Giovanni Ruggiero, Avvenire 5/2/2009, 5 febbraio 2009
SARDEGNA, UNA CRISI A EFFETTO DOMINO
Immaginate il dòmino: cade una tessera, poi, via via, cadono tutte le altre. Succede così anche per l’industria. Ieri l’Euroallumina di Portovesme, nel Sulcis, ha annunciato la chiusura per un anno. il dòmino sardo: l’ultima tessera, in ordine di tempo, che cade in Sardegna. Finiranno senza lavoro 700 persone, se si considerano anche i lavoratori dell’indotto: un’altra ferita in una regione dove il tasso di disoccupazione, secondo gli ultimi dati Istat, è del 22,03%. Quest’ultima rinuncia della società russa Rusal, che produce ossido di alluminio, sembra così dar voce a quel ’sardismo’ che negli anni ”70 – quando l’industrializzazione dell’Isola già deludeva le speranze – sosteneva con orgoglio: «Meglio puzzare di pecora che di petrolio». I fatti danno loro ragione?
Il cuore industriale pulsante della Sardegna era nella media valle del Tirso, tra Ottana, Siniscola e Marcomer, nell’intersezione degli assi viari a ipsilon Olbia-Nuoro e Cagliari- Sassari. A Ottana oggi è quasi il deserto, dopo che è venuto meno anche il contributo previsto con il sistema delle partecipazioni statali che aveva solo rallentato la crisi. Si è polverizzato anche tutto il sistema della piccola e media industria che operava nel tessile. Da queste parti si produceva un denim sardo per i jeans di tutto il mondo. Le prime tessere sono cadute qui. Il cuore industriale sardo era concepito con il sistema della filiera produttiva. Tutto in qualche modo era collegato, fino alle tre grandi imprese a grande consumo di energia del Sulcis, come la Portovesme Srl, l’Alcoa e l’Euroallumina, che ieri ha annunciato la chiusura per un anno.
Sono almeno due le ragioni di questa crisi: il costo dei trasporti e il costo insostenibile dell’energia elettrica, specie per le aziende più ’energivore’. Entrambe le cause si spiegano poi con l’isolanità della Sardegna, che di fatto l’ha penalizzata. Carlo Lòlliri è amministratore delegato di una di queste industrie che mangiano elettricità. «La madre di tutte le crisi – è pronto a dire – è l’energia’, e fa un esempio: la sua società, la Portovesme Srl, spende 80 euro per megavattore contro i 30-35 euro che una stessa industria spende in Germania, in Belgio o in Francia: «Anche noi, come loro, siamo in Europa, perché dunque per noi i governi che si sono succeduti non hanno mai trovato forme di agevolazioni? ». Qualcosa si è fatto, ma è tutto fermo alle intenzioni. Il 19 gennaio 2007 la Commissione europea dovette riconoscere che la Sardegna era un fatto eccezionale a causa della ’isolanità’. Si parlò anche di ’energia virtuale’: lo Stato, cioè, avrebbe dovuto mettere a disposizione energia a prezzi competitivi. Bene, se n’è parlato. Ed è finito qui. «Bisogna decidere – dice Lòlliri – misure definitive e concepire strutture per integrare l’energia proveniente dal carbone con quella della centrale elettrica che è nell’Isola». Lòlliri è un amministratore delegato per certi aspetti singolare. Non si preoccupa solo della produzione di zinco e piombo della sua azienda: «Un’industria – precisa – non è solo una questione di macchine, ma è fatta di uomini. Da qui l’obbligo, anche in momenti di crisi, di gestire le difficoltà in modo intelligente creando meno problemi sociali possibili». Ma i problemi esistono e sono gravi. Franco Manca, che dirige il Centro studi dell’Unione
Sarda, sintetizza questa difficoltà con pochi dati della loro ultima ricerca. « cresciuto - spiega - il numero di famiglie che vivono al di sotto della linea di povertà. Oggi la percentuale è del 22,9%. Nel 2003 era del 13,3%. Tutto il settore industriale ha fatto registrare negli ultimi anni la perdita di 6mila posto di lavoro». C’è l’altra risorsa, l’attività agro- pastorale, che però non ha raggiunto gli obiettivi, a parte qualche «eccellente eccezione», come le chiama Manca. «Fatto 100 il totale delle nostre esportazioni – esemplifica l’economista – , l’80% deriva da prodotti chimici, metallurgici o petrolchimici. Il prodotto agroalimentare rappresenta solo il 4,5%. Va da sé che se l’esportazione della grossa industria rallenta, rallenta tutta la nostra economia ». di questi giorni un’altra ricerca della EuRa Spa, l’agenzia di credit rating diretta da Maurizio Fanni, docente di finanza aziendale all’Università di Trieste. Non è proprio tutto nero: nel 2007, ad esempio, il 29,3% delle imprese sarde mostra una solvibilità notevole, mentre solo il 2,4% è a un passo dal fallimento. La percentuale di aziende con problemi finanziari è però notevole e preoccupante: è il 68,2%, con punte massimo in quelle dell’Ogliastra (7,4%), di Cagliari 86,1%) e Oristano (69,1%). «Le spiegazioni – sottolinea Fanni – sono diverse. Per cominciare, l’introduzione di cambiamenti delle regole che, al di là delle buone intenzioni, hanno provocato danni. La Sardegna, per promuovere l’industrializzazione, avrebbe poi dovuto creare i distretti, come è avvenuto nella mia regione, il Friuli. Il distretto avrebbero consentito che la polverizzazione delle piccole imprese fosse regolata, con la possibilità di essere sostenute nel sistema». Sono solo alcune delle spiegazioni, perché poi c’è da lamentare la scomparsa di banche territoriali, le responsabilità politiche e le ’ vischiosità’ che si sono create. Fanni sintetizza con un paradosso: «Dove la politica è stata più distante dal sistema produttivo, è stato registrato una maggiore crescita di valore aggiunto».
