Lorenzo Dilena, LiberoMercato 5/2/2009, 5 febbraio 2009
GUERRA COMMERCIALE TRA INDIA E PECHINO
Il casus belli è stato l’embargo indiano sui giocattoli cinesi. Ma con il passare dei giorni più che un gioco di ripicche fra vicini, le scaramucce fra India e Cina somigliano sempre di più a una guerra commerciale. Nel nome, quasi sempre dissimulato, del protezionismo. La decisione del ministero del Commercio indiano di bandire per sei mesi i giocattoli cinesi, aveva dichiarato un portavoce, scaturisce dalla presenza eccessiva di piombo nelle vernici: motivi di salute pubblica, dunque. Ma la Cina, il cui settore manifatturiero risente la crisi, non ci sta. Perciò il governo di Pechino sembra intenzionato a fare ricorso al Wto, l’Organizzazione mondiale del commercio, per violazione degli accordi sul libero scambio. Il passaggio alle carte bollate non è ufficiale, ma poiché la notizia è trapelata ieri attraverso organi d’informazione di proprietà statale può essere considerata un’attendibile anticipazione delle future mosse di Pechino.
Oggi la Cina produce circa tre quarti dei giocattoli mondiali, ma tra scandali legati alla tossicità dei prodotti e rallentamento economico globale che ha fatto crollare la domanda, molti stabilimenti sono stati chiusi o ridimensionati in mezzo a forti proteste sociali contro migliaia di licenziamenti. Quasi 4mila aziende del settore (gran parte delle quali concentrate nella provincia di Guangdong) hanno chiuso i battenti. In qualche caso la situazione si è surriscaldata al punto da sfociare in rivolte.
Tra il 50 e 60% dei giocattoli venduti in India porta il marchio del Dragone: il giro d’affari vale circa 400 milioni di dollari, di cui una buona metà è appunto rappresentato dalle importazioni cinesi. L’interscambio commerciale fra i due Paesi vale circa un quinto dell’intero commercio estero dell’India (stimato poco sotto 400 miliardi di dollari per l’anno fiscale che chiude al 31 marzo 2009). Dopo gli Stati Uniti, la Cina è il principale partner commerciale dell’India.
«Finora il governo cinese è rimasto sempre zitto, ma la situazione sta cambiando e ricorrere al Wto è la strada giusta per prevenire gli abusi dei partner commerciali», rileva il China Daily. Secondo legali indipendenti (ma attivi in Cina), se Pechino si rivolgesse davvero al Dispute Settlement Body, l’organo del Wto deputato alla soluzione delle controversie fra Stati, avrebbe buon gioco a dimostrare il comportamento strumentale degli indiani. Va anche ricordato che in passato studi internazionali hanno dimostrato al di là di ogni dubbio come i giocattoli cinesi contenessero elevati quantitativi di piombo. Famoso è stato il caso della Mattel, nel 2007 costretta a ritirare dal mercato più di 21 milioni di giocattoli «made in China» per il timore che il piombo contenuto nelle vernici potesse intossicare i piccoli clienti della società.
Le soffiate ai giornali statali, comunque, tradiscono il nervosismo del governo del premier Wen Jiabao. Se infatti è vero, come è stato ribadito recentemente al Forum di Davos, che il protezionismo porterebbe più danni che benefici all’economia mondiale, è ancora più vero che almeno in prima battuta sarebbe la ”fabbrica del mondo”, cioè proprio la Cina, a farne più di tutti le spese. Non passa giorno senza che qualcuno se la prenda con il modello di crescita degli ultimi dieci anni, segnato dalla deregolamentazione finanziaria e dall’ingresso della Cina nel Wto. Ma non va dimenticato che quel modello ha permesso a centinaia di milioni di persone di uscire dalla povertà. In questo momento, dunque, la difesa del libero commercio sta a cuore alla Cina molto più che a Barack Obama, il presidente Usa del «Buy american». Questo spiega perché la Cina anziché reagire a tono con l’India ha scelto la via morbida - si fa per dire - dell’organo giudiziale della Wto. Ma neanche Pechino può dirsi con le carte pienamente in regola: a dicembre il governo di Jiabao ha decretato un incremento del credito d’imposta all’export. Nel caso dei giocattoli è stato portato al 14 per cento. Come si vede, il protezionismo che non piace è sempre quello degli altri.