Giampaolo Pansa, il Riformista 5/2/2009, 5 febbraio 2009
LA FEROCE, LA BUGIARDA, I DUE PADRONI
Il Riformista, giovedì 5 febbraio
La Feroce. Gli operai piemontesi chiamavano così la Fiat. Era la Feroce anche per quelli che non ci lavoravano. Come mio padre Ernesto, classe 1898, guardafili del telegrafo e dunque dipendente delle Regie Poste. Lo stesso facevano i miei zii e le donne di casa, a cominciare da mia madre Giovanna. Si usava dire: il tale è andato a lavorare alla Feroce, spera di entrare nella Feroce, si è trovato bene alla Feroce.
Veniva naturale definirla così la fabbrica della famiglia Agnelli. Un impero spaziale e, insieme, una gigantesca caserma. Dominata dall’ossessione di produrre a qualunque costo, anche a quello della crudeltà. Con una disciplina militare e una gerarchia di capi inflessibili. E tuttavia in tanti desideravano arrivarci. Nella mia piccola città, chi non ci riusciva aveva una sola alternativa: entrare all’Eternit. Era la fabbrica dell’amianto. Ma anche la fabbrica della morte, come s’è scoperto dopo e si scopre ancora oggi: quasi duemila cadaveri.
Anche alla Fiat si moriva, ma assai meno che all’Eternit. Sulla Stampa non si poteva scrivere che un operaio aveva perso la vita in Fiat. Il morto diventava un ferito grave, che spirava sempre in ospedale. Questo aizzava ancor di più le sinistre di Torino contro la Feroce e contro il suo giornale, chiamato la Bugiarda. La Fiat era l’ossessione del Pci e del Psi torinesi. Me ne resi conto il giorno che entrai all’Università subalpina, nell’autunno 1954.
Gli studenti comunisti e socialisti odiavano la Feroce, ma avevano finito per assomigliarle. Nel senso che si erano fatti settari, manichei, sempre pronti a inquisirti in toni acidi. Sei con la Fiat o contro la Fiat? Sei pro o contro Agnelli? Sei per il monopolio dell’auto o vuoi combatterlo? Provavo fastidio per un sistema di rapporti umani dove tutto veniva misurato sul metro della complicità con la Feroce o del suo rifiuto. Se rispondevi che non stavi né di qua né di là, le repliche degli inquisitori si facevano irose: non puoi stare da nessuna parte, devi scegliere anche tu.
Nel frattempo salivano a Torino migliaia di uomini dal Sud, chiamati dalla Feroce che s’ingrandiva e aveva bisogno di forza lavoro sempre nuova. Erano gli extracomunitari del tempo. I torinesi non li sopportavano. Arrivavano i terroni, i sudisti, i napoli, la fuffa, spazzatura. Li ho visti i cartelli sui portoni dei palazzi: «Non si affitta a meridionali». C’erano ancora agli inizi degli anni Sessanta. Ma i terroni se ne fottevano. Alla Fiat trovavano un lavoro, un salario, uno status sociale, per povero che fosse. Torino diventò la più grande città meridionale d’Italia. Chi lo capì subito fu il direttore della Stampa, Giulio De Benedetti, classe 1890. Alla fine degli anni Cinquanta, Gidibì aveva già ucciso l’edizione torinese dell’Unità e stava mettendo alle corde la Gazzetta del Popolo. Adesso voleva conquistare lettori anche tra gli inimigrati dalla Bassa Italia. E ci ordinava di mettere in pagina, ogni giorno, almeno un articolo da una regione del Sud. Per allargare la platea degli acquirenti e, dunque, l’influenza della sua Bugiarda.
De Benedetti era l’unico in grado di tener testa al capo della Feroce, il professor Vittorio Valletta. Erano i due padroni di Torino, con un rapporto anche personale molto stretto. Fra Gidibì e il Professore esisteva una parità di poteri che oggi può sembrare irreale. Senza la Fiat alle spalle, forse De Benedetti non avrebbe avuto la forza di costruire un grande giornale. Ma senza la Stampa, il suo prestigio nazionale, la sua influenza sulla politica e sulla cutura, la Feroce sarebbe stata meno potente.
A noi giovani giornalisti che, pur lavorando alla Bugiarda, ci ritenevamo di sinistra, Valletta non piaceva per niente. Era un padrone più carogna dei padroni veri, gli Agnelli. Aveva servito il fascismo di Mussolini. Aveva collaborato con i tedeschi. Aveva rischiato di essere fucilato dai partigiani, dopo il 25 aprile. A salvarlo erano stati gli inglesi del colonnello John Melior Stevens, il capo di tutte le missioni della Special Force britannica in Piemonte.
