. E anche i casi limite, quei reparti che finiscono in televisione per episodi di malasanità, avrebbero vita dura.
Di fronte a tanti rischi, forse ci sarebbe chi presenterebbe dati abbelliti, pur di non vedere il proprio reparto o ospedale ridimensionato. Forse un’autorità indipendente di controllo potrebbe verificare la correttezza dei dati forniti. Non so quale possa essere la soluzione migliore, ma ministero della Sanità e le regioni ci pensino, perché è importante.
già dura fare il paziente, ma doverlo fare con il dubbio di sbagliare medico, reparto e ospedale è una condizione che rende una persona già fragile ancora più vulnerabile e impotente.
Si muore meglio se si è sicuri di avere fatto tutto il possibile, mentre dev’essere terribile pensare di morire perché si è sbagliata la scelta sul centro di cura. Se il diritto alla salute è uguale per tutti, l’uguaglianza deve partire dalla qualità delle informazioni sulle opzioni terapeutiche. Un’informazione scadente è la prima porta aperta verso una cattiva assistenza medica.
Quindi, dopo parecchie incertezze e rovesciamenti giornalieri delle decisioni opto per il mio Istituto, per competenza e facilità. Farsi curare in casa - l’Istituto è come una seconda casa per me - è di certo più facile, con i colleghi e gli amici. Ma i problemi e i dubbi non sono ancora finiti.
Ma io mi voglio davvero curare?
Terminati tutti gli esami diagnostici, vado di nuovo dal mio amico ematologo Paolo, che in pochi istanti mi dipinge il quadro di quello che ritiene debba essere la mia cura: chemioterapia ad alte dosi e autotrapianto di cellule staminali dopo una preparazione di quattro mesi per ridurre il più possibile le cellule tumorali da eliminare. E la terapia convenzionale, la stessa che praticano in tutto il mondo o quasi, ed è stata messa a punto dal centro di Little Rock dove avevo pensato di andare.
Siamo però a fine maggio 2005, l’estate sta per cominciare, portando con sé tutti i suoi piaceri: i fiori, il mare, i bagni, le passeggiate. Perché dovrei rinunciare a tutto questo e sottopormi a terapie e sofferenze se comunque sono inguaribile? Dico a Paolo che non voglio curarmi subito, ci devo pensare. Solo adesso realizzo che finora ho scherzato con la malattia. Infatti, se non fosse per lo stress, fisicamente sto sempre benissimo. Iniziare la terapia proposta da Paolo significherebbe invece stare male, vorrebbe dire uscire per sempre dal mondo dei sani e cominciare una vita da malata. Vorrebbe dire rinunciare a ferie, a pranzi con amici, ad arrampicate in montagna, vorrebbe dire condizionare il lavoro con lunghe assenze. Insomma, in poche parole devo decidere se iniziare a essere davvero una paziente. Passo di nuovo una notte in bianco a soppesare tutti i pro e i contro del curarsi rispetto all’astenersi dalle terapie. All’alba arrivo a un nuovo punto molto importante, che cambierà la mia maniera di pensare: sono riuscita a fare la differenza tra inguaribile e incurabile. La maggior parte delle persone, come me fino a poco prima che ci riflettessi con attenzione, usa queste parole come sinonimi. In realtà significano due cose diverse: inguaribili lo siamo un po’ tutti, visto che da questa vita usciremo tutti morti. Nel mio caso vuol dire che nessuna terapia potrà eliminare in maniera definitiva la malattia. Incurabile è invece una persona che morirà presto perché per la sua malattia non esistono terapie. Il mieloma, anche se inguaribile, è forse uno dei tumori più curabili: esistono tanti farmaci e protocolli di cura sofisticati, che comprendono anche l’autotrapianto di cellule staminali midollari. Sono terapie che hanno cambiato la prospettiva di vita dei pazienti e che possono prolungare anche la mia esistenza. Piano piano, arrivo al convincimento che ogni istante della mia vita ha un grande valore, e che per assaporarlo sono disposta ad accettarne ogni costo, anche la tossicità dei farmaci e lo scombussolamento della mia esistenza, pur sapendo che, malgrado la terapia, non guarirò.
Con la rapidità con la quale procede la ricerca, forse qualcuno nel mondo scoprirà a breve un nuovo farmaco che potrà anche guarirmi. Curandomi ora potrei essere ancora viva quando quel farmaco sarà magari disponibile.
Un’intera notte mi serve a capire perché la terapia è fondamentale per immaginare il mio futuro, al di là di quanti giorni, mesi o anni duri in assoluto la mia vita: un valore arbitrario, che nessuno di noi conosce, né può controllare, neppure da sano.
Un’altra sensazione terribile che mi pervade quella notte insonne è il sentire il tumore crescere proprio perché non sto facendo niente per contrastarlo. Tra lui e me, in questo momento, vince lui. Mi ha rivoluzionato la vita e io lo sto lasciando aggredire indisturbato il mio midollo, senza reagire. Decido che è tempo di fare qualcosa. Comunque la vita di prima non tornerà mai più. E inutile aggrapparsi all’illusione di un’estate normale. Alle sei di mattina la mia decisione è presa.
Devo aspettare le ore 14 per tornare da Paolo e dirgli che voglio cominciare subito la terapia. Il mio ribaltone notturno a 360 gradi lo lascia un po’ interdetto. Paolo ha una grandissima esperienza, però non immagina che anche una paziente come me possa nutrire dubbi immensi sul fatto se valga la pena o meno di curarsi, di fronte alla prospettiva della non guaribilità.
Io non avrei dovuto avere tanta confusione in testa, eppure l’ho avuta. Non ne vado fiera, ma è un fatto sintomatico di come un’ipotesi sulla vita e la morte assuma un valore diverso a seconda che riguardi noi stessi o altri.
Oggi la decisione se curarsi o meno è nelle mani del paziente, che si trova in prima linea a scegliere. Il principio è corretto, a condizione che al malato siano fornite davvero tutte le informazioni sui rischi e i benefici.
Arriva per quasi tutti i pazienti un momento in cui non si ha più voglia di lottare. Tiziano Terzani si è curato a New York e ha lottato a lungo, ma arrivato all’ultimo ciclo di chemio, dopo un intervento dall’esito infelice, l’ha rifiutata. Nel suo libro, Un altro giro di giostra, scrive: «Non rinunciavo affatto a curarmi. Volevo solo curarmi in una maniera diversa. E la mia maniera era quella di tornare in armonia... con l’ordine cosmico. I medici possono essere buoni consiglieri, ma la decisione finale sul che fare o non fare tocca al paziente perché questa decisione finale non è né scientifica né pratica. esistenziale. E a ognuno spetta decidere come vuole ancora vivere». Ogni scelta è legittima.