Crisi vecchia, dunque, che oggi diventa crisi nella crisi più generale. Già negli anni – 70, infatti, si parlava di rinascita fallita. «C’è da parte dei sardi colti – nota Giulio Angioni, antropologo all’Università di Cagliari – la tentazione di affermare che l’avevano detto, che la modernizzazione, cioè, non avrebbe portato da nessuna parte. Tutto questo dà voce ai ’sardisti’ che hanno sempre sostenuto che andavano valorizzate le culture e le potenzialità locali, senza importare la chimica e il petrolio. Il problema – aggiunge – è che in questi anni, su questi temi, si sono creati due pensieri contrastanti ed opposti: i localisti a oltranza e i fautori dell’industrialismo altrettanto oltranzisti » . La virtù si sarebbe collocata nel mezzo. Chissà se la Sardegna è ancora in tempo.
NUOVI POVERI E NUOVE SOFFERENZE-
La ricaduta sociale della ’ rinascita industriale’ che non c’è stata, almeno non nella misura sperata, è grave. La dimensione del disagio si legge indirettamente dagli interventi della Caritas, e parliamo solo di quella cagliaritana, con ben dieci Centri di ascolto. Solo nel Centro di via Po, nel periodo della rivelazione statistica 2006- 2008, son passate 2mila persone. In gran parte disoccupati, anziani con pensioni minime, ragazze madri
e i cosiddetti nuovi poveri, quelle persone con un reddito che fino a pochi anni fa consentiva una vita decorosa, ma che oggi sono costrette a cercare un qualche sussidio per arrivare a fine mese. « un mondo – ha modo di dire monsignor Marco Lai, direttore della Caritas diocesana di Cagliari – che continua a mantenere i tratti distintivi della povertà che si associa alla mancanza di lavoro e di istruzione, alla precarietà dell’ambito familiare e spesso al coinvolgimento delle donne » . La disoccupazione è la prima sofferenza. Nel primo trimestre del 2008 sono stati persi in Sardegna 4mila posti di lavoro, e la disoccupazione è cresciuta di 20mila unità. L’Agenzia regionale del lavoro ha scritto testualmente: « Il tasso di disoccupazione nel primo trimestre dell’anno si colloca al 13,5%, nell’ultimo trimestre del 2007 era dell’ 11,2%. La differenza nell’arco dei sei mesi considerati è pari a quasi cinque punti percentuali, una
performance negativa che non trova precedenti nella serie storica degli ultimi 15 anni » . Nel secondo trimestre del 2008 un ulteriore tonfo: la disoccupazione è cresciuta di 23mila unità rispetto all’anno precedente.
La disoccupazione è però fantasma. A leggere i dati Istat, c’è un numero di disoccupati che è sparito dalle graduatorie. Non sono persone che hanno trovato lavoro, ma persone che, a causa dello scoraggiamento, non cercano più lavoro attivamente. I disoccupati ci sono sempre, ma in Sardegna è giusto chiamarli ’ scoraggiati’. L’Istat ha quindi distinto tra quelli che ’ cercano lavoro non attivamente’, che passano nell’Isola da 42mila unità nel 2004 a 52mila nel 2007, e coloro che ’ non cercano lavoro, ma sono disponibili a lavorare’, che crescono di 212mila unità, passando da 42mila nel 2004 a 54mila nel 2007. Chiamateli come volete: sono sempre 106mila persone che, aggiunte ai disoccupati ufficiali, portano il tetto a 173 mila unità.
Anche la povertà è stata fotografata.
In Sardegna, le famiglie considerate povere sono il 15,9% del totale, e la percentuale è in costante crescita: 15,4% nel 2004, 13,1% nel 2003. Un’altra fonte conferma la portata di questa povertà. quella dell’Inps. Dice che la pensione erogata in Sardegna nel 54% dei casi è inferiore ai 500 euro, e per altro 27% risulta inferiore ai mille euro. Gioca forza che calassero in questo ultimo periodo i consumi delle famiglie: quelli alimentari sono diminuiti di 23 euro al mese, passando da 457 a 434 euro, mentre per i consumi non alimentari la diminuzione è stata di 134 euro mensili ( da 1.727 euro a 1.593).
Tutto questo ha favorito la fuga dall’Isola. Il programma del governo regionale uscente si preoccupava dello spopolamento e prometteva: « Il governo intende combattere questa prospettiva contribuendo, in primo luogo, a definire le regole condivise che consentano uno sviluppo turistico equilibrato e sostenibile con un forte grado di integrazione tra zone costiere e zone interne » . Tutto questo non è avvenuto. La Sardegna ha ripreso la strada dell’emigrazione verso il Nord, lo spopolamento dei centri minori, specie di quelli interni che non offrono alternative, lo dimostra. Continuano infatti a spopolarsi i piccoli comuni con meno di 2mila abitanti e si popolano le grandi città e i centri costieri, grazie al turismo, qualche possibilità di lavoro in più è offerta.