Stevens nascose Valletta in un rifugio segreto, sulle colline del Monferrato. Ma il Professore continuava a temere che i partigiani comunisti gli facessero la pelle. Il suo secondo salvatore fu Palmiro Togliatti. Scontrandosi con Pietro Secchia, impose una linea morbida. Era una scelta obbligata perché il Consiglio antifascista di gestione non riusciva a dominare i giganteschi problemi finanziari e organizzativi della ripresa dopo la guerra. Alla fine del 1945, Valletta ricominciò a dirigere di nascosto la Fiat. E il 21 marzo 1946 vi rientrò in pompa magna, con tutto il suo stato maggiore.
Oggi non saremmo qui a discutere della Fiat di Sergio Marchionne, e di come salvarla dal terremoto economico mondiale, se tanti decenni fa non ci fosse stato il Dio della Feroce. Un dittatore che alla fine della guerra aveva già sessantadue anni, ma possedeva l’energia di dieci manager trentenni. Il Professore era di fronte a uno sfascio immane, però poteva contare su un asso nella manica: le dimensioni della Fiat.
La Feroce era la più grande fabbrica italiana. Riattivarla dopo i disastri della guerra, significava rimettere in moto l’economia nazionale, offrire lavoro e stipendi, ridare fiato ai consumi. Valletta puntò sulla produzione di automobili a basso prezzo, le famose utilitarie. Da destinare al mercato italiano e a quei mercati esteri che gli Stati Uniti non erano in grado di servire.
Per vincere la sfida, il Dio della Feroce era disposto a dare paghe crescenti, mutua gratuita, case, asili, colonie marine e montane, ospizi per la vecchiaia. Era il primo welfare italiano, anche se governato da un’azienda. In cambio chiedeva alta produttività, profitti, tutela statale degli interessi Fiat, ordine e disciplina in fabbrica. C’è un’importante biografia del Professore che spiega questo processo e la grande stagione del padrone vero della Feroce: Valletta, di Piero Bairati, pubblicata dalla Utet nel 1983.
Del potere immenso di Valletta mi resi conto anni dopo, nel 1973, quando Piero Ottone, allora direttore dei Corriere della sera, mi chiese un’inchiesta sulle autostrade italiane. Uno dei progettisti dell’Autosole, Aimone Jelmoni, mi raccontò com’era nata quell’opera gigantesca. Convocato da Ezio Vanoni, responsabile delle Finanze, andò a Roma e trovò nell’ufficio del ministro un signore piccoletto e arcigno che non conosceva.
Con una matita rossa, costui segnò sulla carta geografica il tracciato dell’Autosole. Poi gli chiese: «Vuole lavorare a questo progetto? Saremo in quattro a finanziare lo studio preliminare: l’Eni, la Pirelli, l’Italcementi e la Fiat». Sorridendo Vanoni disse a Jelmoni: «La Fiat è questo signore con la matita. Le presento Vittorio Valletta». Il percorso dell’Autosole fu quello tracciato dal Professore. Con una variante sola: la ”curva Fanfani” per toccare Arezzo, imposta dal fortissimo capo della Balena Bianca.
Ma se l’auto era il perno della ripresa nel dopoguerra, tutto ciò che ne ostacolava la produzione andava combattuto. Alla Feroce chi si opponeva, chi contestava il vertice aziendale, chi scioperava o faceva dell’opposizione politica era «un distruttore», parola di Valletta. E come tale doveva essere zittito, allontanato, sconfitto.
Il Professore sapeva bene come fare. Aveva un alleato involontario: il massimalismo della Fiom, il sindacato rosso dei metalmeccanici. E ci diede dentro con la mazza. Nelle elezioni sindacali del 1955, la Cgil crollò dal 63 per cento dell’anno precedente al 33 per cento. Fu l’inizio della ”pax vallettiana”. Sino al 1962 non ci sarà un’ora di sciopero negli stabilimenti Fiat.
Fu nel dicembre 1962 che vidi per la prima e unica volta il Professore. Accadde proprio alla Stampa, il secondo dei poteri torinesi. Una sera sul tardi avevo portato a Gidibì il bozzone di una pagina. E trovai Valletta in piedi di fronte al direttore. Era avviato agli ottant’anni e guidava ancora la Fiat con il pugno di ferro. Quella sera indossava uno smoking, forse veniva da qualche cerimonia. E prima di rincasare era passato alla Bugiarda per parlare con l’altro padrone di Torino.
