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 2009  febbraio 02 Lunedì calendario

CHI PAGA PER GUANTANAMO


«Il programma di deportazione, detenzione e interrogatorio è stato importante», dichiara il 22 gennaio Mike Hayden agli uomini e alle donne della Cia. Una decina di righe in cui il direttore dell’Intelligence americana prende atto dell’«ordine esecutivo» del Presidente Obama contenente «nuove istruzioni per la detenzione, la deportazione extralegale e gli interrogatori di terroristi catturati». L’America ha voltato pagina. «Quando il Governo cambia la legge o la sua politica - ci tiene a dire il capo degli 007 americani - noi seguiamo l’orientamento senza eccezioni, resistenze o inganno». Del resto, la Cia «ha molti strumenti antiterrorismo nel suo arsenale» e ne farà «il miglior uso possibile» nello «spazio di manovra» che le è stato lasciato, «onorando come sempre - chiude Hayden - le leggi e i valori della democrazia che fedelmente serviamo».
Quelle dieci righe hanno il sapore di un’arringa difensiva di fronte al mondo intero che plaude alla rottura di Obama con la guerra al terrorismo voluta da Bush in nome della sicurezza. «Respingiamo la falsa scelta tra la nostra sicurezza e i nostri ideali», aveva detto il neopresidente il giorno del giuramento, scatenando un’ovazione catartica. stata la frase più applaudita del suo discorso e, forse, anche la più attesa, nonostante la crisi economica che attanaglia l’America. «Torniamo alla Costituzione», aveva aggiunto. Basta con Guantanamo, con le commissioni militari che processano i detenuti senza garanzie, basta con la tortura, con le prigioni segrete della Cia e con i programmi di renditions. Basta con gli arbitrii, insomma. Ma chi ha agito in quella cornice d’illegalità costituzionale non si sente straniero in Patria. Ha eseguito gli ordini del Presidente Bush, che, di fatto, aveva concentrato in sé potere legislativo, esecutivo e giudiziario. Le parole scelte da Hayden non sono casuali. E sono il muro contro cui andranno a sbattere, con ogni probabilità, le legittime richieste di risarcimento di chi è stato privato della libertà senza neanche uno straccio d’accusa, di chi è stato torturato, di chi è stato «deportato» in qualche prigione segreta della Cia nei Paesi in cui la tortura è la normale regola di interrogatorio.
«In America ci sono avvocati bravissimi e sicuramente partiranno le cause di risarcimento, ma altrettanto sicuramente le perderanno», osserva Antonio Cassese, docente di Diritto internazionale nonché primo presidente del Tribunale per l’ex Jugoslavia ed ex presidente del Comitato del Consiglio d’Europa contro la tortura. «Chiunque sia stato privato illegittimamente della libertà ha diritto ad essere risarcito - aggiunge Cassese -, ma l’Esecutivo obietterà di aver agito in base a una political question. Scatta una sorta di immunità, derivante da un ordine del Presidente. Le Corti federali, tra l’altro, sono carenti di giurisdizione perché le political questions rientrano nei poteri del Presidente e l’autorità giurisdizionale non può interferire con il potere esecutivo». «Da un punto di vista formale, la carcerazione dei detenuti di Guantanamo era corretta - aggiunge Ugo Mattei, ordinario di diritto civile a Torino e di diritto internazionale comparato a Berkeley, dove fa anche l’avvocato -. A norme vigenti, quindi, considerato anche che in America non esiste il risarcimento per ingiusta detenzione, nessuno vedrà una lira. Obama dovrebbe dire espressamente il contrario».
Stesso discorso per la tortura. «Le direttive di Bush – spiega Cassese - erano ambigue perché vietavano "mezzi coercitivi che provocano danni permanenti alla persona". Se durante l’interrogatorio ti spezzo una gamba o ti acceco, quella è tortura; non lo è se ti frastorno per giorni interi con una musica assordante o se simulo l’annegamento con il waterboarding. Formalmente, Bush non ha mai autorizzato la tortura, ma ha ristretto moltissimo le cose vietate. Anche in questo caso, il colonnello del Pentagono convocato davanti a un giudice avrà buon gioco a dire che lui eseguiva gli ordini del Presidente». Non a caso - al di là delle Associazioni legali, come Reprieve, che comunque si stanno mobilitando per i risarcimenti - molte Ong stanno valutando se chiamare davanti al giudice direttamente Bush o Donald Rumsfeld, che ormai hanno perduto ogni immunità.
«Il diritto, purtroppo, offre delle strade ma anche delle scappatoie», osserva Cassese, sottolineando, fra l’altro, il «conflitto costante tra il vecchio diritto internazionale, che protegge gli Stati sovrani, e il nuovo diritto internazionale, imperniato sui diritti umani». Secondo Mattei, non bisogna sottovalutare il «valore simbolico del diritto in America», sia nell’era Bush che in quella Obama. «Bush aveva gli strumenti giuridici del sistema americano per fare quel che voleva. Per esempio - spiega -, la dottrina della conspiracy, utilizzata ai tempi del maccartismo e delle emergenze politiche. Bush ne ha fatto un uso propagandistico, l’ha caricata di un significato simbolico. I suoi executive orders erano più a fini propagandistici che di necessità. uscito dalla Corte penale internazionale, a differenza di Clinton che l’aveva voluta. Era un modo per dire che credeva nella legalità interna. Ma negli anni dell’amministrazione Bush, il sistema giuridico americano ha subito un declino a livello planetario. Obama sta cercando di ripristinare la prestigiosissima immagine di legalità degli Usa fondata sui valori costituzionali. E sono convinto che rientrerà nella Corte penale internazionale. Ma anche i suoi ordini hanno un’altissima carica simbolica».
«Non credo che ci sia una carica solo simbolica - obietta Cassese -. Quel che Obama sta facendo ha un valore intrinseco. Qualcuno si aspettava che insieme all’ordine di chiusura di Guantanamo risolvesse anche gli altri problemi sullo status dei prigionieri, sulla loro detenzione e sulla giurisdizione. Ma sono problemi complessi. Obama è stato saggio a prendersi un anno di tempo. Il suo gesto resta un atto bellissimo e restituisce dignità agli americani».