Valletta era di statura bassa, come Gidibì. La testa ben ritta su un tronco muscoloso. Occhi grandi, un po’ sporgenti. Naso da lottatore. Labbra forti. Un sorriso pieno di denti nella lunga faccia olivastra. Mi diede l’idea di una molla compatta, pronta a scattare. E mi sembrò più un levantino che un ligure diventato piemontese. Immaginai che fosse dotato di un pessimo carattere. il tipo che a Torino descrivono con due parole: «Cit e gram», piccolo e carogna.
Certo, il Dio della Feroce era brutto, ma del brutto speciale dei potenti che finiscono sempre con il piacere. E non badava agli anni che aveva. Tutte le mattine montava a cavallo per un’ora esatta. Faceva la lampada a quarzo perché voleva un’abbronzatura perenne. A cena mangiava soltanto una mela. Non aveva nessuna vita mondana né distrazioni. A parte una: gli piacevano le ragazze alte e in carne. Con loro seguitava a essere un amante gagliardo.
Quella sera, Valletta, sempre restando in piedi, osservò con distacco Gidibì che controllava il bozzone. In quei tre minuti non mi degnò neppure di uno sguardo. Ma lo trovai naturale. Per il Dio della Feroce non ero nessuno. In quella stanza, il cuore della vecchia redazione a un passo da piazza San Carlo, c’erano due padretenìi. E c’era anche un pezzo importante della storia italiana: di ieri come di oggi, visto che siamo sempre qui a scriverne,
Valletta lasciò la Fiat nel 1966, a ottantatré anni. Il potere sulla Feroce passò al giovane Gianni Agnelli. E cominciò un’altra storia. Di questa mi è rimasto nella memoria un personaggio che per qualche verso mi rammentava il Professore: Cesare Romiti, il capo della Fiat che si trovò a guidare l’azienda in anni terribili. Per la crisi dell’auto, per il dilagare del terrorismo, per la nuova battaglia contro il sindacato.
Oggi Romiti è un signore che va per gli ottantasei anni. L’ho visto di recente nel talk show di Maria Latella su Sky. Con la solita grinta da mastino, le idee chiare, la capacità di esporle con durezza. Alla fine degli anni Ottanta, avevo fatto per Laterza un libro intervista con Luciano Lama, già numero uno della Cgil. Leonardo Mondadori mi chiese di farne un altro con Romiti. Alla Rizzoli s’incavolarono perché il lavoro era destinato a un concorrente. E il libro andò a loro, per uscire nel 1988.
Con Romiti feci novanta ore di registrazione, tutte di sabato o di domenica, fuori orario di lavoro per lui. Il capo della Feroce era molto attento a non dare un cattivo esempio. Per questo, entrambi sacrificammo molti dei nostri week-end. Volevo intitolare il libro La mia Fiat. Ma Romiti si oppose: «La Fiat non è mia, bensì della famiglia Agnelli». Così lo chiamammo: Questi anni alla Fiat.
In quelle pagine è narrata un’epoca di furori e di drammi aziendali e umani, che poteva sfociare nel crollo della Feroce. Romiti, sia pure non da solo, fu il manager che la salvò. Grazie a Enrico Cuccia, il re di Mediobanca, aveva ottenuto dall’Avvocato i pieni poteri. Mettendo nell’angolo Umberto, il fratello minore di Gianni.
Da cronista inesperto di storie aziendali, mi resi conto che pure dietro la Feroce si celavano vicende famigliari difficili da comporre. Dopo aver letto le pagme che narravano di Cuccia e di Romiti, Umberto cercò di bloccare il libro. Fu uno scontro aspro, che si consumò una domenica mattina nell’ufficio dell’Avvocato, in corso Marconi a Torino. Poi prevalse l’intelligenza di Gianni Agnelli, con la fermezza di Giorgio Fattori, il presidente della Rizzoli, e di Gian Arturo Ferrari, oggi gran capo dei libri Mondadori. E il libro-intervista uscì senza ritocchi o pagine soppresse.
In quelle tante pagine dovute alla schiettezza di Romiti, c’è un capitolo di storia italiana che i politici di oggi dovrebbero conoscere. Soprattutto i politici poco disposti o contrari ad aiutare la Fiat che tenta di non morire. Ma la casta legge libri? Temo di no. Tuttavia questo dettaglio non potrà dissuaderci dalla fatica di scriverli.
Giampaolo Pansa